In morte di Rossana Rossanda

Rossana Rossandadi Stela Xhunga

La ragazza del secolo scorso si è spenta nella propria abitazione a Roma, aveva 96 anni. Una perdita non solo per i lettori del manifesto. Non solo per i comunisti, per chi lo è stato, per chi lo è ancora, nonostante tutto. Stavolta la faziosità, la retorica, non c’entrano, non c’è spazio per la bagarre politica. Il primo tributo in rete, via Twitter, lo ha scritto l’onorevole Guido Crosetto, attuale coordinatore nazionale di Fratelli d’Italia: “È morta Rossana Rossanda, comunista vera, con cui ho avuto il piacere di parlare alcune volte. Ero affascinato dai racconti sulla discussione interna al Pci in merito all’Urss. Era una donna affascinante perché durissima e rigorosa, ma con rispetto.”

Del resto è difficile anche solo ipotizzare faziosità nei riguardi di una figura capace di radicale dissenso al punto da farsi radiare dal Pci nel 1969. Con Lucio Magri, Luigi Pintor e Valentino Parlato aveva fondato il manifesto, prima rivista, poi quotidiano. C’è chi l’ha chiamata eretica. Criticò le leggi speciali antiterrorismo, difese Adriano Sofri, firmò il manifesto a sostegno di Enzo Tortora. Sua l’impresa, fino ad allora fallita dai suoi colleghi uomini, di far parlare il capo delle Brigate Rosse, Mario Moretti, sul caso Moro in un’intervista. Il 28 marzo 1978, in pieno sequestro, Rossana Rossanda ebbe l’ardire di scrivere: “Chiunque sia stato comunista negli anni cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia”. Non era certo un giudizio positivo sulle Br, era la restituzione, in piena onestà intellettuale, dei fatti alla realtà storica. Calare i fatti nella storia richiede uno sforzo notevole, e lei fu in grado molte volte di compierlo. Non conformista, non scontata, rigorosissima, incuriosita dai suoi interlocutori ma mai fino in fondo persuasa. Chi l’ha conosciuta giura che bastava un aggettivo mal posto per farla intervenire a correggerlo. Perché dire una cosa in un’altra maniera equivale a dire un’altra cosa, e con le parole, come con la politica, ci vuole rigore. Un rigore che applicava con piglio cartesiano, firmando editoriali sferzanti, limpidi, mai compromissori, in un’Italia ancora oggi troppo presa dall’idolatria per Montanelli per meritarsi una Rossanda.

La ragazza del secolo scorso lascia un vuoto che riguarda il campo individuale, civile, prima ancora che politico. Un vuoto tanto più impossibile da colmare con gli attuali figuranti da quattro soldi che abbiamo in parlamento. Lei stessa, due anni fa, riguardo alla decisione di tornare a vivere in Italia, disse: “Ho deciso di tornare in Italia, assalita dal bisogno di capire. Da Parigi, dove vivevo da dodici anni, seguivo Salvini in tv e mi prendeva vergogna per quel che vedevo. ‘È anche colpa mia, colpa della nostra parte’, mi ripetevo. Avevo passato la vita a fare politica e reputavo la mia lontananza come un abbandono del campo”.

Questo l’incipit dell’autobiografia La ragazza del secolo scorso che pubblicò con Einaudi nel 2005: “Non ho trovato il comunismo in casa, questo è certo. E neanche la politica. E poi dell’infanzia non ricordo quasi niente, e poco dei primi sette anni nei quali – secondo Marina Cvetaeva – tutto sarebbe già compiuto. Non ho nostalgie di un’età felice né risentimenti per lacrime versate nella notte. Dev’essere stata un’infanzia comune, affettuosa, un’anticamera, una crisalide dalla quale avevo fretta di uscire per svolazzare a mo’ di farfalla”.

Bella ciao, compagna, eretica, irreprensibile farfalla.

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