A proposito di Rahel Jaeggi

Rahel Jaeggidi Rino Genovese

Non certo per puro mecenatismo la Fondazione per la critica sociale ha promosso la pubblicazione della raccolta di saggi di Rahel Jaeggi, ben curati da Marco Solinas sotto il titolo Forme di vita e capitalismo. La ragione è di fondo: siamo interessati agli sviluppi – in Germania e altrove – della tradizione della teoria critica francofortese, ne studiamo i diversi aspetti riservandoci su ciascuno di essi un giudizio autonomo, come dev’essere nelle questioni di teoria se si vuole che la discussione e il sapere avanzino.

Con Jaeggi (come già nel caso del suo maestro Axel Honneth) siamo all’interno di uno dei ricorrenti ritorni a Hegel che già caratterizzarono la filosofia del Novecento. Sembra proprio che di Hegel – in Germania ma anche altrove – non si riesca a fare a meno. Così la stessa ripresa di Adorno e della sua “critica delle forme di vita” (nel saggio sui Minima moralia che apre il volume) è in effetti un ritorno a Hegel, o, più precisamente, a un’idea aristotelico-hegeliana della “vita buona”. Anche se Jaeggi tiene a precisare che non si tratta d’indicarne in maniera paternalistica una volta per tutte le caratteristiche: aprendo in questo modo a un indebolimento in senso pluralistico della prospettiva etica, per il quale del resto ci sono le premesse già nello stesso Hegel che considerava la modernità come inevitabilmente “riflessiva”, mentre l’ethos di una forma di vita come quella dell’antica polis greca era qualcosa di totalizzante e indiscutibile.

L’intenzione dell’autrice è allora apprezzabile: consiste nel tentativo di tirare fuori la teoria critica dal puro e semplice formalismo kantiano in cui era finita con Habermas: cosicché, nella libertà di ciascun progetto di vita, le norme e le regole, e soltanto queste, decidono della moralità o non moralità di un’azione, mentre non ci sarebbe spazio per una discussione di merito intorno a che cosa possa essere “buono” ma solo intorno a ciò che sia da considerare giusto o ingiusto. L’approccio adorniano – sostiene con ragione Jaeggi – è invece non formalistico ma sostanziale: essere un fanatico delle automobili, per esempio, sarebbe un momento della più generale alienazione stando ad Adorno, laddove, con Habermas, è sufficiente che un appassionato di automobili rispetti il codice della strada, poi le sue scelte sono affari suoi.

Tutto ciò è apprezzabile, dicevo – perché, con Adorno, de gustibus est disputandum –, però in Jaeggi la critica delle forme di vita poggia su un’ontologia sociale che Adorno avrebbe rifiutato. Quello di un’ontologia sociale era un programma dell’ultimo Lukács: l’hegelo-marxista a tutto tondo era infatti lui, mentre Adorno, pur provenendo dallo stesso humus, era piuttosto un critico di Hegel e la sua Dialettica negativa sta lì a dimostrarlo. Non voglio con questo rimproverare Jaeggi di non essere abbastanza adorniana: piuttosto sto dicendo che la sua ripresa di Adorno avviene sotto il segno non adorniano di un ritorno a Hegel.

La prova di ciò sta nel suo definire le forme di vita come “fasci inerti normativamente strutturati di pratiche sociali” (p. 121); le abitudini, gli usi e i costumi, finiscono così con l’essere parte dello “spirito oggettivo” (p. 124). Considerata In questo modo – sebbene Jaeggi non sembri lasciarsi disturbare dalla possibile obiezione – qualsiasi pratica sociale consolidata dall’uso assume un carattere etico. È per l’educazione dei bambini, per il loro stesso bene, che genitori e insegnanti un tempo dispensavano loro punizioni corporali (m’ispiro a un esempio dalla stessa Jaeggi, p. 122). Ma abitudini e forme di vita possono assurgere ontologicamente alla dignità dello spirito oggettivo solo se dopo c’è anche uno spirito assoluto che le superi e le contempli in sé. È questa la soluzione propriamente hegeliana, che non teme di salvare l’orrore, attribuendogli comunque un grado nel progresso verso l’autoconsapevolezza dello spirito. Non potendosi spingere così in là in un hegelismo giustificatorio, Jaeggi è indotta sia a sorvolare sul problema di un ethos di ciò che sarebbe moralmente da respingere, sia a escludere dalla discussione quelle scelte di gusto su cui Adorno, invece, avrebbe volentieri disputato in virtù di uno sguardo che non si lasciava incantare dall’apparente innocenza delle cose. Per esempio, indossare “stivali rossi da cowboy” (p. 122) potrebbe essere denunciato come un atteggiamento da “macho”, o di soggezione a uno spirito della frontiera che ha prodotto lo sterminio degli indiani d’America, e con altri argomenti che sarebbero sì di gusto, ma non per questo meno nevralgici proprio in quanto sottratti a una logica hegeliana entro cui, al contrario, tutto può essere giustificato.

Jaeggi insomma ha ragione a prendere le distanze, più o meno esplicitamente, dal formalismo kantiano e habermasiano, ma ha torto a volersi cavare d’impaccio con uno Hegel per forza di cose amputato. È soltanto nella luce dell’utopia – comunque da ridefinire, anche rispetto allo stesso Adorno – che si può discutere, con argomenti, sia della scelta apparentemente innocua d’indossare stivali da cowboy sia della questione, più grave, se sia lecito o no schiaffeggiare un bambino.

Allo stesso modo, sembra a me ancora troppo hegeliana, e al tempo stesso scarsamente coerente con un’apertura in senso pluralistico, la nozione di critica immanente che Jaeggi vorrebbe applicare alle forme di vita. Se queste sono oggi declinabili solo al plurale – a differenza di quanto accadeva in un’epoca del tutto eurocentrica com’era quella Hegel – è perché si è imposta la consapevolezza della molteplicità delle culture in senso antropologico. Confrontare una cultura con le proprie premesse – per poi osservarne la contraddizione interna, come vorrebbe una critica dell’ideologia a carattere immanente – non basta più, ammesso che in passato questo procedimento abbia avuto una sua validità. La consistenza o inconsistenza etica di una forma di vita può essere decisa solo dopo un’attenta ricognizione della sua funzione, confrontandola con equivalenti funzionali rintracciabili in altre forme di vita. Le mutilazioni genitali femminili fanno parte di un ethos (finanche quello lo è) da porre a confronto con altre culture in cui ciò non avviene, o con la forma di vita occidentale caratterizzata dalla presenza dei movimenti femministi. È mediante uno sguardo esterno che una forma di vita può essere moralmente giudicata; altrimenti si resta prigionieri della sua pura e semplice autoconsistenza etica.

I concetti di cultura e ideologia, in questo senso, non sono sovrapponibili. Una critica immanente dell’ideologia è del tutto concepibile; ma una forma di vita intesa come una cultura antropologica può essere criticata soltanto dal punto di vista di un’altra forma di vita, sia pure solamente ipotetica come quella dell’utopia. È importante sottolinearlo perché se si considera che lo stesso capitalismo sia una forma di vita tra altre – quindi da mettere a confronto con alternative possibili, reali o progettabili –, ciò impone, in un senso più ampio, il richiamo alla relatività degli usi e costumi delle differenti culture. Il che, all’interno della prospettiva hegeliana di Jaeggi, non appare affatto scontato.

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