E se fosse l’Europa ad avere bisogno dei Balcani?

Balcanidi Stela Xhunga

L’Albania conta meno di tre milioni di abitanti, la Macedonia del Nord due milioni e qualche manciata. «Ci vuole più integrazione e più coerenza», ha detto il presidente francese Emmanuel Macron, l’unico ad avere posto il veto sull’ingresso dei due Paesi nell’Unione europea lo scorso ottobre. Se già oggi ci sono evidenti problemi di funzionamento a 27, ha aggiunto, «come possiamo pensare che andrà meglio a 28, 29, 30 o 32?». Una posizione che oltre a marcare la distanza dai valori liberali e solidali fondativi dell’Unione europea, denota non poca miopia rispetto agli scenari possibili. L’Unione dopotutto non si è spezzata davanti alla crisi finanziaria del 2008, alla crisi di solidarietà per la gestione di notevoli flussi migratori, e nemmeno alla Brexit. Che si spezzi cadendo sui principi di inclusione e federalismo da cui è nata sarebbe, francamente, uno smacco.

È vero, in Albania la riforma della giustizia promossa dal governo socialista di Edi Rama procede a rilento. Senza nemmeno una Corte costituzionale è difficile vincere la lotta alla corruzione e al crimine organizzato, forse è per questo che si cerca di osteggiare la riforma in tutti i modi. «Rama corrotto, rivogliamo elezioni anticipate, rivogliamo Berisha» hanno urlato per mesi, tra vetrine rotte e minacce di incendi, alcuni manifestanti del tutto dimentichi che fu proprio Sali Berisha, a capo del partito di centrodestra, a essere travolto dallo scandalo di corruzione nel 2013. Secondo i dati di Transparency International, l’organo che dal 1995 incrocia i dati ufficiali e pubblica annualmente gli indici di percezione della corruzione di ciascun Paese, l’Albania è il Paese più corrotto dell’intera regione dei Balcani. È anche uno dei maggiori produttori di marijuana al mondo, comprensibile che Francia e – vedi caso – Olanda esprimano il timore di «agevolare tanto l’infiltrazione mafiosa di questi gruppi nel contesto europeo quanto i loro affari, come il traffico di marijuana». Instillare disillusione e rancore nei confronti dell’Europa in una terra così cruciale come i Balcani, tuttavia, è un grave rischio. I motivi si possono riassumere in sole tre parole, per altro così connesse da essere potenzialmente intercambiabili: migranti, Turchia, armi.

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A proposito di Brexit e altri mostri

brexitdi Luca Lenzini

C’è qualcosa di sinistro nel modo in cui il tema “Brexit” viene affrontato dai media, includendo in questa sfera non solo gli opinionisti più o meno di grido e i giornalisti di vario ordine e competenza, ma anche i politici, che ormai dai media sono generati, promossi e quando è il momento annientati. Nel caso dei politici continentali, a colpire è l’assoluta banalità delle dichiarazioni in merito, oppure il mutismo d’occasione: due manifestazioni con la stessa origine, ovvero il senso di profonda impotenza di chi, proprio mentre si propone come Decisore e Guida, è in realtà in balia di eventi che non è affatto in grado di controllare, così come non è in grado di capire né la propria futura rovina né quella del paese che dovrebbe governare.

La parabola di David Cameron, del resto, assomiglia non poco a quella di Matteo Renzi: l’aria disinvolta, disincantata e decisionista con cui, uscendo dalle brune limousine con le bandierine e i vetri fumée e abbottonandosi le giacchette, gli arditi giovinotti per un attimo si offrivano ai reporter assiepati sui marciapiedi prima dei grandi Vertici, non era che breve sogno, labile fumo senza arrosto; tutti quei brillanti ingressi erano soltanto il preludio della maldestra uscita di scena, tutta quella giovinezza mal spesa nient’altro che l’annuncio della precoce caduta.

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