E se l’intellettuale di sinistra tornasse a preoccuparsi delle campagne?

di Stela Xhunga

Con il Covid19 ci siamo riscoperti pizzaioli, fornai, esperti di farine ben presto introvabili, con enorme fastidio di chi già si pensava novello Sorbillo. Farine lievitate di prezzo, senza che nessuno, tra i consumatori, si chiedesse: ma il grano quanto costa? Attualmente, nonostante in alcune aree del Mezzogiorno il prezzo del grano duro sfiori i 30 euro al quintale, in media non si superano i 25-26 euro. Rispetto alla media dei 20 euro degli scorsi anni l’aumento c’è stato, certo, ma nulla che possa lontanamente giustificare il raddoppio dei prezzi di vendita delle farine al minuto, nulla che possa risolversi con la solita legge di mercato per cui all’aumento della domanda il prezzo schizza all’insù.

Uno iato, quello tra gli interessi degli agricoltori e quello delle catene di distribuzione agroalimentare, destinato ad aumentare, per via di un fenomeno preciso, che si chiama speculazione. Con il blocco delle esportazioni della Russia e del Kazakistan, granai del mondo, improvvisamente ci si è accorti che affidarsi quasi solo alle importazioni (come, per esempio, con il mais, 6,4 milioni di tonnellate solo nel 2019) non è stata una grande idea. E non va meglio per la frutta e verdura – definiti di “quarta gamma” – che hanno subìto un calo di fatturato tra il 30 e il 50 per cento nelle ultime settimane, in controtendenza con il fatturato generale della grande distribuzione, compresi i discount, che, stando alle ultime rilevazioni Nielsen, hanno conosciuto incrementi di vendita a due cifre percentuali rispetto alle stesse settimane del 2019.

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Tutti a bordo, ma verso dove?

Contagiondi Antonio Tricomi

Era fisiologico: per quanti già la conoscessero, la pellicola cui tornare con la mente, in queste settimane, non poteva che rivelarsi Contagion, presto perciò eletta – dai mass-media come pure sui social – a visionaria anticipazione dell’incubo che ovunque nel mondo si sta vivendo per effetto della pandemia di covid-19. Non per nulla, la Warner Bros ha di recente comunicato al “New York Times” che, tra quelli disponibili nel proprio catalogo per la fruizione domestica, il film girato da Soderbergh poco meno di dieci anni fa è ormai il secondo più visto, laddove esso, fino al dicembre scorso, occupava il duecentosettantesimo posto appena in tale classifica. D’altro canto, oggi vien quasi naturale approcciare quel godibile ma scolastico (e non ideologicamente neutro) prodotto commerciale, più che al pari di una distopia costruita però secondo i moduli del thriller, alla stregua di un oracolare reportage sui nostri giorni. L’autentico protagonista del racconto offertoci da Soderbergh era infatti un virus – affine all’influenza suina e, tuttavia, assai più nocivo – proveniente dalla Cina e capace di diffondersi nel pianeta intero: sia perché rapidissimo nell’incubazione e nella trasmissione, sia perché non tempestivamente arginato, dai Paesi infettatisi, con sempre adeguate misure pubbliche di contenimento.

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E se fosse l’Europa ad avere bisogno dei Balcani?

Balcanidi Stela Xhunga

L’Albania conta meno di tre milioni di abitanti, la Macedonia del Nord due milioni e qualche manciata. «Ci vuole più integrazione e più coerenza», ha detto il presidente francese Emmanuel Macron, l’unico ad avere posto il veto sull’ingresso dei due Paesi nell’Unione europea lo scorso ottobre. Se già oggi ci sono evidenti problemi di funzionamento a 27, ha aggiunto, «come possiamo pensare che andrà meglio a 28, 29, 30 o 32?». Una posizione che oltre a marcare la distanza dai valori liberali e solidali fondativi dell’Unione europea, denota non poca miopia rispetto agli scenari possibili. L’Unione dopotutto non si è spezzata davanti alla crisi finanziaria del 2008, alla crisi di solidarietà per la gestione di notevoli flussi migratori, e nemmeno alla Brexit. Che si spezzi cadendo sui principi di inclusione e federalismo da cui è nata sarebbe, francamente, uno smacco.

È vero, in Albania la riforma della giustizia promossa dal governo socialista di Edi Rama procede a rilento. Senza nemmeno una Corte costituzionale è difficile vincere la lotta alla corruzione e al crimine organizzato, forse è per questo che si cerca di osteggiare la riforma in tutti i modi. «Rama corrotto, rivogliamo elezioni anticipate, rivogliamo Berisha» hanno urlato per mesi, tra vetrine rotte e minacce di incendi, alcuni manifestanti del tutto dimentichi che fu proprio Sali Berisha, a capo del partito di centrodestra, a essere travolto dallo scandalo di corruzione nel 2013. Secondo i dati di Transparency International, l’organo che dal 1995 incrocia i dati ufficiali e pubblica annualmente gli indici di percezione della corruzione di ciascun Paese, l’Albania è il Paese più corrotto dell’intera regione dei Balcani. È anche uno dei maggiori produttori di marijuana al mondo, comprensibile che Francia e – vedi caso – Olanda esprimano il timore di «agevolare tanto l’infiltrazione mafiosa di questi gruppi nel contesto europeo quanto i loro affari, come il traffico di marijuana». Instillare disillusione e rancore nei confronti dell’Europa in una terra così cruciale come i Balcani, tuttavia, è un grave rischio. I motivi si possono riassumere in sole tre parole, per altro così connesse da essere potenzialmente intercambiabili: migranti, Turchia, armi.

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A proposito di Carlo Formenti “Il socialismo è morto. Viva il socialismo!” (Meltemi)

il socialismo è mortodi Rino Genovese

Ecco un libro di cui avremmo potuto facilmente sbarazzarci inserendolo tra quelli sconsigliati, “da non leggere”, come abbiamo fatto con Ernesto Laclau e Chantal Mouffe (che tuttavia abbiamo letto). Ne parliamo invece per due ragioni: la prima è data dal suo bel titolo (sebbene sia peggiorato dal sottotitolo, che suona “Dalla disfatta della sinistra al momento populista”), e la seconda è che questo libro offre – in una forma diretta, che utilizza anche il registro stilistico delle tesi – un compendio di tutti gli errori che funestano oggi quella parte della sinistra cosiddetta radicale ascrivibile al “populismo di sinistra”.

Sono esposte in modo così chiaro le idee di questo libro che ci sentiremmo di consigliarlo, ammesso che leggano ancora qualcosa, anzitutto ai nostri ex amici del Ponte (da cui la Fondazione per la critica sociale si è separata l’anno scorso), affinché ci dicano se è questo che essi pensano, se cioè condividono, e fino a che punto, le posizioni di Formenti. Che sono in sintesi le seguenti: 1) sono dei “cretini” quelli che non vogliono accorgersi che il cosmopolitismo “borghese” illuministico, basato sul mercato, ha cancellato un internazionalismo che potrebbe poggiare solo su una parità delle differenti comunità e dei diversi Stati nei loro rapporti reciproci; 2) di conseguenza un sovranismo statale neogiacobino (non etnico!) è l’unica risposta al capitalismo progressista liberal-liberista, cui non solo le socialdemocrazie si sono adeguate ma anche il pensiero post-operaista è subalterno; 3) non può più esserci un soggetto rivoluzionario all’interno del processo capitalistico (“dentro e contro”, secondo un vecchio slogan), però può esserci la costruzione di un “popolo”, a partire da varie forme di resilienza o resistenza esterne, capace di servirsi dello Stato in una prospettiva inizialmente democratica nazional-popolare e successivamente orientabile, almeno in linea di principio, verso il socialismo; 4) l’Europa non è stata altro che un esempio di “lotta di classe dall’alto” contro i ceti subalterni, e per questo la scelta politica, per i paesi del Sud del continente ridotti a subire una sorta di dominazione neocoloniale da parte della Germania, sarebbe quella di riprendersi la loro indipendenza uscendo dalla moneta unica e, più in generale, dalla Unione europea. Di qui l’attenzione, e anche qualcosa di più, che l’autore riserva al Movimento 5 Stelle e al suo esperimento di governo con la Lega – per non dire di tutto quanto, da Sanders a Corbyn e a Mélenchon, passando per Podemos, egli include, senza preoccuparsi troppo di distinguere, nel “populismo di sinistra”.

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