Energie sociali e paure irrazionali nella pandemia

pandemiadi Giorgio Stamboulis

La seconda ondata del covid-19 ci pone davanti a tutte le contraddizioni e ai problemi politici, sociali ed economici che la volontà di rassicurare la popolazione, e la necessità di affrontare l’emergenza, avevano nascosto sotto il tappeto. I media e la politica hanno concentrato l’attenzione quasi esclusivamente sulla contrazione dei consumi e soprattutto dei profitti. Il dilemma e il tentativo di conciliazione proposti sono stati tra il diritto alla salute e quello ad arricchirsi, mentre altre priorità sono state messe tra parentesi, come il diritto al lavoro, all’istruzione, alla socialità, alla libertà di movimento ed espressione.

Su giornali, televisioni e social, il dibattito pubblico è stato ampiamente ricondotto alla dimensione morale della responsabilità individuale, con slogan, più che con argomentazioni, che di volta in volta hanno spostato il soggetto della condanna, riproducendo però sempre la stessa logica: «il runner non deve correre perché diffonde il virus e si distrae dalla lotta alla malattia»; «i giovani si incontrano e vanno a ballare, ma così diffondono il virus»; «le scuole potrebbero fare la didattica a distanza»; «ristoratori e baristi vogliono tenere aperto a tutti i costi per persone che pensano solo agli aperitivi e alle cene, e se ne fregano delle morti»; oppure «pensano al Natale mentre siamo con gli ospedali al collasso».

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Catastrofe sfiorata, appunti per il dopo Trump

Donald Trumpdi Aldo Garzia

I simboli, in politica come nella vita, contano molto. L’occupazione per alcune ore del Campidoglio di Washington peserà come un macigno non solo sulla storia degli Stati Uniti. Quello che non era ritenuto possibile è invece avvenuto. Il trumpismo ha varcato il Rubicone, mettendo sotto ulteriore stress il sistema politico ed economico non solo statunitense. I media di oltre Atlantico hanno parlato esplicitamente di “tentato colpo di Stato”. Il che la dice lunga su cosa abbiamo rischiato con la rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca.

Tornano in mente certi commenti a sinistra all’epoca della sconfitta di Hillary Clinton nel 2016. Si pensava che il ritorno dei repubblicani al comando avrebbe fatto dell’isolazionismo un valore evitando guerre e interventismi, che né Bill Clinton né Barack Obama seppero evitare. Non si era compresa la portata devastante del “fenomeno Trump” che aveva conquistato la candidatura repubblicana fuori da ogni previsione e norma. Lo avremmo imparato via via. Meglio avere come avversari dei conservatori che degli eversivi, dovremmo aver appreso (eppure c’è chi ha storto ancora una volta la bocca per l’elezione del poco alternativo Joe Biden sostenendo che democratici e repubblicani pari sono).

Le destre non sono sempre uguali a se stesse. Trump non è stato eguale a Ronald Reagan: lui ha unito il liberismo spinto alla rottura di ogni regola interna e internazionale. Non è stato solo una variante del populismo che si aggira nel mondo. È stato un fenomeno che si è inserito nella crisi economica e sociale della società a stelle e strisce, in quella del multilateralismo internazionale proponendo soluzioni autoritarie. In più, si è fondato sul rinascente razzismo (muro contro gli immigrati e i “diversi”) e il via libera al popolo delle armi che cerca soluzioni di vita individuali. Riascoltare i discorsi di Trump nella recente campagna elettorale fa un effetto agghiacciante. Prefiguravano Stati Uniti e il mondo a sua immagine e somiglianza. Una sorta di “fascismo moderno”, si potrebbe dire, se il termine non fosse abusato e utilizzato a volte a sproposito (lo uso togliattianamente, alludendo a un regime fortemente autoritario ma con vasto consenso di massa). Non c’è infatti solo un forte tasso di populismo in Trump: c’è il disprezzo di ogni principio regolatore della vitta collettiva. È questa la sua cifra distintiva. Continua a leggere “Catastrofe sfiorata, appunti per il dopo Trump”

Salto di qualità in America

manifestanti pro trumpdi Rino Genovese

I populismi mettono sotto stress le istituzioni democratiche, è cosa nota, ma il salto di qualità che si è prodotto nella giornata del 6 gennaio negli Stati Uniti è qualcosa che richiede un di più di riflessione. C’è un punto oltre il quale l’effervescenza anche violenta indotta nei sistemi politici dalla combinazione tra l’idoleggiamento di un capo (nel caso specifico Trump) e il costante sconvolgimento dei principi su cui si regge una democrazia – alternanza destra/sinistra in primo luogo, e rispetto dei risultati elettorali – diventa sovversione vera e propria. Il fenomeno Trump, lo si può dire ora con certezza, è stato questo: il passaggio, nella maggiore democrazia del mondo, da una vittoria elettorale risicata quattro anni fa (non si dimentichi che la pur debole candidata democratica aveva comunque preso più voti in cifra assoluta) a un movimento reazionario di massa entro cui riemerge con estrema evidenza il segno sempiterno del fascismo. Forte di un’ideologia, per quanto abborracciata, del tutto esplicita: basata sull’idea di un complotto delle élite mondiali progressiste e “pedofile” contro il presidente che avrebbe incarnato la rinascita del paese dopo gli anni di Obama; sul rinnovato senso di supremazia razziale collegabile al periodo buio, mai del tutto archiviato, del segregazionismo; sulla difesa protezionistica dell’economia americana da quella del resto del mondo, in primis da quella cinese; e infine sul culto delle armi, radicato da sempre nel paese dei cowboy. Questa miscela di elementi ideologici, e perfino fantastici, ha trovato il suo punto di caduta nella favola, raccontata da Trump già prima che le elezioni avessero luogo, dei brogli elettorali, di una vittoria fraudolenta da parte di Biden, complice una pandemia strumentalizzata o scatenata da quelle stesse élite mondiali che cospirano contro la grandezza degli Stati Uniti. Continua a leggere “Salto di qualità in America”

Anche oggi la patrimoniale si fa domani

di Stela Xhunga

Il 2020 è stato l’anno della paura. Paura di ammalarsi, paura di morire, paura di non arrivare a fine mese. C’è però una parola che terrorizza gli italiani ma non c’entra con il virus ed è “patrimoniale”. La sola pronuncia è in grado di scatenare le reazioni più scomposte da destra a sinistra, passando per il centro. L’aspetto curioso della faccenda sta nel fatto che non sono solo i grandi borghesi a rabbrividire al suono di “patrimoniale” ma anche i piccoli borghesi e persino i proletari. I primi la temono nonostante siano ricchissimi, i secondi si accodano pavlovianamente per sembrare anche loro un po’ ricchi o comunque vicini ai ricchi e i terzi perché l’eredità lasciata da vent’anni di berlusconismo è l’amore per i ricchi. Un eros sfrenato, che si inserisce perfettamente nei dogmi liberisti degli ultimi decenni e trova il suo casus belli nel famoso 6 per mille sui capitali applicato dal governo Amato nel 1992. Un prelievo forzoso che è parso particolarmente odioso perché operava già al netto delle imposte, detto altrimenti, le tasse su quei patrimoni i cittadini le avevano già pagate. “Fu un male necessario”, ammise a distanza di anni Amato: “Serviva una prima manovra correttiva da trentamila miliardi di lire e avevo passato la notte a discutere con i tecnici del Tesoro e delle Finanze come trovare gli ultimi otto. Mi offrivano di alzare l’Iva, ma avrebbe fatto salire ancora l’inflazione; o di agire sull’Irpef, ma avrei alzato le tasse sui ceti più deboli. Fu allora, alle 4 del mattino, che Giovanni Goria (ndr. allora Ministro delle Finanze) mi prese da parte e mi chiese se poteva studiare il prelievo”. Di lì in poi lo strappo non fu più ricucito e il parlamento non seppe rimettere sul tavolo una discussione laica sul tema della patrimoniale. Non ci è riuscito neppure stavolta, in un contesto inedito come quello innescato dal Covid-19 ormai un anno fa. Continua a leggere “Anche oggi la patrimoniale si fa domani”

Perché in Italia si muore più che altrove?

di Rino Genovese

Ci s’interroga sulle ragioni della terribile alta mortalità da coronavirus in Italia, un record in Europa: siamo arrivati a 64mila mentre scrivo, e non è ancora finita. Le risposte possibili sono molte. Gli esperti (io naturalmente non lo sono) non hanno saputo ancora trovare una causa per questa ecatombe. Dubito che la troveranno, anche perché le cause – lo abbiamo appreso da tempo – per lo più sono molteplici, e per la spiegazione di un qualsiasi fenomeno si deve sempre parlare di concause. Sembra che tirare in ballo l’età mediamente anziana della popolazione italiana non sia una risposta o, almeno, sia una risposta insufficiente. Dopotutto non è che la Germania, dove di coronavirus si muore assai meno, sia un paese di giovinetti. Una spiegazione del genere potrebbe funzionare per quei paesi in cui l’età media si aggira intorno ai trent’anni (come l’Algeria, per fare un esempio); ma, restando in Europa, pare che il Regno Unito, dove l’età media è più bassa di qualche anno rispetto a quella italiana, si muoia all’incirca quanto in Italia. Là, però, all’epidemia è stata data quasi briglia sciolta con restrizioni, almeno nei primi tempi, poco severe e molto “all’americana”, diciamo così, nell’ideale corrispondenza d’intenti tra Boris Johnson e Trump. Continua a leggere “Perché in Italia si muore più che altrove?”

L’Italia del Censis e quella voglia di pena di morte

pena di mortedi Stela Xhunga

Primi nel mondo ad abolire la pena di morte e a convincere le potenze mondiali a seguirne l’esempio, oggi gli italiani vogliono la pena di morte. La vogliono davvero, non metaforicamente: quasi la metà degli italiani (il 43,7 per cento) si dice favorevole alla sua introduzione nel nostro ordinamento, nero su bianco, nel consueto rapporto annuale del Censis che parla “di un rimosso in cui pulsano risentimenti antichi e recentissimi di diversa origine, intensità, cause”. Il dato sale al 44,7 per cento tra i giovani compresi tra i 18 e i 34 anni.

Quando un ragazzo ventiseienne fece abolire la pena di morte

Quando nel 1764 fece pubblicare Dei delitti e delle pene Cesare Beccaria era un giovane marchese di 26 anni imbevuto dell’umanitarismo e della filosofia di Montesquieu, enciclopedisti, Hume, Bentham, Locke, ma soprattutto Rousseau. Quando nel 2018 Giorgia Meloni scriveva di volere “abolire il reato di tortura che impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro” ne aveva 41. Alle volte l’età è proprio un dato anagrafico che non significa nulla. Il trattato di Beccaria, messo all’Indice tra i libri proibiti dalla Chiesa nel 1766, è una delle cose di cui gli italiani dovrebbero andare più fieri, più della pizza e del mare, per intenderci. L’abolizione della pena di morte, l’ispirazione egualitaria secondo cui alla radice del crimine c’è la disuguaglianza economica e sociale, la laicità che disciplina il diritto di punire, se tutto ciò oggi è possibile – sia pure talvolta faticosamente – in Italia e in Europa è grazie anche al libro di un italiano. Non è un’esagerazione.

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A una svolta le indagini sulla matrice fascio-piduista della strage di Bologna

Strage di Bolognadi Stefania Limiti

Non tutti i depistaggi sono uguali. Alcuni riescono bene, altri falliscono completamente, oppure svolgono solo in parte il loro sporco lavoro.

Quelli architettati per la strage alla stazione di Bologna, anche se apparentemente non sono serviti allo scopo di confondere gli investigatori – visto che gli esecutori materiali sono stati individuati – hanno funzionato abbastanza bene, purtroppo. Infatti, il cuore della faccenda, cioè il progetto stragista ordito dal sistema piduista e messo in pratica dai più efferati gruppi del terrore neofascista, è stato annacquato per molti anni, nonostante le dure condanne inflitte a Licio Gelli e compari per il tentativo di ingarbugliare tutta la trama delle indagini indirizzandole sulla pista internazionale. Se le indagini sull’attentato al treno Italicus (4 Agosto 1974, dodici morti e quaranta feriti) fossero andate per il verso giusto, tutto sarebbe stato chiaro. Forse (se avesse un senso l’avverbio a cose fatte…) Bologna non sarebbe mai stata ferita in quel modo barbaro. Infatti, la mano piduista lì è certissima (per l’Italicus è già stato accertato il diretto coinvolgimento della P2).

Ma il tempo, si sa, è galantuomo e anche dopo tanti anni dal quel tragico agosto del 1980, e dopo le condanne come esecutori della strage dei terroristi dei Nar Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini e in primo grado (lo scorso 9 gennaio 2020) di Gilberto Cavallini, siamo alla vigilia di un nuovo, promettente capitolo giudiziario. Dal 2017 ne è protagonista, insieme alla attivissima Associazione delle vittime e a un agguerrito collegio di parte civile, la procura generale della città – che ha incontrato nei mesi scorsi per due volte, fuori da ogni consuetudine, il presidente del Consiglio Conte, secondo fonti attendibili per discutere della de-secretazione di alcune carte. La scorsa settimana si è svolta l’udienza preliminare del processo che vede imputate diverse persone, tra cui l’avanguardista Paolo Bellini – alcune però non processabili perché morte (il capo dello P2 Licio Gelli, il suo braccio destra banchiere Umberto Ortolani, il potente capo della polizia politica Federico Umberto D’Amato e il giornalista piduista, senatore missino Mario Tedeschi) o perché già assolte in via definitiva (Picciafuoco). Continua a leggere “A una svolta le indagini sulla matrice fascio-piduista della strage di Bologna”

Da Rousseau ad Amazon, la strana storia del signor Casaleggio

di Michele Mezza

Forse in uno dei suoi più complessi e preveggenti aforismi, già alla fine degli anni sessanta, Marshall McLuhan ammoniva che il messaggio di un medium o di una tecnologia è nel mutamento di proporzioni, di ritmo e di schemi che introduce nei rapporti umani. Un modo lucidissimo per avvertirci che quanto stava annunciandosi – siamo negli anni in cui il free speech di Berkley diventava free soft, con un’evoluzione del tutto sfuggita alla sinistra europea in tutt’altre faccende affaccendata – costituiva una vorticosa trasformazione sociale di cui la tecnologia era solo la forma e il linguaggio.

Sarebbe bene ricordare quella lezione leggendo le ultime uscite di Andrea Casaleggio, che in un’intervista apparsa su “Huffingtonpost” il 21 novembre scorso ha tessuto le lodi di Amazon e dell’e-commerce. Tornando sulle orme del padre, egli ci fa intendere quale doveva essere la vera missione dei 5 Stelle: veicolo di una innovazione passiva della società italiana. Dobbiamo fare come fanno quelli che vincono in rete – fu il messaggio del fondatore della Casaleggio S.p.A nel primo incontro di Ivrea. Nessuno colse l’implicazione sociale di tale impennata. In un momento in cui la Silicon Valley, da grande fornace della digitalizzazione del mondo, diventava matrice di una nuova gerarchia sociale fra calcolanti e calcolati, agganciare il progresso tecnologico del paese agli interessi dei grandi service provider significava fissare una disciplina sociale e una subordinazione politica ferrea. In miniatura il modello per subordinare la democrazia alla proprietà della tecnologia fu proprio Rousseau, la piattaforma che ha organizzato e performato il movimento grillino, legandone ogni sussulto a una dettagliata raccolta di dati che ha imbrigliato i 5 Stelle in tutta la fase propulsiva. Continua a leggere “Da Rousseau ad Amazon, la strana storia del signor Casaleggio”

A che punto siamo

di Aldo Garzia

Il silenzio sulla pandemia della politica è quasi totale. Si sta andando in questi giorni a piccoli passi verso un lockdown nazionale dopo la strategia “gialla”, “arancione” e “rossa” che forse sarebbe andata bene nei mesi scorsi. È un’ipotesi che appare inevitabile per salvare il Natale commerciale e famigliare. Poi seguiranno probabilmente altre chiusure e aperture in una fisarmonica di iniziative fino all’arrivo dei vaccini. Ipotesi quest’ultima non immediata e con problemi enormi di distribuzione. Gli altri paesi europei sono combinati più o meno nello stesso modo, con la solita eccezione di Germania e paesi del Nord che brillano per organizzazione, credibilità delle istituzioni e disciplina dei comportamenti individuali.

Bisognerebbe quindi abituarsi a convivere con tutto ciò che la pandemia significa nello stile di vita di ognuno, nei rapporti sociali mutilati e soprattutto nel dibattito pubblico. Non c’è ordine del discorso politico che non debba partire di qui. Niente è più come prima. Questa volta sul serio e non per modo di dire. E ci sono virologi ed epidemiologi che già avvertono come pure in caso di vaccino ravvicinato dovremo abituarci a distanziamento e mascherine per un periodo medio-lungo. Continua a leggere “A che punto siamo”

Fascisti su Marche

Fascidi Antonio Tricomi

Già sindaco leghista del comune di Gorle, in provincia di Bergamo, oggi Marco Ugo Filisetti occupa la carica di Direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale per le Marche. Lo scorso 14 settembre, per l’inizio del nuovo anno scolastico, egli ha sentito di dover rivolgere un caloroso messaggio di saluto agli studenti marchigiani. Un messaggio nel quale, tra l’altro, si legge:

A voi studenti ancora una volta ricordiamo, oltre all’impegno nello studio, l’esercizio dell’autocoscienza, che si interroga a partire dall’identità. Chi sono? chi sono i miei “padri”? quale passato? Perché è la memoria storica, la consapevolezza delle proprie radici che unisce una comunità, un popolo indicando il possibile futuro.
Il processo di crescita, nella scuola vi porti alla conoscenza di voi stessi, a essere persone autentiche che confessano e professano le proprie idee, le attestano, le provano e le realizzano, sino ad esserne “martiri”.
Per questo siate coraggiosi come solo la gioventù sa esserlo, guardando con occhi impassibili tutte le difficoltà che il futuro pone davanti. Non disperate, mai, perché la speranza è la radice di ogni progetto, la molla per comunicare con gli altri, la forza che sorregge ogni seminagione.
Senza speranza non vi può essere nessun progetto di vita, di crescita per voi e per la Comunità che è intorno a voi, cammina con voi e continuerà a camminare grazie a voi.
Il futuro che sognate per voi e per la Comunità a cui appartenete si realizza se diventa passione, se diventa fede, se diventa destino. E la storia assicura un destino solo quando la vita scorre impetuosa nelle vene della Comunità, quando è presente una gioventù consapevole che il domani le appartiene.

Una settimana più tardi, come si sa, le elezioni regionali hanno decretato, nelle Marche, la vittoria di Francesco Acquaroli. Già militante di Alleanza Nazionale e poi del Popolo delle Libertà, iscritto da otto anni a Fratelli d’Italia ed ex sindaco di Potenza Picena, comune della provincia di Macerata, costui è stato sostenuto, nella propria candidatura, da una coalizione di centro-destra composta da Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia e da alcune liste civiche. Grande estimatore – a suo stesso dire – del filosofo sovranista e opinion-maker telegenico Diego Fusaro, Acquaroli ha però potuto ovviamente contare, in campagna elettorale, soprattutto sull’appoggio incondizionato di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia. Non per nulla, lo scorso 20 agosto, i due erano assieme a San Benedetto del Tronto, in provincia di Ascoli Piceno, durante l’esibizione dei paracadutisti della Società Sportiva Lazio Paracadutismo capitanati da Lino Della Corte. Show che ha visto atleti e campioni variamente assortiti rendersi protagonisti di voli acrobatici in onore del partito guidato dall’onorevole Meloni. I paracadutisti, sulle note della celebre romanza Nessun Dorma inclusa nella Turandot di Giacomo Puccini, sono scesi dal cielo con due enormi drappi. Con un tricolore di cinquecento metri quadrati. Con una bandiera di centosettanta metri quadrati nel quale fiero campeggiava lo slogan elettorale di Fratelli d’Italia: “Vogliamo un’Italia libera, forte e coraggiosa”. Continua a leggere “Fascisti su Marche”

In rivolta senza un volto

di Stela Xhunga

Scontri, come non se ne vedevano da un po’. Prima a Napoli, poi Roma, Milano, Torino, Trieste, Cremona, Lecce, Verona, Cosenza, Ferrara, Salerno, Palermo e Siracusa. Mentre i media trasmettevano in diretta le cariche della polizia sotto il palazzo della Regione a Milano e le vetrine rotte di Gucci a Torino, quasi in contemporanea, in piazza Unità d’Italia, a Trieste, si assembravano migliaia di persone aizzate dal sindaco Roberto Dipiazza e dal governatore Massimiliano Fedriga, entrambi fisicamente presenti a una manifestazione che in teoria doveva essere contro il nuovo decreto varato dal governo ma che in pratica è stata salutata da molte braccia tese con la mano aperta.

Pensare che dietro ogni disordine al di sotto del Po ci siano solo camorristi e al di sopra il Po solo Black Bloc è operazione miope, che non fa bene a nessuno, men che meno oggi che l’identità dei manifestanti è frammentata, spuria. Fatta eccezione per coloro che un’identità la rivendicano con il braccio teso, è difficile, finanche impossibile catalogare le persone in rivolta. E poiché lo spettacolo andato in scena, con ogni evidenza, è solo l’inizio, tanto vale porsi interrogativi elementari, senza ambire a nessuna conclusione.

Chi sono i manifestanti oggi in Italia? Difficile dare loro un’identità nelle strade e nelle piazze, non potendolo fare nella società. La coscienza di classe, con lotte su obiettivi e temi comuni fu in grado di creare forme di aggregazione fino agli anni settanta, nell’attuale configurazione socioeconomica risulta oramai superata da meccanismi disgregativi quali individualismo, derisione per la marginalità sociale e corsa contro un potenziale nemico. Di fatto le classi continuano a esistere, ma manca la coscienza. Si è creduto che il consumismo fosse livellante, democratico, con l’operaio e il manager entrambi in fila al Mac drive, e invece il consumismo non ha cancellato le classi sociali, ha solo cancellato la percezione che le classi sociali hanno di se stesse, rendendole innocue rispetto ai dispositivi di potere. Né, d’altro canto, l’essere interconnessi e digitalizzati ci ha dato strumenti atti a sopperire alla mancanza di coscienza: non più gruppo, comunità, siamo “sciame”, per dirla con Byung Chul Han, intrappolati in un sempiterno presente, incapaci di praticare nella realtà un qualsiasi agglomerato che possa anche solo somigliare a un “noi”. E di fronte alle sparute categorie che ancora si riconoscono tali, come superare le forti implicazioni identitarie che ciascuna categoria inevitabilmente rivendica, come far confluire le rispettive minoranze in una maggioranza condivisa, come, in definitiva, trasformare le singole rivolte in una lotta sociale, dove non ci sia spazio per le infiltrazioni – che comunque, a onor del vero, sono sempre esistite e sempre esisteranno – ora che la pandemia ha fatto esplodere problemi latenti e riconducibili a cause assai precedenti al virus? Non potendo dare loro un volto uniforme, occorre analizzare le loro volontà, chiedersi cosa vogliono. Continua a leggere “In rivolta senza un volto”

Trump e Biden, due signori con i capelli tinti che si zittiscono a vicenda. (Mentre tutt’intorno, noi, assistiamo come le foglie d’erba di Whitman)

Trump e Biden
di Stela Xhunga
Il 30 settembre, alle 3 ora italiana, si è tenuto il primo confronto tv tra Donald Trump e Joe Biden. Comunque vada sarà un disastro. Uno ha 77 anni e raccoglie le speranze della massa in attesa del prossimo scandalo da sbandierare. L’altro ne ha 74 e colleziona scandali senza battere ciglio. Biden vincerebbe se lasciasse parlare solo l’altro, invece stanotte ha parlato, interrotto continuamente dall’avversario, tanto da perdere la pazienza e sbottare: “Will you shut up, man?”.

Intendiamoci, in un Paese come gli Stati Uniti, dove basta un niente per venire bollati come comunisti, e dove storicamente sono sempre esistiti due partiti, entrambi moderati, la destra liberista, e il centro liberale, che di tanto in tanto è colto da improvvisa pruderie sociale, il primo scontro tra Trump e Biden non poteva che ridursi a questo, a una prova muscolare intrisa di linguaggio bellico, dove l’altro è un nemico da zittire, screditare, ricorrendo a una retorica votata al pathos anziché al logos. Come dicono negli ambienti della finanza di New York, it’s an old boys club, un circolino dove ricchi e attempati signori bianchi giocano a farsi la guerra. Un’ora e mezzo di dibattito, diviso in sei temi – Corte Suprema, pandemia, economia, ambiente, sicurezza e tensioni razziali, regolarità del voto –, che secondo il sondaggio CNN hanno valso per lo sfidante democratico il favore di sei americani su dieci, con enorme sollievo di tutti noi, che sappiamo quanto le scelte di Trump si ripercuotano in Europa, in Italia, ovunque nel mondo. “Tutti sanno che il presidente Donald Trump è un bugiardo e un clown” ha detto Biden in riferimento all’Obamacare, la riforma sanitaria firmata il 25 marzo 2010 dall’allora presidente Barack Obama. Appena eletto, nel maggio 2017, Trump fece approvare dalla Camera dei Rappresentanti la richiesta di abrogazione totale dell’Obamacare, che passò con 217 sì e 213 no, e tuttavia non passò al Senato, nonostante questo sia a maggioranza repubblicana. Trump allora propose un’abrogazione parziale, ma nemmeno questa piacque al Senato, che declinò ancora, sia pure sul filo del rasoio, con 51 no e 49 sì. Con l’entrata in vigore della riforma, si stima che circa 32 milioni di americani indigenti, attualmente scoperti dall’assicurazione sanitaria, potrebbero accedere a cure mediche.

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In morte di Rossana Rossanda

Rossana Rossandadi Stela Xhunga

La ragazza del secolo scorso si è spenta nella propria abitazione a Roma, aveva 96 anni. Una perdita non solo per i lettori del manifesto. Non solo per i comunisti, per chi lo è stato, per chi lo è ancora, nonostante tutto. Stavolta la faziosità, la retorica, non c’entrano, non c’è spazio per la bagarre politica. Il primo tributo in rete, via Twitter, lo ha scritto l’onorevole Guido Crosetto, attuale coordinatore nazionale di Fratelli d’Italia: “È morta Rossana Rossanda, comunista vera, con cui ho avuto il piacere di parlare alcune volte. Ero affascinato dai racconti sulla discussione interna al Pci in merito all’Urss. Era una donna affascinante perché durissima e rigorosa, ma con rispetto.”

Del resto è difficile anche solo ipotizzare faziosità nei riguardi di una figura capace di radicale dissenso al punto da farsi radiare dal Pci nel 1969. Con Lucio Magri, Luigi Pintor e Valentino Parlato aveva fondato il manifesto, prima rivista, poi quotidiano. C’è chi l’ha chiamata eretica. Criticò le leggi speciali antiterrorismo, difese Adriano Sofri, firmò il manifesto a sostegno di Enzo Tortora. Sua l’impresa, fino ad allora fallita dai suoi colleghi uomini, di far parlare il capo delle Brigate Rosse, Mario Moretti, sul caso Moro in un’intervista. Il 28 marzo 1978, in pieno sequestro, Rossana Rossanda ebbe l’ardire di scrivere: “Chiunque sia stato comunista negli anni cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia”. Non era certo un giudizio positivo sulle Br, era la restituzione, in piena onestà intellettuale, dei fatti alla realtà storica. Calare i fatti nella storia richiede uno sforzo notevole, e lei fu in grado molte volte di compierlo. Non conformista, non scontata, rigorosissima, incuriosita dai suoi interlocutori ma mai fino in fondo persuasa. Chi l’ha conosciuta giura che bastava un aggettivo mal posto per farla intervenire a correggerlo. Perché dire una cosa in un’altra maniera equivale a dire un’altra cosa, e con le parole, come con la politica, ci vuole rigore. Un rigore che applicava con piglio cartesiano, firmando editoriali sferzanti, limpidi, mai compromissori, in un’Italia ancora oggi troppo presa dall’idolatria per Montanelli per meritarsi una Rossanda.

La ragazza del secolo scorso lascia un vuoto che riguarda il campo individuale, civile, prima ancora che politico. Un vuoto tanto più impossibile da colmare con gli attuali figuranti da quattro soldi che abbiamo in parlamento. Lei stessa, due anni fa, riguardo alla decisione di tornare a vivere in Italia, disse: “Ho deciso di tornare in Italia, assalita dal bisogno di capire. Da Parigi, dove vivevo da dodici anni, seguivo Salvini in tv e mi prendeva vergogna per quel che vedevo. ‘È anche colpa mia, colpa della nostra parte’, mi ripetevo. Avevo passato la vita a fare politica e reputavo la mia lontananza come un abbandono del campo”.

Questo l’incipit dell’autobiografia La ragazza del secolo scorso che pubblicò con Einaudi nel 2005: “Non ho trovato il comunismo in casa, questo è certo. E neanche la politica. E poi dell’infanzia non ricordo quasi niente, e poco dei primi sette anni nei quali – secondo Marina Cvetaeva – tutto sarebbe già compiuto. Non ho nostalgie di un’età felice né risentimenti per lacrime versate nella notte. Dev’essere stata un’infanzia comune, affettuosa, un’anticamera, una crisalide dalla quale avevo fretta di uscire per svolazzare a mo’ di farfalla”.

Bella ciao, compagna, eretica, irreprensibile farfalla.

Tolleranza religiosa e legame nazionale in Albania

di Stela Xhunga

In Albania si beve molto caffè. Lo si fa tendenzialmente al bar, a qualsiasi ora. Accade di bere un caffè con una persona e scoprire che è di religione musulmana perché a un certo punto si alza e se ne va, deve andare a pregare. Poi magari la si rincontra al fianco del consorte, e sempre casualmente si scopre che l’altro è di religione ortodossa, o cattolica. Accade allora che il forestiero rimanga sorpreso, e chieda loro come abbiano fatto a sposarsi, a quel punto seguono l’occhiata divertita da parte dei due e una risposta, che solitamente suona così: “Che domanda! facendo festa per tre giorni, come tutti”. La coabitazione religiosa e la sostanziale assenza di conflitti tra cattolici, ortodossi, musulmani e bektashi in Albania è qualcosa di sorprendente, specie se raffrontato ai conflitti etnico-religiosi nel resto della regione balcanica, ma rappresenta un’eccezione anche rispetto a buona parte dei cosiddetti paesi progressisti dell’Europa. Durante la seconda guerra mondiale, le istituzioni albanesi rifiutarono le leggi razziali e non consegnarono nessuno degli ebrei presenti sul territorio, né ai fascisti italiani né ai nazisti tedeschi. Non solo, molti cittadini albanesi offrirono identità false e nascosero gli ebrei provenienti dai paesi dove erano invece perseguitati.

In Albania la nazionalità prevale sulla religione, e non da oggi: già nel 1909, il giornalista francese Gabriel Louis-Jaray osservava come “il legame nazionale, in Albania, è assai più forte delle divisioni religiose”. Un legame che nel 1878 il poeta risorgimentale Pashko Vasa, in un passaggio della sua poesia O moi Shypni, cantava così: “O albanesi, vi state uccidendo tra fratelli / vi siete divisi tra cento gruppi armati / alcuni dicono io ho la fede / altri dicono io ho la religione / uno dice sono turco, l’altro sono latino / io dico sono greco, alcuni altri io sono serbo / ma voi siete tutti fratelli, o sventurati!”. Un legame propiziato da Giorgio Castriota, detto Scanderbeg, Gjergj Kastrioti Skënderbeu in albanese. Figlio di Giovanni Castriota, principe di Croia, ribelle agli ottomani, che perciò catturarono e tennero in ostaggio ad Adrianopoli i quattro figli Stanisha, Reposh, Costandin e lui, Giorgio, che prima di diventare eroe nazionale e guadagnarsi i titoli di “difensore impavido della civiltà occidentale” e “atleta di Cristo” per avere difeso l’Europa dall’avanzata ottomana, si formò presso la corte del sultano, guadagnandosi per altro la sua amicizia. Continua a leggere “Tolleranza religiosa e legame nazionale in Albania”

Si può dire no alla riduzione del numero dei parlamentari ma sì all’“election day”?

election daydi Roberta Calvano

Si può essere nettamente contrari alla proposta di legge di revisione costituzionale di riduzione del numero dei parlamentari ed essere tuttavia favorevoli all’accorpamento della votazione sul referendum costituzionale ad essa relativo con le elezioni amministrative del 2020? A mio avviso sì, e dico subito che reputo tale posizione la più compatibile con il dettato costituzionale, per le ragioni che cercherò di spiegare brevemente.

Il presidente della Repubblica e il ministro dell’Interno hanno firmato nei giorni scorsi i decreti1 con cui si indicono – accorpandole – le votazioni per il referendum costituzionale, le suppletive in due collegi uninominali per il Senato, le elezioni dei consigli regionali e dei presidenti di sette regioni (Campania, Veneto, Puglia, Toscana, Liguria, Marche, Valle d’Aosta) e le amministrative (comunali e circoscrizionali) in più di mille comuni, tra cui quattordici capoluoghi di provincia e quattro di regione. Si ricorderà che il referendum costituzionale avrebbe dovuto svolgersi già nel marzo scorso e che la legge di revisione, che attende l’esito del referendum per essere promulgata – o finire nel cassetto delle tante iniziative di revisione costituzionale non andate in porto –, è stata approvata in via definitiva l’8 ottobre 2019.

Nelle ultime settimane si sono levate critiche contro questa scelta di accorpamento delle date delle tornate elettorali con quella del referendum. Le obiezioni mosse fanno leva principalmente sulla peculiare rilevanza del referendum costituzionale, che richiederebbe quindi una data a sé, sottolineando la necessità che l’elettore non sia portato a compiere una scelta non pienamente consapevole, data la difformità/disomogeneità delle scelte affidate alle urne in quella data. Si è poi lamentata la diversa potenziale distribuzione dell’affluenza sul territorio nazionale in ragione dell’indizione delle elezioni regionali solo in una parte del territorio nazionale, e infine l’inadeguatezza dei tempi a disposizione dell’informazione sul referendum costituzionale per produrre un’adeguata consapevolezza nell’elettore sulla questione, se uniti a quelli della propaganda sulle altre scadenze elettorali.

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Diritti, welfare e socialismo al tempo del coronavirus

di Aldo Garzia

Resta rischiosa la totale riapertura delle attività economiche e della mobilità. Bisogna provare a convivere con il Covid 19 perché l’economia e l’Italia non ce la fanno più, è stata l’obiezione a chi dubitava. Molto di quello che accadrà nei prossimi mesi sarà dunque affidato ai comportamenti individuali e collettivi, oltre che alle normative che si adotteranno. Sapremo autodisciplinarci seguendo le norme semplici di prudenza della convivenza con il Coronavirus?

L’alternativa sicurezza/libertà è particolarmente bruciante. Sapendo che in questa fase “più libertà” vuol dire “meno sicurezza” e “meno salute”. Non si scappa. Dovremo abituarci a convivere perciò con il Covid 19 e con questa contraddizione che impone inevitabilmente un ripensamento della coppia diritti/libertà. C’è tuttavia da fare i conti con la diffusa insofferenza verso le norme che consigliano il divieto di assembramento, per non parlare di quelle dei mesi scorsi: limitazioni alla libertà di movimento, distanziamento sociale, quarantena obbligatoria, lockdown. Si trattava di misure eccezionali motivate dal Covid 19 e dalla ricerca di un difficile equilibrio tra diritti individuali e diritto alla salute. Forse sarebbe meglio parlare però di “diritto alla vita” tout court. L’insofferenza verso la compressione delle libertà si spiega con la diffusa introiezione della categoria di “libertà” intesa quasi esclusivamente come problema individuale al di fuori del contesto in cui si esercita (questa volta eccezionale). È il singolo che fa problema, non la collettività, in questa nostra società dell’individuo consumatore.

Anche nel dibattito italiano ha fatto presa una concezione anglosassone delle libertà come tema che riguarda essenzialmente i singoli. Ci siamo “americanizzati” teoricamente.

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L’Italia s’è Destà?

di Stela Xhunga

La statua di Indro Montanelli è lì, ripulita dalla vernice e dalla scritta “razzista stupratore”, un telo di cellophane tutt’intorno e del guano sopra. Un buon compromesso da cui partire per abbozzare un ragionamento che superi le pose da bodybuilders degli intellettuali in scena da settimane. Da una parte, quelli di destra, per lo più nipotini spuntati dalla manica di Montanelli, forti di quel tanto al chilo di tirocinio nei giornali “quando c’era lui” a dirigerli, il giusto per dire “sono della scuola di Montanelli”, posizionarsi, e vivere di rendita; dall’altra, quelli di sinistra, incapaci di qualsiasi tipo di azione incisiva contro, uno a caso, il Decreto Sicurezza ancora in vigore. Tutti parimenti iperproiettivi, accaloratissimi, famelici intorno a una statua. Deve stare lì dove sta, scandiscono con tono fintamente blasé i cosiddetti liberal. Va abbattuta, dicono gli altri. E come biasimarli. Mentre si trovava in Etiopia in veste di militare e colonizzatore fascista, Montanelli ha stuprato una bambina eritrea dodicenne venduta dalla famiglia, sposandola secondo la pratica del “madamato” che permetteva ai cittadini italiani nelle colonie di accompagnarsi temporaneamente con donne native, facendo attenzione affinché dall’unione non ne nascesse un figlio. (Solo con la promulgazione delle leggi razziali e del RdL n. 880 del 19 aprile 1937, con le “Sanzioni per i rapporti di indole coniugale tra cittadini e sudditi in virtù della protezione della razza italiana”, il fenomeno del madamato si arrestò). Il modo in cui Montanelli parlava di Destà, non su un bollettino fascista nel 1930, ma sul Corriere della sera nel 2000, solo vent’anni fa, è semplicemente aberrante:

Faticai molto a superare il suo odore, dovuto al sego di capra di cui erano intrisi i suoi capelli, e ancor di più a stabilire con lei un rapporto sessuale perché era fin dalla nascita infibulata: il che, oltre a opporre ai miei desideri una barriera pressoché insormontabile (ci volle, per demolirla, il brutale intervento della madre), la rendeva del tutto insensibile.

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Intorno a Silvia Romano, vittima non perbene

di Stela Xhunga

“Capiamo i banditi e le ragioni per cui agiscono in quel modo, sebbene il reato di sequestro di persona sia tra i delitti più odiosi che si possano commettere”. A dichiararlo fu Fabrizio De André durante il processo ai suoi rapitori. Lui e la sua compagna, Dori Ghezzi, entrambi rapiti il 27 agosto 1979, si costituirono parte civile contro i mandanti, perdonando tuttavia carcerieri e manovalanza. Proprio così, li perdonarono. Pensiamo se a pronunciare parole di cristiano perdono fosse stata Silvia Romano, rapita in Kenya, infine liberata e rientrata in Italia dopo essere stata tenuta prigioniera dai terroristi somali di al Shabaab, ispirati all’islam salafita, per diciotto mesi in Somalia.

Le immagini dell’abito islamico di Silvia Romano sono e saranno potentemente strumentalizzate, sia in Occidente, da “noi” cristiani almeno per tradizione, sia da “loro”, in Somalia e in altre aree in cui vige il fondamentalismo islamico. Triste. Chiaramente nessuno sarebbe contento di saperla convertita per coercizione ed è legittimo chiedersi se scegliere una religione in una condizione di prigionia, in cui l’unico libro che ti permettono di leggere è il Corano, sia catalogabile tra le “libere scelte”. Legittimo, ma non utile ai fini di un discorso interno alla nostra società, per la quale disponiamo di occasioni di analisi semiologiche, per così dire, in presa diretta. Ancora una volta, il corpo di una donna, con tutte le gestualità ed estetiche annesse, è diventato “luogo” in cui si esercita il discorso pubblico. Coperta da capo a piedi, sorridente, ingrassata, colta in un gesto simbolico, la mano sul ventre. Simbolico per noi spettatori, che subito, magari senza formalizzare il pensiero, siamo stati attraversati dall’idea delle violenze fisiche e sessuali che può avere subìto la vittima, in questo caso, donna.

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E se l’intellettuale di sinistra tornasse a preoccuparsi delle campagne?

di Stela Xhunga

Con il Covid19 ci siamo riscoperti pizzaioli, fornai, esperti di farine ben presto introvabili, con enorme fastidio di chi già si pensava novello Sorbillo. Farine lievitate di prezzo, senza che nessuno, tra i consumatori, si chiedesse: ma il grano quanto costa? Attualmente, nonostante in alcune aree del Mezzogiorno il prezzo del grano duro sfiori i 30 euro al quintale, in media non si superano i 25-26 euro. Rispetto alla media dei 20 euro degli scorsi anni l’aumento c’è stato, certo, ma nulla che possa lontanamente giustificare il raddoppio dei prezzi di vendita delle farine al minuto, nulla che possa risolversi con la solita legge di mercato per cui all’aumento della domanda il prezzo schizza all’insù.

Uno iato, quello tra gli interessi degli agricoltori e quello delle catene di distribuzione agroalimentare, destinato ad aumentare, per via di un fenomeno preciso, che si chiama speculazione. Con il blocco delle esportazioni della Russia e del Kazakistan, granai del mondo, improvvisamente ci si è accorti che affidarsi quasi solo alle importazioni (come, per esempio, con il mais, 6,4 milioni di tonnellate solo nel 2019) non è stata una grande idea. E non va meglio per la frutta e verdura – definiti di “quarta gamma” – che hanno subìto un calo di fatturato tra il 30 e il 50 per cento nelle ultime settimane, in controtendenza con il fatturato generale della grande distribuzione, compresi i discount, che, stando alle ultime rilevazioni Nielsen, hanno conosciuto incrementi di vendita a due cifre percentuali rispetto alle stesse settimane del 2019.

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Tutti a bordo, ma verso dove?

Contagiondi Antonio Tricomi

Era fisiologico: per quanti già la conoscessero, la pellicola cui tornare con la mente, in queste settimane, non poteva che rivelarsi Contagion, presto perciò eletta – dai mass-media come pure sui social – a visionaria anticipazione dell’incubo che ovunque nel mondo si sta vivendo per effetto della pandemia di covid-19. Non per nulla, la Warner Bros ha di recente comunicato al “New York Times” che, tra quelli disponibili nel proprio catalogo per la fruizione domestica, il film girato da Soderbergh poco meno di dieci anni fa è ormai il secondo più visto, laddove esso, fino al dicembre scorso, occupava il duecentosettantesimo posto appena in tale classifica. D’altro canto, oggi vien quasi naturale approcciare quel godibile ma scolastico (e non ideologicamente neutro) prodotto commerciale, più che al pari di una distopia costruita però secondo i moduli del thriller, alla stregua di un oracolare reportage sui nostri giorni. L’autentico protagonista del racconto offertoci da Soderbergh era infatti un virus – affine all’influenza suina e, tuttavia, assai più nocivo – proveniente dalla Cina e capace di diffondersi nel pianeta intero: sia perché rapidissimo nell’incubazione e nella trasmissione, sia perché non tempestivamente arginato, dai Paesi infettatisi, con sempre adeguate misure pubbliche di contenimento.

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Sarà un 8 settembre?

 8 settembredi Mario Pezzella

Il nostro primo ministro, citando Churchill, dice che stiamo attraversando l’“ora più buia”; speriamo invece che non sia un nuovo 8 settembre. Voglio alludere al fatto che da una sensazione di invulnerabilità dei corpi, di odio contro lo “straniero” e di identificazione col potere, si sta passando – in brevissimo tempo e non si sa per quanto – a una condizione di radicale insicurezza ontologica e politica, in cui tutti i parametri precedenti di comprensione e di riferimento sono sospesi e oscillanti.

Vedo che i filosofi discutono a proposito del contagio: è vero, è falso, è virtuale, è biopolitico, serve a introdurre uno stato d’emergenza, no l’emergenza c’è già, bisogna confidare nella scienza, no la scienza è una macchinazione, etc. È probabile che il paradigma biopolitico non spieghi interamente il presente stato di cose. Il “governo dei corpi” sta lasciando il posto a un disordine reattivo della natura, che pone in primo piano l’emergenza ecologica: la situazione attuale deriva dall’incapacità crescente a governare in modo non autodistruttivo la vita biologica.

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Né con il virus delle destre né con Agamben

Giorgio Agambendi Stela Xhunga

Se prima del coronavirus ci avessero detto che un giorno avremmo avuto da ridire su Giorgio Agamben avremmo riso, eppure… Non eravamo pronti. Né al coronavirus, né al virus della paura creato dai laboratori della destra, né alla reductio ad unum proposta da Agamben in un articolo sul “manifesto” in cui parla della reiterazione dello stato d’eccezione generato da una “normale” influenza. Così “normale” da avere una mortalità superiore di più di tre volte a quella cui siamo abituati con i virus tradizionali. A scanso di equivoci, va da sé che le riflessioni di Agamben sono infinitamente più interessanti di quelle proposte da Salvini&Co; tuttavia, l’impressione è che entrambe manchino un punto: l’inedita rivedibilità della realtà. Restringendo il campo all’Italia e ripercorrendo le misure precauzionali adottate per esempio in ambito scolastico, impressiona la rapidità con cui di volta in volta la governance del rischio sia cambiata, si sia contraddetta, e infine abbia optato per la chiusura nazionale di tutti gli istituti scolastici per dieci giorni, dal 5 al 15 marzo. Non era mai successo nella storia d’Italia. Una misura “forte” che tuttavia non tiene conto dei centri diurni per i disabili, al punto che alcuni sindaci hanno agito autonomamente estendendo la delibera anche ai CDD (Centro Diurno-Disabili), CSE (Centro Socio Educativo) e SFA (Servizio di Formazione all’Autonomia), altri li hanno tenuti aperti, altri ancora si sono affidati alle scelte dell’Agenzia di tutela della salute e delle cooperative, che per lo più rimangono aperte, dato che i dipendenti non sono tutelati dagli ammortizzatori sociali previsti per chi lavora nelle scuole. Guardando a questo ristretto panorama, dovessimo tracciarne un grafico, vedremmo la linea delle “restrizioni” oscillare tra eccezioni senza mai crescere esponenzialmente in maniera uniforme. Uno stato d’eccezione con davvero troppe eccezioni per risultare eccezionale. Diversamente dalle emergenze passate, lo Stato ora è costretto ad affidarsi alle previsioni della medicina, non dell’intelligence, come nel caso del terrorismo. E poiché l’evoluzione del coronavirus finora non è stata prevedibile, quello che sta andando in scena in Italia, più che lo stato d’eccezione, è l’eccezionalità dello stato d’imprevedibilità. Continua a leggere “Né con il virus delle destre né con Agamben”

L’antisemitismo tra negazionismo francese, revisionismo ungherese e israelizzazione

Negazionismodi Stela Xhunga

Si prova un certo sollievo a trattare di antisemitismo e teorie negazioniste lontano dal 27 gennaio. Il terreno è sgombro dalle cerimonie della politica che a cavallo della Giornata della Memoria ci tiene, ligia, a ribadire la propria estraneità a ogni tipo di discriminazione. Tutta la politica, compresa quella di destra. Poco importa se a marzo 2019, come fece la segretaria di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, si era twittato: «Soros scende in campo per le elezioni europee finanziando con duecentomila euro il partito di Emma Bonino. Un grande orgoglio per Fratelli d’Italia: tenetevi i soldi degli usurai».

Passato il 27 gennaio, rimane l’essenziale, la realtà. Quella dei numeri pubblicati il 30 gennaio e raccolti dal Rapporto Italia 2020 dell’Eurispes, giunto alla trentaduesima edizione, dove alla voce antisemitismo risulta che il 15,6% della popolazione nega la Shoah. Rispetto alla negazione tout court dello sterminio degli ebrei, un 4,5% si dichiara «addirittura molto d’accordo» con l’Olocausto, un 11,1% è «abbastanza d’accordo» con l’Olocausto, a fronte dell’84,4% «non concorde» (il 67,3% «per niente», il 17,1% «poco»). Il 16,1% è convinto che l’Olocausto non abbia prodotto così tante vittime come si racconta. Un italiano su sette è negazionista.

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Le Sardine, il plancton e Baudrillard

Sardine

di Stela Xhunga

“Sì, ma quali sono le proposte delle Sardine? E perché non sono arrabbiate?” si chiede con sospetto il plancton. C’è qualcosa di intrigante nel fuoco amico, non fosse altro che per la ricorsività con cui si ripresenta a ogni fenomeno, a ogni novità. Questo malcontento, questi afflati spasmodici di vibranti politici, giornalisti e sapientoni di sinistra che grazie alle Sardine hanno ritrovato la voce, sì, contro le Sardine. Plancton, “organismi acquatici galleggianti che, non essendo in grado di dirigere attivamente il loro movimento (almeno in senso orizzontale), vengono trasportati passivamente dalle correnti e dal moto ondoso”, così si legge su Wikipedia. E il moto ondoso li porta a sbattere contro le sardine, perché contro la balena e gli scogli ci si fa troppo male.

Con un briciolo di onestà intellettuale si converrebbe tutti nel dire che il 2019 è stato un insieme incongruo di grettezze, abomini e meteoriti, e che lì in mezzo anche il più piccolo bagliore ha l’effetto di una cometa. Superata la prima fase, per le Sardine non sarà semplice organizzarsi, soprattutto in termini di trasparenza, nelle reti digitali e di autogestione nelle reti territoriali, ma, di grazia, non potranno scendere più in basso di quanto si è fatto nel 2019, un anno preso per il bavero della giacca e rialzato giusto all’ultimo minuto. Le Sardine sono un movimento di opinione e non propriamente politico, promuovono un rinnovamento di toni e non di contenuti, parlano e basta. Potrà sembrare poca cosa, non lo è affatto. Quest’anno la quarta edizione della mappa dell’intolleranza realizzata da Vox, l’Osservatorio italiano sui diritti, ha fotografato la crescita dell’hate speech in Italia, sottolineando la diretta correlazione tra il linguaggio politico e la pervasività dell’odio online. Secondo un sondaggio di Swg, il 55% degli italiani oggi giustifica gli atti di razzismo come le parodie scimmiesche e gli insulti rivolti a Mario Balotelli durante una partita di calcio; Enzo Risso, direttore scientifico di Swg, ha parlato di “un affievolimento degli anticorpi”.

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Vita tranquilla di Emanuele Castrucci

facebookdi Rino Genovese

Alla fine lo hanno semplicemente sospeso dall’insegnamento a Siena. Neppure il suo profilo Twitter è stato chiuso, perché, almeno secondo una certa interpretazione, la Costituzione italiana vieta la rifondazione del partito fascista ma non l’espressione di simpatie naziste e idee antisemite. Si chiama Emanuele Castrucci, professore di provincia già sconosciuto ai più, che ha avuto la sua ribalta nazionale, il suo quarto d’ora di celebrità, grazie ai nuovi media. Adesso avrà una sua piccola corte di supporters. E immagino che anche questo mio pezzo su di lui gli farà piacere.

Una ventina d’anni fa ebbi modo di andare a colazione con lui per iniziativa di un amico comune che volle metterci in contatto. Si mimetizzava ancora. Non lo si sarebbe detto proprio un seguace di Hitler ma uno che, interessato al pensiero di destra, poteva dialogare a sinistra: come molti di quelli che studiano il  giurista e filosofo nazista Carl Schmitt, o quegli altri che, abbagliati da Heidegger, evitano di misurarsi con il fatto che il suo profondo pensiero era in larga misura una trascrizione dell’ideologia nazionalsocialista. Non mi riuscì simpatico: lo presi come uno dei tanti personaggi universitari imbottiti di erudizione ma dalla testa confusa. Cercò di attirarmi un po’ sul suo terreno, perché aveva letto qualcosa di mio e sapeva che sono un critico dell’universalismo illuministico. Solo che io lo sono dall’interno, cioè nella forma di un’autocritica dell’illuminismo, non in quella di chi, buttando via il bambino con l’acqua sporca, vorrebbe ancorare l’intera vita sociale e politica alle tradizioni, alle radici, a un presunto ethnos dell’Occidente, che essi vedono di volta in volta minacciato dai complotti del cosmopolitismo ebraico e della massoneria, o più di recente dal fenomeno dell’immigrazione (che, nella mente di alcuni allucinati, sarebbe la conseguenza di una specie di macchinazione su scala mondiale).

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E se fosse l’Europa ad avere bisogno dei Balcani?

Balcanidi Stela Xhunga

L’Albania conta meno di tre milioni di abitanti, la Macedonia del Nord due milioni e qualche manciata. «Ci vuole più integrazione e più coerenza», ha detto il presidente francese Emmanuel Macron, l’unico ad avere posto il veto sull’ingresso dei due Paesi nell’Unione europea lo scorso ottobre. Se già oggi ci sono evidenti problemi di funzionamento a 27, ha aggiunto, «come possiamo pensare che andrà meglio a 28, 29, 30 o 32?». Una posizione che oltre a marcare la distanza dai valori liberali e solidali fondativi dell’Unione europea, denota non poca miopia rispetto agli scenari possibili. L’Unione dopotutto non si è spezzata davanti alla crisi finanziaria del 2008, alla crisi di solidarietà per la gestione di notevoli flussi migratori, e nemmeno alla Brexit. Che si spezzi cadendo sui principi di inclusione e federalismo da cui è nata sarebbe, francamente, uno smacco.

È vero, in Albania la riforma della giustizia promossa dal governo socialista di Edi Rama procede a rilento. Senza nemmeno una Corte costituzionale è difficile vincere la lotta alla corruzione e al crimine organizzato, forse è per questo che si cerca di osteggiare la riforma in tutti i modi. «Rama corrotto, rivogliamo elezioni anticipate, rivogliamo Berisha» hanno urlato per mesi, tra vetrine rotte e minacce di incendi, alcuni manifestanti del tutto dimentichi che fu proprio Sali Berisha, a capo del partito di centrodestra, a essere travolto dallo scandalo di corruzione nel 2013. Secondo i dati di Transparency International, l’organo che dal 1995 incrocia i dati ufficiali e pubblica annualmente gli indici di percezione della corruzione di ciascun Paese, l’Albania è il Paese più corrotto dell’intera regione dei Balcani. È anche uno dei maggiori produttori di marijuana al mondo, comprensibile che Francia e – vedi caso – Olanda esprimano il timore di «agevolare tanto l’infiltrazione mafiosa di questi gruppi nel contesto europeo quanto i loro affari, come il traffico di marijuana». Instillare disillusione e rancore nei confronti dell’Europa in una terra così cruciale come i Balcani, tuttavia, è un grave rischio. I motivi si possono riassumere in sole tre parole, per altro così connesse da essere potenzialmente intercambiabili: migranti, Turchia, armi.

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La lotta di classe non è finita. Per un discorso sull’ecologia politica

Ecologia

di Enzo Scandurra

In origine il termine “ecologia” (Haeckel, 1873) stava a indicare la relazione generale e al tempo stesso intima che lega il vivente al mondo del non vivente. Il termine “ecosistema” (coniato da Tansley nel 1935) si comprende nell’ambito dalla teoria generale dei sistemi di Ludwig von Bertalanffy, e può essere definito come un sistema (ecologico) composto di elementi biotici (tutti gli esseri viventi) e abiotici (rocce, oceani, catene montuose, fiumi) tra loro fortemente interconnessi tale che il tutto è maggiore della somma delle parti (a causa delle proprietà emergenti), attraversato da flussi di energia solare e finalizzato verso uno scopo (l’equilibrio della biosfera). Edgar Morin ha sostenuto che l’ecologia, all’origine, era una sorta di metadisciplina dal contenuto fortemente “trasgressivo” perché tendeva a mettere in discussione i saperi esistenti ingessati in discipline specialistiche e separate tra loro da steccati rigidi.

Con il tempo questa materia si è trasformata in disciplina, perdendo il carattere trasgressivo iniziale e costretta a confrontarsi con le altre discipline esistenti. Oggi è una delle tante materie di insegnamento universitario ed è entrata perfino nelle aule scolastiche al pari di altre discipline. Essa è stata poi riproposta con l’aggiunta di qualificativi, come deep ecology (Aerne Naesse, 1973), ecologia integrale (papa Francesco più di recente), per riacquistare e anzi estendere il proprio contenuto originario ad altre sfere non biologiche e per cercare di spiegare i conflitti in atto sul pianeta.

Le sempre più violente manifestazioni climatiche hanno messo in minoranza i negazionisti del riscaldamento del pianeta (ovvero della biosfera) e generato in tutto il mondo movimenti di giovani attorno al Friday for Future ed Extintion Rebellion. Il cambiamento climatico e l’estinzione rapida di specie animali e vegetali non sono ormai limitati a parti del pianeta ma hanno assunto un carattere planetario. Però l’indifferenza a tutto ciò non è solo dei negazionisti, dei politici cinici o indaffarati in ben altre cose, o degli scienziati pagati dai grandi gruppi che controllano le produzioni. Essa è anche il prodotto di una cultura diffusa basata sul falso presupposto che l’uomo potrà sempre superare ogni problema. La questione oggi, citando Roqueplo, non è più tanto quella di “dominare la natura” (il riduzionismo di Bacone e di molti altri scienziati del Seicento e Settecento), quanto quella di sopravvivere alle conseguenze di questo “dominio”, cioè “dominare” il nostro stesso “dominio”.

Tuttavia fenomeni come il cambiamento climatico e l’estinzione di massa non riescono a incidere sul comportamento dei governi planetari né quello dei poteri dominanti (agenzie transnazionali, ecc.) se non nel senso di tentare timidamente di orientare i prodotti e i consumi verso obiettivi di inefficace sostenibilità. Se anche oggi stesso (il che è del tutto irrealistico) le multinazionali che controllano la produzione, i grandi istituti finanziari e bancari, i gruppi di potere, i governi e i decisori politici, arrivassero a mutare rotta per tentare di ridurre gli effetti dei cambiamenti climatici e il degrado del pianeta, ne seguirebbe una crisi economica di enormi dimensioni che coinvolgerebbe l’intero pianeta. E ci vorrebbero decine di anni perché un’umanità ridimensionata e più allineata con la natura, riuscisse poi a trovare nuovi equilibri economici, sociali, politici.

Questo cambiamento (ammesso che si voglia veramente fare prima che l’apocalisse ambientale non finisca con il renderlo necessario) non può essere messo in moto da quegli stessi gruppi che per avidità e interessi ci hanno portato su questa strada. Lo stesso concetto di sviluppo sostenibile coniato nel 1987 dalla Commissione Brundtland (Our Common Future), è diventato uno slogan vuoto di senso: perfino le merendine per i bambini vengono definite sostenibili.

A ben vedere il conflitto scatenato contro la natura oggi può essere letto come un conflitto globale che sottende sempre più ogni conflitto economico, sociale, politico che attraversa il pianeta. Quali sono le ragioni che spingono i migranti dell’Africa (ipocritamente suddivisi in migranti economici e profughi di guerra) a rischiare la vita per approdare ai lidi dell’Occidente se non in primis la crisi climatica che desertifica le loro terre rendendole aride come un deserto? E perché la crisi economica innescata in tutto l’Occidente, trasformata in austerity, non accenna a essere superata come avveniva in passato ricorrendo a ricette classiche dell’economia? E quali sono le cause delle tante guerre sparse sul pianeta se non l’accaparramento delle risorse: acqua e petrolio. E quali le cause più vistose della crisi delle nostre grandi città se non quelle dei rifiuti, dell’inquinamento prodotti in parte dall’accoppiata petrolio/macchina, dal traffico caotico, ecc. E come spiegare il conflitto sempre più aspro tra produzione industriale e ambiente (si veda il caso di Taranto)?

Queste crisi non potranno mai essere superate se non si rivedono i modelli di produzione e consumo che hanno portato a tale disastro, il che cosa e il come produrre e consumare, e se non ci si allinea con la “produzione” della natura, rispettandone i cicli e le leggi.

I nuovi conflitti che sconvolgono tutte le categorie novecentesche note (lavoro, classe, produzione) devono essere letti alla luce della crisi ecologica che sconvolge il pianeta e che imporrà una revisione dell’economia. In tal senso dovremmo parlare di ecologia politica sia per indicare le necessarie misure da intraprendere a tempi medio-brevi per scongiurare la catastrofe climatica, sia per delineare nuovi orizzonti della politica non più ancella sottomessa all’economia. Presto o tardi gli indicatori economici con i quali misuriamo il benessere di una nazione (pil, debito sovrano, crescita) saranno delle scatole vuote, inefficaci per misurare la necessaria transizione alla riconversione dell’economia in direzione ecologica.

Carlo Bordini uomo dei bordi

Difesa berlinesedi Maria Borio

Difesa berlinese di Carlo Bordini, uscito per Sossella, è un libro che pone il lettore in una dimensione in cui tutto è inaspettato e che, senza voler trarre mai una morale, ci fa entrare in alcuni momenti cruciali della storia e della politica del Novecento. Siamo di fronte a un’autobiografia che ha anche il passo del romanzo e del saggio. Ci sono la vita e la psicologia di un uomo nato alle soglie dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale – Bordini è classe 1938 – e ci sono l’Italia e l’Europa degli anni Sessanta, degli anni Settanta, del Duemila. Il privato e il pubblico serpeggiano di pari passo, a volte si sovrappongono, a volte sono in contrasto. Una narrazione intima, subliminale si incastra sempre con una di superficie, collettiva. L’effetto è interessante. Il primo motivo è che la combinazione di queste due narrazioni rende Difesa berlinese anche un libro di poetica, in cui ci è consegnata una visione sulla vita e sul ruolo dell’intellettuale e del militante politico nel secondo Novecento. Questa visione è il risultato di un lavorio di diversi decenni. Come I costruttori di vulcani, la raccolta che racchiude le poesie di Bordini dal 1975 al 2010, anche Difesa berlinese riunisce prose precedenti: Memorie di un rivoluzionario timido (iniziato nel 1976 e pubblicato nel 2006), Gustavo. Una malattia mentale (prima versione scritta nella seconda metà degli anni Ottanta e pubblicato nel 2006) e Manuale di autodistruzione (scritto tra il 1993 e il 1994, pubblicato nel 1998) – il primo è un memoir in prima persona, il secondo potrebbe essere una sua versione narrativa per frammenti in terza persona, e il terzo è una specie di prontuario che, come un distillato sapienziale degli altri due, contiene delle massime di comportamento il cui tono può far pensare al libro dell’I-Ching.

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