Interventi

Sulla letteratura che ci circonda (a partire da Gianluigi Simonetti)

gianluigi simonettidi Rino Genovese

[Il 7 giugno scorso, organizzato da Anna Gialluca presso la sede romana della casa editrice Laterza, si è tenuto un interessante seminario intorno a un recente volume di Gianluigi Simonetti, con interventi, tra gli altri, di Walter Siti, Domenico Starnone, Andrea Cortellessa, Guido Mazzoni, Raffaele Donnarumma, Gilda Policastro. Quello che segue è un mio contributo alla prosecuzione del dibattito. – R. G.]

Si dev’essere grati a Gianluigi Simonetti per il suo La letteratura circostante (Bologna, il Mulino, 2018) che ci permette di entrare nella selva della editoria italiana contemporanea, di prendere contatto con libri di cui mai avremmo immaginato l’esistenza, di addentrarci in un’imbecillità che, pur scafati, neppure il nostro peggiore pessimismo sarebbe riuscito a figurarsi. Come lettori critici dobbiamo essergli grati. Come scrittori molto meno: perché – se ancora ambissimo a esserlo – nel panorama che egli disegna non vorremmo essere inseriti, o, se un tempo lo fummo, in siffatta compagnia non è confortante essere confusi. Ci sono, nelle analisi proposte dal libro, in ordine d’insulsaggine, i politici e gli sportivi che si scoprono narratori, gli autori che sono per sonaggi televisivi (da Alba Parietti a Flavio Insinna, da Fabio Fazio a Maurizio Costanzo), i giornalisti che si danno al romanzo (magari sfruttando la notorietà televisiva), gli scrittori “giovani” o giovanilisti, i memorialisti della lotta armata degli anni settanta, gli autori di genere (un notevole studio, a tratti esilarante, è dedicato da Simonetti al “neo-rosa” che ha in Moccia il suo campione).

Dal libro si ricava l’impressione che la letteratura da cui siamo assediati sia solo un enorme megagenere editoriale; in altri termini, non esiste letteratura se non colonizzata da quelle che si possono chiamare le agenzie dell’estetizzazione diffusa, entro cui rientra a pieno titolo la maggior parte della case editrici. Si tratta delle eredi della industria culturale: se in questa si potevano individuare delle differenze di livello all’interno di una produzione “media”, se soprattutto il discorso di un autore poteva ancora introdurre il suo sassolino nella macchina, oggi, nell’editoria dell’estetizzazione diffusa, non più. Perciò il concetto di “nobile intrattenimento” (espressione che Simonetti riprende da un innominato editor che sembra avere le sembianze di Antonio Franchini, considerato nel libro a sua volta in quanto autore in proprio) diventa a dir poco problematico, sommersa com’è – la nobiltà – sotto una produzione che per contrasto, sebbene Simonetti non ricorra mai a questo termine, andrebbe definita plebea.

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Tanfo di morte

Spreaddi Luca Lenzini

Ma non così, e soprattutto: non proprio ora!… Ora, che per una volta il disco rotto della storia italiana sembrava ricominciare con una musica tutta nuova, un soundtrack strano e sublime per scenari inediti e neanche visitati in sogno: come in certi filmati di grandi tornado in terre lontane, quando tetti di case, auto e ramaglie volano via vorticando in spirali di vento rapinoso e indomabile, così pareva accadere ai discorsi dei politologi di razza, ai moniti degli insigni costituzionalisti, ai sermoni di Scalfari e alle imitazioni di Crozza: tutti scaraventati di qua e di là, in frantumi, polverizzati, stravolti, insieme ai resti di Fazio e di Vespa, agli assegni delle Olgettine e ai flyers della Leopolda… Tutto oscillava, nulla reggeva durante gli Indimenticabili Ottantanove. Qualcosa di arcaico e anteriore attraversava il paese; in uno sciame mai visto di pixel si annunciava un futuro inconoscibile, forse insostenibile ma dai riflessi così abbaglianti, così stupefacenti che d’un tratto sembrarono ridestarsi spettri dimenticati, dormienti da secoli, invendicati e irredenti. Il passato prossimo diventava remoto a velocità impressionante. Dai tetti del Quirinale e dai recessi del Parlamento fino alle più sperdute sagre della provincia viaggiavano messaggi e post che aizzavano le piazze, i Corazzieri sparivano dal set della Crisi e come in un film di Buñuel nei palazzi romani altezzosi ministri di dubbia fama, gran dame dai cognomi plurimi e tecnici di alta scuola entravano e uscivano da porte secondarie e da scuderie dismesse.

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Con Mimmo Lucano, per l’utopia concreta

Mimmo Lucanodi Marco Gatto

Siamo solo all’inizio, qualcuno dice. E non a torto. Ai toni virulenti della campagna elettorale di qualche mese fa rispondono oggi gli schiamazzi tribunizi di Matteo Salvini, nuovo titolare degli Interni, e le inconsistenze retoriche di Luigi Di Maio, capo politico dei pentastellati: da una parte, il fascio-leghismo; dall’altra parte, il grillismo qualunquista, che con il primo va tranquillamente a braccetto, dimostrando la propria mancanza di spina dorsale. Non riuscirà il premier incaricato a moderare queste pericolose emanazioni del post-berlusconismo, dal momento che e Salvini e Di Maio incarnano perfettamente lo spirito dei tempi che si è impadronito del nostro Paese. Dietro il volto apparente del governo di scopo, condito di una buona dose di ministri tecnici, si cela una non ancora meglio codificata narrazione identitaria, qualcosa che del populismo ha solo in una minima parte le sembianze. Perché più a una forma di retrivo tribalismo somiglia che a uno stile politico contrassegnato dalla semplificazione retorica di certe istanze.

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A partire da Rahel Jaeggi e dalla rivista “Consecutio rerum”

 

Discussione a più voci a partire dal volume di Rahel Jaeggi
Forme di vita e capitalismo
e dagli ultimi numeri della rivista “Consecutio rerum

21 maggio 2018, h. 17.00
Fondazione Circolo Rosselli
Via degli Alfani 101
Firenze
Partecipano:
Roberto Finelli
direttore di “Consecutio rerum”
Rino Genovese
direttore della collana “La critica sociale” di Rosenberg & Sellier
Mario Pezzella
filosofo e saggista
Marco Solinas
curatore del volume di Rahel Jaeggi
Debora Spini
filosofa della politica

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Utopia. La parola e la cosa

Angela Felicedi Antonio Tricomi

[In ricordo della nostra amica Angela Felice, direttrice del Centro Studi Pasolini, con cui la Fondazione per la critica sociale ha stabilito nel tempo solidi rapporti, ripubblichiamo qui la postfazione di Tricomi al suo volume L’utopia di Pasolini, Udine, Bottega Errante, 2017.]

È proprio come spiega Angela Felice in questo suo libro. Ha appena superato i vent’anni, Pasolini, quando, in una lettera a Luciano Serra, attribuisce a sé, e ai suoi coetanei, «una missione non di potenza o di ricchezza, ma di educazione, di civiltà», cui egli si sforzerà di non venire mai meno e per il buon esito della quale giudicherà sempre cruciale il magistero di un uomo di pensiero, e in special modo del poeta, umanisticamente inteso – per dirla con Bauman – quale «intellettuale-legislatore». Per costui, all’indomani della caduta del Duce, si tratterà, nell’ottica di Pasolini, di gettare le basi culturali per quella rigenerazione anzitutto morale di cui il Paese ha bisogno dopo un ventennio di dittatura fascista ritenuto il trionfo delle onnipervasive, e grette, logiche borghesi. A repubblica istituita, l’uomo di sapere dovrà invece contribuire a rendere quest’ultima non una forma nuova, e però ugualmente asfittica, del dominio borghese, ma un’autentica democrazia, e potrà farlo accettando il ruolo di laica coscienza critica della società.

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Addio a Angela Felice

Angela Felicedi Massimo Raffaeli

[Questo articolo è apparso sul “manifesto” del 4/5/18.]

Angela Felice, mancata a Udine il 2 maggio, era una umanista nel senso più compiuto perché associava la cultura rigorosa a una passione che decenni di lavoro e di impegni istituzionali (dal 2009 era direttrice del Centro Studi “Pier Paolo Pasolini” di Casarsa della Delizia) non avevano in niente scalfito. Il suo sorriso, la sua eleganza, il profilo mitteleuropeo davano infatti una speciale luminosità alla tenacia e al suo grande fervore organizzativo. A lungo docente liceale, Angela Felice lascia una cospicua bibliografia critica, dalla Introduzione a D’Annunzio  (Laterza 1991) a numerose monografie teatrali, tra cui L’attrice Marchesa, uno studio su Adelaide Ristori edito da Marsilio nel 2006. E proprio il teatro era stato il suo amore primordiale, come testimonia non soltanto una longeva attività di critica militante al “Gazzettino” ma l’impegno diretto sia nel “Palio studentesco udinese” (una vera couche, una forgia di giovani talenti) sia nella direzione del Teatro Club di Udine.

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Lo spazio dell’intellettuale oggi

 

Intellettuale oggidi Rino Genovese

[Questo intervento è stato presentato all’Unione culturale Antonicelli di Torino il 9 marzo 2018, nell’ambito dell’incontro “Teorie e pratiche di critica sociale”].

Stando a una pura constatazione sociologica, lo spazio dell’intellettuale si è enormemente ampliato rispetto a ieri, intendendo con “ieri” essenzialmente la seconda metà del Novecento. Ciò è del tutto scontato, ed è da collegare con la fine di un modo ristretto di considerare la cultura. Un tempo aveva perfino fatto scandalo che potessero esserci libri tascabili, edizioni a poco prezzo dei classici della letteratura, oppure che il latino, con la riforma della scuola media unica, fosse diventato una materia secondaria. Accadeva in Italia nei primi anni sessanta: un’istruzione riservata a una élite e un sistema scolastico programmaticamente classista andavano dissolvendosi. Se fossimo beatamente progressisti, dovremmo dire che ne è stata fatta di strada. Ma il progresso civile (chiamiamolo così, con una vecchia espressione di sapore illuministico) non procede secondo una linea retta e nemmeno a spirale: piuttosto è fatto di segmenti spezzati che soltanto a montarli insieme con un certo sforzo compongono la figura di un progresso rispetto a qualcosa che c’era prima.

Così, se anche il campo di ricezione di qualsiasi messaggio intellettuale si è ampliato (da ultimo con Internet), è vero tuttavia che esso è diventato una semplice schiuma nella congerie caotica dei messaggi di cui è fatta la comunicazione corrente, entro cui è diventato difficile distinguere i contributi di qualità dal ciarpame. La fine della “cultura alta”, prevalentemente umanistica, è stata vissuta da molti come una perdita; ma si è trattato di una trasformazione storica che, se non altro, ha messo fuori causa una tradizione culturale impregnata di retorica. Va sempre sottolineato come la critica dei consumi – in questo caso dei consumi culturali – abbia spesso un segno conservatore. E poi certo anche un segno del tutto opposto, purché però si sappia fare la critica di una certa critica.

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Storia economica della felicità

3 maggio 2018, ore 15.00

Polo delle Scienze Sociali, via Pandette 9, Aula D6/106

Interverranno:

Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale

Stefano Bartolini, Università di Siena

Nicolò Bellanca, Università di Firenze

Moderatore: Renato Giannetti, Università di Firenze

Incontro patrocinato dal Dipartimento di Scienze per l’Economia e l’Impresa e dal Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali

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La Germania deve pagare

Il 20 aprile 2018, alle ore 16, la Fondazione per la critica sociale promuove l’incontro

La Germania deve pagare per stragi e deportazioni: la memoria spesata non è risarcimento

Aula didattica del Museo storico della Liberazione, via Tasso 145, Roma.
Intervento introduttivo di saluto di Antonio Parisella, presidente del Museo.

Interverranno il magistrato Luca Baiada e l’avvocato Joachim Lau.

Sui crimini nazifascisti – stragi e deportazioni di italiani, civili e militari, dal 1943 al 1945 – si sono intrecciate fasi di oblio, ricerche serie, memorie accomodate. Dopo la riapertura dell’Armadio della vergogna, emerso anche per l’impegno del giornalista Franco Giustolisi, sono stati celebrati processi penali, conclusi con sentenze clamorose, ma non eseguite per la mancata collaborazione della Germania.
Al posto della giustizia concreta, adesso si notano commemorazioni, monumenti e prodotti culturali discutibili sul piano storiografico, come l’Atlante delle stragi, pagati prevalentemente dallo Stato tedesco, che ammette le sue colpe morali ma respinge le conseguenze pratiche. Queste iniziative riparazioniste non possono rimpiazzare il risarcimento economico, che resta dovuto.
Dopo una decisione del 2012 della Corte internazionale di giustizia, sfavorevole ai cittadini italiani, nel 2014 una sentenza della Corte costituzionale ha ristabilito che si può chiedere a un giudice italiano di condannare lo Stato tedesco ai risarcimenti, sia per stragi che per deportazioni.
Sono in pieno svolgimento da un lato l’impegno processuale per la giustizia, sostenuto da solidi principi giuridici, e dall’altro lo sforzo diplomatico tedesco, con silenzi o sostegni da parte dell’Italia, per non pagare i risarcimenti agli interessati.

Segreteria:
Fondazione per la critica sociale
c/o «Il Ponte»
via Manara 10-12 – 50135 Firenze
fondacritisoc@gmail

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Capire il presente. Parole della politica

Capire il presente. Parole della politica

Venerdì 23 marzo 2018
ore 17.30
Partiti /Movimenti
Mario Caciagli
Università di Firenze
Donatella Della Porta
Scuola Normale Superiore Pisa

Venerdì 20 aprile 2018
ore 18.00
Nuove schiavitù /Lavoro
Maurizio Landini
Segreteria nazionale Cgil
Andrea Valzania
Università di Siena

Venerdì 18 maggio 2018
ore 18.00
Individuo /Socialismo
Rino Genovese
Filosofo e saggista
Nadia Urbinati
Columbia University

Capire il presente. Parole della politica

Dewey, la democrazia come ideale regolativo

Deweydi Rosa M. Calcaterra

Si sa bene che le vicende editoriali hanno un peso decisivo nella ricezione degli autori di qualsiasi orientamento o ambito culturale, e certamente il caso delle Cina Lectures di John Dewey è molto interessante anche da questo punto di vista. Perciò bisogna innanzi tutto dare atto ai promotori della recente edizione italiana del corso di lezioni di filosofia sociale e politica che Dewey tenne durante i due anni trascorsi in Cina tra il 1919 e 1920 (J. Dewey, Filosofia sociale e politica. Lezioni in Cina, Rosenberg & Sellier 2017) di avere colmato una lacuna nell’editoria italiana che, del resto, va registrata anche a livello europeo. Questa prima traduzione italiana delle lezioni deweyane è accuratamente condotta da Corrado Pirotti sulla base delle “Notes” redatte da Dewey stesso per l’occasione e pubblicate per la prima volta in versione integrale nel 2015 sullo “European Journal of Pragmatism and American Philosophy” per la curatela di Roberto Frega e Roberto Gronda.

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Fortini e il ’68

Franco Fortinidi Luca Lenzini

[Intervento al cicloFranco Fortini e gli anni 68, coordinato da Pier Paolo Poggio, Fondazione Luigi Micheletti, Brescia, 2 ottobre 2017, nell’ambito del centenario della nascita di Fortini.]

Quando mi è stato chiesto di intervenire su Fortini e il ’68 ho pensato che un modo per affrontare un tema così impegnativo, e con una bibliografia tutt’altro che esigua, poteva essere quello di partire da un flash, da un momento specifico, lasciando alla discussione il compito di tentare sintesi e svolgere discorsi più ampi. Un episodio significativo, da leggere nel contesto del lungo lavoro intellettuale di Fortini, del suo “impatto” sulla cultura circostante, mi è parso allora quello che data all’anno precedente, 1967: per la precisione 23 aprile 1967.

Firenze, piazza Strozzi. La piazza è colma di studenti convenuti per una manifestazione contro la guerra del Vietnam. Dal ’65 gli Stati Uniti bombardano il Vietnam del Nord con una intensità che supera di molto quella della campagna contro la Germania nazista: è l’operazione Rolling Thunder, che tuttavia non impedirà, come sappiamo, la vittoria finale dei vietnamiti. Anche a Berlino, a Pechino gli studenti sono in rivolta, e di lì a poco lo saranno a Berkeley (“The Summer of Love”). Proprio quel giorno era arrivata, inoltre, la notizia del colpo di stato in Grecia. Anni dopo, ha scritto Fortini (cito da Notizie sui testi in F. Fortini, Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano, 2003, p. 1794):

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Pasolini senza pasolinismi

Pier Paolo Pasolinidi Rino Genovese

[Questo breve saggio è tratto dal volume collettivo Lo scrittore al tempo di Pasolini e oggi. Tra società delle lettere e solitudine,, a cura di Angela Felice e Antonio Tricomi, Venezia, Marsilio, 2017.]

Certo, se si assimila il neoliberalismo, o la liberaldemocrazia in genere, a un capitalismo imperiale privo di attriti consistenti, a un impero del mercato, a una variante del totalitarismo, beh, allora ci sta che la cosiddetta globalizzazione altro non sia che l’intensificazione e lo sviluppo di ciò che Pasolini denunciava a suo tempo come omologazione culturale1. Ma i fatti, nei decenni trascorsi dalla morte del poeta corsaro a oggi, si sono incaricati di mostrare che la sua era una diagnosi sbagliata. Come inesatte si sono rivelate, in un senso più ampio, le teorie sociologiche circa la secolarizzazione e la modernizzazione incessanti a cui sarebbe stato destinato l’intero globo terrestre.

Si comincia già nel 1979, a soli quattro anni dalla scomparsa di Pasolini, con la rivoluzione iraniana che nacque senza dubbio da un sollevamento popolare antimperialista, ma quasi subito prese una piega imprevedibile stando al dogma di una modernizzazione planetaria. Fu infatti segnata da una svolta teocratica (su cui un osservatore come Foucault aveva inizialmente scommesso, parlando di una «spiritualità politica», salvo prenderne rapidamente le distanze), né marxista né liberale ma neotradizionale, nel senso di una tradizione culturale e religiosa reinventata in maniera immediatamente politica.

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Un convegno, un libro, un viaggio nella letteratura italiana della modernità

Pier Paolo Pasolinidi Angela Felice e Antonio Tricomi

[Esce in questi giorni il volume Lo scrittore al tempo di Pasolini e oggi. Tra società delle lettere e solitudine, a cura di Angela Felice e Antonio Tricomi, Marsilio, Venezia, 2017, pp. 269, € 25,00. Se ne riproduce qui la premessa.]

Per la gran parte, questo libro scaturisce dal convegno cui anche deve il titolo: “Lo scrittore al tempo di Pasolini e oggi, tra società delle lettere e solitudine”, tenutosi l’11 e 12 novembre 2016 e organizzato dal Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia [con il sostegno della Fondazione per la critica sociale]. Con l’aggiunta di qualche altro contributo richiesto dai curatori a saggisti in varia maniera interessati all’opera del poeta delle Ceneri, esso ospita infatti le relazioni dei critici intervenuti in quell’occasione e i lavori della tavola rotonda tra scrittori con cui le due giornate di studio si conclusero.

Le intenzioni del convegno erano perciò le stesse che animano il presente volume. Tentare, da un lato, una ricognizione della società letteraria italiana del secondo Novecento dalla quale potesse, e quindi possa, emergere la fitta rete di rapporti tessuta da Pasolini con molti tra i migliori autori del suo tempo. Chiedere, dall’altro lato, ad alcuni scrittori in attività, appartenenti a generazioni diverse, di confrontarsi con l’eredità del pedagogo “luterano”, per poi dire la loro sullo stato di salute e sul ruolo, oggi, della letteratura, come pure su quelle tendenze documentarie, o comunque ibride, che sembrano attualmente ispirare una quota assai significativa della produzione romanzesca non solo nazionale.

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Seminario di filosofia politica e sociale

Università di Parma – Dipartimento DUSIC
Unità di Filosofia Aula di Presidenza
Via D’Azeglio 85

07-11-2017

h 14.00-19.00

SEMINARIO DI FILOSOFIA POLITICA E SOCIALE
La societa degli individui – Quadrimestrale di Filosofia e teoria sociale
PhD School in Philologico-Literary,
Historico-Philosophical and Artistic Sciences

Interverranno

Rosa M. Calcaterra (Università Roma 3)
Federica Gregoratto (Università di St. Gallen)
Roberto Gronda (Università di Pisa)
Corrado Piroddi (Università di Jyväskylä)
Matteo Saltarelli (Università del Molise)
Rino Genovese (Fondazione per la Critica Sociale)
Italo Testa (Università di Parma)

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Leggere Rahel Jaeggi in Italia

Rahel Jaeggidi Marco Solinas

[Intervento introduttivo alla giornata di studi con Rahel Jaeggi promossa dalla Fondazione per la critica sociale, Università di Parma, 20 febbraio 2017.]

I cinque saggi raccolti nel volume Forme di vita e capitalismo veicolano una serie di questioni, temi e istanze affrontati dalla nuova teoria critica nel quadro di un ampio dibattito internazionale, che qui da noi non sembrano essere stati ancora pienamente metabolizzati. La maniera in cui Rahel Jaeggi affronta questi snodi rilancia in modo innovativo alcune posture della tradizione della sinistra hegeliana, e credo che possa rivelarsi particolarmente feconda nel quadro delle attuali discussioni anche in Italia. Così come spero che dal processo di ricezione, discussione e ibridazione – di cui questa giornata di studi promossa dalla Fondazione per la critica sociale rappresenta un primo passo – la nuova teoria critica possa a sua volta trarre giovamento, anzitutto rispetto a quelli che potremmo considerare gli specifici deficit inerenti alla dimensione della teoria politica ad essa connaturati.

Vorrei qui delineare tre possibili piste interpretative: 1) la rielaborazione della critica immanente può condurre senza alcuna forzatura, ma anzi naturalmente, al tema del ruolo dell’intellettuale, e più in generale alla riflessione sulle diverse modalità e figure della critica sociale, incrociando la tradizione di matrice gramsciana; 2) l’analisi della forma di vita capitalistica proposta da Jaeggi può contribuire a spostare l’attenzione da un’analisi prevalentemente “biopolitica”, oggi predominante in Italia, al capitalismo quale oggetto teorico prioritario, riattivando così l’eredità della sinistra hegeliana; 3) infine, l’adesione di Jaeggi alla svolta neo-hegeliana può risultare di grande interesse anche rispetto alla problematizzazione dell’eredità del normativismo di orientamento kantiano di Habermas, ben recepito e assimilato negli anni scorsi in Italia, e ora messo in discussione nel profondo.

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In memoria di István Mészáros

Mészárosdi Marco Gatto

[István Mészáros è scomparso il 1° ottobre 2017. Per onorarne la memoria, ripubblico qui la mia recensione a Oltre il capitale, apparsa sul quotidiano “il manifesto” il 25 agosto 2017. – M. G.]

István Mészáros, classe 1930, è forse il solo allievo diretto di Lukács che non abbia ricusato la lezione del maestro, con l’ovvia ambizione di riformularla e renderla attuale. Oltre il capitale. Verso una teoria della transizione (Milano, Punto Rosso, pp. 908, euro 40) è un lavoro monumentale, una sorta di compendio sistematico per l’analisi del capitalismo contemporaneo, un’opera per certi aspetti straniante, perché legata a una tradizione di analisi e di proposta filosofico-politica distante dall’impressionismo teorico dei nostri tempi. Per questo la scelta coraggiosa dei curatori (Nunzia Augeri e Roberto Mapelli) di presentarla nella sua completezza marmorea dev’essere apprezzata e sottolineata: del resto, se il marxismo ha l’ambizione di porsi come visione alternativa al dominio del capitale, la sua validità, in un momento che sembra decretarne la scomparsa o l’integrazione, passa da una verifica concettuale permanente, che di certo costa tempo e fatica.

Mészáros è uno hegelo-marxista; da Lukács ha acquisito la necessità di un pensiero della totalità, e ha reso questo concetto più dinamico attraverso lo studio di Sartre. Ma, in ragione di un oltrepassamento di tali importanti riferimenti, è convinto che l’oggetto ultimo della riflessione debba essere il superamento del capitale e, in particolare, la forma assunta dalle sue crisi strutturali. L’offensiva socialista si gioca, per Mészáros, sul terreno di una politica radicale che pone il lavoro come premessa della transizione: proprio perché il capitale gioca la sua partita sulla divisione del lavoro (che perdura, sottolinea lo studioso, anche laddove il capitalismo non sembra sussistere, com’è accaduto in Unione Sovietica) e sul suo controllo, è l’occupazione a costituire il vero fattore della trasformazione sociale. La liberazione pertiene al lavoro e alle modalità con cui quest’ultimo viene strutturato in una società liberata: senza una politica in grado di accordare al lavoro le qualità determinanti che secondo Marx poneva in essere, senza una politica che trovi nel lavoro un esempio differente di socializzazione, non può darsi transizione al socialismo. La lezione dell’ultimo Lukács ridiventa qui centrale.

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A proposito di Rahel Jaeggi

Rahel Jaeggidi Rino Genovese

Non certo per puro mecenatismo la Fondazione per la critica sociale ha promosso la pubblicazione della raccolta di saggi di Rahel Jaeggi, ben curati da Marco Solinas sotto il titolo Forme di vita e capitalismo. La ragione è di fondo: siamo interessati agli sviluppi – in Germania e altrove – della tradizione della teoria critica francofortese, ne studiamo i diversi aspetti riservandoci su ciascuno di essi un giudizio autonomo, come dev’essere nelle questioni di teoria se si vuole che la discussione e il sapere avanzino.

Con Jaeggi (come già nel caso del suo maestro Axel Honneth) siamo all’interno di uno dei ricorrenti ritorni a Hegel che già caratterizzarono la filosofia del Novecento. Sembra proprio che di Hegel – in Germania ma anche altrove – non si riesca a fare a meno. Così la stessa ripresa di Adorno e della sua “critica delle forme di vita” (nel saggio sui Minima moralia che apre il volume) è in effetti un ritorno a Hegel, o, più precisamente, a un’idea aristotelico-hegeliana della “vita buona”. Anche se Jaeggi tiene a precisare che non si tratta d’indicarne in maniera paternalistica una volta per tutte le caratteristiche: aprendo in questo modo a un indebolimento in senso pluralistico della prospettiva etica, per il quale del resto ci sono le premesse già nello stesso Hegel che considerava la modernità come inevitabilmente “riflessiva”, mentre l’ethos di una forma di vita come quella dell’antica polis greca era qualcosa di totalizzante e indiscutibile.

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Nella fossa dei leoni. A proposito di intellettuali e destino

intellettuali

di Luca Lenzini

[Intervento all’incontro A cosa servono gli intellettuali oggi, Torino, 20 aprile 2017].

«You call it luck, I call it destiny»
Danny Dravot a Peachy Carnehan,
The Man who would be a King

1. «Ah elle est bonne

Negli anni Settanta Gilles Deleuze e Michel Foucault negavano apertamente agli intellettuali il diritto di “parlare per gli altri”, in coerenza con una contestazione altrettanto radicale del concetto di rappresentanza. Per questo un libretto che raccoglie le conversazioni di quel periodo tra Deleuze e altri (oltre a Foucault, Toni Negri, Félix Guattari, Guy Dumur), riproposto ora in Italia da Medusa, può legittimamente intitolarsi La fine degli intellettuali1. La prospettiva in cui s’inserivano quei discorsi, infatti, era in chiave con una idea di rivoluzione sociale – niente di meno – quale a partire dalla fine del decennio precedente aveva avuto corso non solo in Europa, ma anche negli U.S.A. e in America latina. Verso la fine degli anni Ottanta Zygmunt Bauman pubblicò poi un libro intitolato Legislators and Interpreters2, titolo che nell’edizione italiana passò a sottotitolo, mentre nel frontespizio ne campeggiava un altro, La decadenza degli intellettuali3. Potrebbe sembrare che vi sia continuità tra la fine auspicata da Deleuze e la decadenza annunciata da Bauman, ma le prospettive erano invece profondamente diverse e c’era di mezzo una svolta epocale. Non a caso, Bauman in chiusa al suo saggio affrontava di petto il tema del Post-moderno, e lo faceva riproponendo in positivo una tradizione coincidente con quella stessa della Modernità, ovvero il progetto di emancipazione e autonomia di cui la cultura neoliberista, presentandosi come continuatrice, si è in realtà bravamente sbarazzata. Chissà se il traduttore italiano (o l’editore stesso di Legislators, Alfredo Salsano, un intellettuale d’indubbio spessore), così interpretando il titolo del libro, abbia allora inteso connotare l’evoluzione (o involuzione) indicata da Bauman partendo dall’assunto che l’idea di decadenza, a quell’altezza, faceva ormai parte dei luoghi comuni, incluso quel tanto di ridicolo che dall’ultima fin de siècle accompagna la categoria, sia pure indistinta nei lineamenti sociali e ridotta a postura o stereotipo. Certo è che la revoca del “mandato”, per dirla con il Fortini dei Sixties, avveniva ora per opposte ragioni, non più “dal basso” e in vista del mutamento, ma dall’alto e per mantenere lo status quo di una società sì divisa, ma normalizzata e come tale regolata da saperi settoriali, specialistici. Del resto, Herbert Lottman in La rive gauche (1983) aveva pur dipinto la parabola di progressiva emarginazione del ruolo degli intellettuali francesi tra il “Fronte Popolare” e la “Guerra Fredda” chiudendo il suo ampio affresco con una battuta da Fin de partie di Samuel Beckett: «Significare? Noi, significare? Ah, questa è buona!»4.

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Per Karl-Otto Apel (1922-2017)

Karl-Otto Apeldi Rino Genovese

Mi è capitato d’incontrare Apel, o per meglio dire di vederlo, una volta soltanto. Fu a un convegno sulla “comunicazione umana” nel settembre 1983 ad Abano Terme. Erano relatori, tra gli altri, Watzlawick, Vattimo, Luhmann, Baudrillard (anche se il contributo di quest’ultimo non figura negli atti a cura di Umberto Curi, pubblicati dalla Franco Angeli nel 1985). Apel mi fece una notevole impressione, soprattutto nella discussione con Luhmann, che per una certa filosofia tedesca era un po’ la bestia nera del momento; mentre lo stesso Luhmann preferì polemizzare con Baudrillard. L’oltranzismo fondazionalista di Apel, la passione e il rigore con cui discuteva, rendevano immediatamente percepibile quello che Stefano Petrucciani ha ben detto nel suo Ricordo, che con lui si aveva a che fare con un vero filosofo.

Nella mia biografia intellettuale (si licet parva…) quell’incontro occupa un posto di rilievo. Attraverso di lui, studiando in seguito il suo pensiero piuttosto approfonditamente, appresi come, collocandosi sulla via su cui si era posto Habermas, o si arriva al fondazionalismo trascendental-pragmatico – una nuova esaltazione della ragione sulla base della funzione centrale svolta dal linguaggio – oppure, restando quasi-trascendentali – volendo salvare capra e cavoli, cioè la pluralità delle forme di vita o delle Lebenswelten e la tensione trascendentale –, si rimane in una mezza misura sostanzialmente debole. Insomma: o c’è la comunità ideale illimitata della comunicazione, teorizzata da Apel come pietra di paragone controfattuale di qualsiasi discorso, o si apre al relativismo anche al di là delle intenzioni. Tuttavia, rispetto a una tradizione coscienzialista come quella della filosofia trascendentale, la stessa insistenza sul linguaggio di tanta parte del pensiero del secondo Novecento, implica a mio avviso un indebolimento: laddove nella prospettiva kantiana di una conoscenza basata sull’uso bene ordinato delle facoltà antropologiche, o in altro modo nelle evidenze eidetiche husserliane, il punto di arrivo antiscettico è scontato, un approdo sicuro per l’intersoggettività linguistica invece non si dà, perché questa è per definizione sempre incompleta, perfettibile nella sua ricerca di verità, come mostra anche l’uso della parola “illimitata” che connota la comunità ideale della comunicazione apeliana. Caratteristica di questo fondazionalismo, del resto, è che, meritoriamente evitando un pericolo maggiore, si sottragga all’ancoraggio in una comunità storicamente determinata o tradizionalmente reale. Quindi o si è apeliani, con tutto l’universalismo illuministico che ciò a giusto titolo comporta, o si è scettico-relativisti, tertium non datur. È a partire da questa netta alternativa che ho scritto i miei libri successivi all’incontro con Apel. Continua a leggere “Per Karl-Otto Apel (1922-2017)”

Cultures in Movement: New Visions, New Conceptual Paradigms

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De capitalismo disputandum est

Rahel Jaeggidi Leonard Mazzone

[Questo articolo è apparso su “L’Indice”, 6, giugno 2017]

Dallo scoppio della crisi economico-finanziaria a oggi, la nozione di “critica” è tornata al centro del dibattito internazionale delle scienze umane e sociali. Paradossalmente, però, il sistema economico e sociale da cui è maturata quella crisi non è stato sottoposto a un’interrogazione altrettanto attenta e severa, soprattutto da parte degli specialisti di una disciplina a vocazione fortemente normativa come la filosofia politica. All’interno di questo campo disciplinare si è tornati a problematizzare la nozione di critica nella sua doppia veste di attività teorica e di prassi sociale, senza però annoverare fra i suoi oggetti di analisi e, quindi, fra i suoi bersagli polemici il capitalismo neoliberale.

La regolarità di una simile tendenza trova un’eccezione esemplare nel volume Forme di vita e capitalismo curato e tradotto da Marco Solinas, che raccoglie alcuni dei contributi più originali pubblicati in materia da Rahel Jaeggi. Prendendo le mosse da Theodor Adorno e dai suoi Minima Moralia, la titolare della cattedra di filosofia pratica e sociale all’Università di Berlino tenta di aggiornare uno degli obiettivi programmatici originari della Scuola di Francoforte – la critica del capitalismo – rinnovando gli strumenti concettuali adottati dai primi esponenti della teoria critica della società.

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Festival del pensiero ribelle

Festival del Pensiero ribelle

Nel tempo del conformismo planetario e delle coscienze postmodernizzate a globalizzazione avanzata, è bene tornare ad affilare le armi della critica.

È quanto si propone di fare il Festival del pensiero ribelle“, organizzato nel parmense il 9, 10 e 11 giugno nei comuni di Sissa-Trecasali, Polesine-Zibello, Roccabianca, in Emilia Romagna.

Si tratta di una iniziativa nata dalla necessità di riprendersi uno spazio, quello del “pensiero”, per azioni, dando voce a pensatori considerati talvolta scomodi e comunque fuori dal coro.

Di assoluto rilievo nella tre giorni saranno certamente la presenza del giornalista e saggista Massimo Fini (il 9 giugno a Sissa), gli interventi di Marco Travaglio e di Emanuele Severino (il 10 giugno a Zibello), la conferenza del giornalista e scrittore Marcello Veneziani (l’11 giugno a Roccabianca).

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Teoria critica ieri e oggi

Teoria critica ieri e oggi

 

10 maggio 2017
h. 10.00- 17.30

sala Consiliare complesso S. Lucia di Ferrara
via Ariosto 35

I. Mattina
presiede Matteo d’Alfonso (Ferrara)

10:15 Rino Genovese (Pisa)
Dalla teoria critica della società alla teoria sociale critica

11:00 Stefano Petrucciani (Roma)
Axel Honneth e l’idea del socialismo

11:45 Pausa caffè

12:00 Laura Bazzicalupo (Salerno)
Il pensiero concreto: la critica non normativa post-strutturalista

13:00 Pausa pranzo

II. Pomeriggio

presiede Marco Bertozzi (Ferrara)

14:30 Mario Pezzella (Pisa)
Immagine di sogno e immagine dialettica: il disaccordo tra Benjamin e Adorno

15:15 Barbara Carnevali (Parigi)
Una critica del riconoscimento

16:00 Pausa caffè

16:15 Filippo Domenicali (Ferrara)
Critica della ragione neoliberale: Foucault e Rosanvallon

A cosa servono gli intellettuali oggi?

intellettualiUn ciclo di tre incontri

20 aprile, 23 maggio, 30 maggio 2017

ore 18,30

Unione culturale Franco Antonicelli

Via Cesare Battisti 4b Torino

 

Criticare il potere, smascherare gli inganni, rifiutare i ricatti, le alternative imposte, le verità assolute: questo il ruolo degli intellettuali da Platone a Foucault. Oggi, però, assistiamo a una crisi della loro funzione dovuta alla paralisi inflitta all’azione e all’immaginazione politica da una razionalità di mercato a cui non sembra esserci alternativa. Inoltre, le logiche spettacolari che oggi dominano l’industria culturale tendono a trasformare gli intellettuali in star mediatiche ad alto tasso di narcisismo, più funzionali alla creazione di consenso che suscitatori di pensiero critico. A ciò si aggiunge l’ostilità di chi identifica negli intellettuali uno degli obiettivi della militanza anti-casta e anti-sistema dimenticando che solo l’esercizio del libero pensiero può dar vita a forme nuove di solidarietà e spazi inediti d’azione.

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Gli anarchici e noi. A proposito del volume di Claudio De Boni “Liberi e uguali”

Liberi e uguali

di Rino Genovese

È una sorta di nemesi storica. La prosopopea, l’aria di sufficienza con cui i marxisti più o meno ortodossi guardavano un tempo al pensiero e all’esperienza degli anarchici come a degli arnesi da museo, oggi non hanno più ragion d’essere. Incredibilmente, l’anarchismo si è preso una sua rivincita – pur nella generale eclissi della ricerca intorno a un’alternativa sociale e politica al capitalismo nel mondo contemporaneo. Infatti, non appena ci si voglia allontanare dallo statalismo caratteristico sia della socialdemocrazia sia del comunismo storici, è a prospettive come quella associazionistica e mutualistica, quindi in particolar modo a Proudhon e agli anarchici, che bisogna rivolgersi. Il “socialismo scientifico” ha dimostrato di non essere affatto scientifico: è necessario rifarsi ai “sogni” di un socialismo utopico, dentro cui lo stesso pensiero di Marx, in ciò che contiene di valido, va ricompreso. Il pensiero socialista può ritrovare la strada solo sostituendo, alla pretesa di collocarsi sul fronte d’onda della storia universale, l’idea di una possibilità irrealizzabile, oggi priva di un retroterra in un movimento sociale specifico come fu il movimento operaio, e che però, proprio per questo, può incidere nel corso storico senza doversi piegare ad esso. Il socialismo ha da ereditare, certo con beneficio d’inventario, l’intera sua vicenda e ripensare tutta la tradizione dell’individualismo sociale – che è altra cosa rispetto al puro e semplice collettivismo e alle sue realizzazioni novecentesche.

Sono queste le considerazioni che vengono alla mente chiudendo il bel libro di Claudio De Boni, Liberi e uguali. Il pensiero anarchico in Francia dal 1840 al 1914 (Mimesis 2016). Un volume di 450 pagine, che non si potrebbe definire “agile”, ed è tuttavia molto scorrevole alla lettura. L’autore ricostruisce nel dettaglio lo svolgersi di un pensiero che dal Proudhon del 1840 pone capo a quel “circolo Proudhon” formato da anarco-sindacalisti, o sindacalisti rivoluzionari, e da nazionalisti cattolici e ultrarealisti che insieme, in un terribile connubio, daranno il loro contributo alla catastrofe europea della prima guerra mondiale e alla successiva affermazione dei fascismi. Strascichi di quella vicenda saranno operanti ancora nella Francia di Vichy. Intanto, però, tra la repressione sanguinosa della Comune di Parigi (al cinquanta per cento anarchico-proudhoniana e per l’altro cinquanta giacobino-blanquista) fino allo spartiacque del 1914 quante controversie interne (in particolare tra la corrente anarco-individualista e quella anarco-comunista), quante lotte sociali, quanti attentati terroristici!

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