Energie sociali e paure irrazionali nella pandemia

pandemiadi Giorgio Stamboulis

La seconda ondata del covid-19 ci pone davanti a tutte le contraddizioni e ai problemi politici, sociali ed economici che la volontà di rassicurare la popolazione, e la necessità di affrontare l’emergenza, avevano nascosto sotto il tappeto. I media e la politica hanno concentrato l’attenzione quasi esclusivamente sulla contrazione dei consumi e soprattutto dei profitti. Il dilemma e il tentativo di conciliazione proposti sono stati tra il diritto alla salute e quello ad arricchirsi, mentre altre priorità sono state messe tra parentesi, come il diritto al lavoro, all’istruzione, alla socialità, alla libertà di movimento ed espressione.

Su giornali, televisioni e social, il dibattito pubblico è stato ampiamente ricondotto alla dimensione morale della responsabilità individuale, con slogan, più che con argomentazioni, che di volta in volta hanno spostato il soggetto della condanna, riproducendo però sempre la stessa logica: «il runner non deve correre perché diffonde il virus e si distrae dalla lotta alla malattia»; «i giovani si incontrano e vanno a ballare, ma così diffondono il virus»; «le scuole potrebbero fare la didattica a distanza»; «ristoratori e baristi vogliono tenere aperto a tutti i costi per persone che pensano solo agli aperitivi e alle cene, e se ne fregano delle morti»; oppure «pensano al Natale mentre siamo con gli ospedali al collasso».

Il moralismo imperante ha prodotto un fronte mobile con due eserciti apparenti: coloro che si ergono a inquisitori degli altri e cercano un capro espiatorio; coloro che negano il virus, la sua gravità e l’emergenza sanitaria, per non vedere lese le proprie esigenze. Si tratta di una contrapposizione apparente, come dimostra il caso di Crisanti e dei vaccini, perché spesso si oscilla tra i due poli in base al soggetto sotto accusa. In pratica, molte e molti stigmatizzano i baristi e i ristoratori perché le loro attività sarebbero non essenziali, mentre le scuole, che rappresentano un diritto fondamentale, andrebbero tenute aperte; oppure sono pronti ad attaccare i giovani e l’estate “sciagurata”, come piace dire a Galli. Esiste anche una parte minoritaria, ma significativa e crescente, che non crede al virus, all’uso della mascherina, alle misure di contenimento e ha paura dei vaccini: anche in questi casi molti però hanno oscillato tra le paure contrapposte, quella della cosiddetta dittatura sanitaria e quella della malattia.

La paura è il sentimento su cui hanno puntato la politica e la comunicazione di contenimento della pandemia. Sin da Spinoza, sappiamo che paura e timore sono la base fondamentale della superstizione irrazionale e sono anche un formidabile strumento di governo. Tuttavia, si ha l’impressione che siamo oggi di fronte a un uso dell’emergenza non pianificato e male inteso nei suoi effetti da parte della classe politica europea. La paura, infatti, ha avuto due conseguenze: quella di reprimere orizzontalmente le energie sociali e quella di scatenare reazioni irrazionali contrapposte ma simmetriche.

La reazione più diffusa è stata quella di cercare un capro espiatorio. Non un bersaglio stabile e costante, piuttosto, come si è detto, una sorta di obiettivo mobile che si modifica alla stessa velocità con cui si trasforma la comunicazione intorno al virus, la quale deve continuamente inondarci di presunte novità per mantenere vivo l’interesse dell’utente dei media. Non è possibile individuare un nemico permanente, quindi, perché esso presto perderebbe d’interesse da un punto di vista informativo. L’impostazione moraleggiante del discorso, secondo cui i comportamenti individuali sono alla base dei dati numerici, serve a incanalare l’attenzione su una responsabilità di volta in volta altra: ma, attenzione, individuati gli untori, allora le morti, le sofferenze e la crisi sanitaria non toccheranno più la nostra coscienza pulita.

L’esito sono appunto le reazioni irrazionali, sollecitate dall’impostazione morale-sanitaria che si sostituisce a un’altra di tipo politico-sociale. Siamo di fronte alla riproposizione di un pensiero magico della punizione divina, secondo il quale la pandemia e il suo perpetuarsi dipendono dai comportamenti e dalle cattive abitudini. Magari non c’è più il richiamo trascendente, ma l’impostazione logica è analoga: abbiamo peccato, veniamo puniti e, non redimendoci, la punizione sarà senza fine. Il presupposto è che il virus abbia uno scopo, e che, nella realizzazione di questo presunto scopo, esistano delle responsabilità prossime che coinvolgono amici e parenti.

Una seconda reazione, sia pure minoritaria, è simmetrica, sebbene neghi l’epidemia e sia alla ricerca di improbabili complotti. Non possiamo uscire, mantenere i rapporti sociali e garantire i nostri redditi per colpa di una magica volontà oscura da affrontare e sconfiggere. Il nemico appare qui più stabile ma altrettanto sfuggente: il sistema, l’establishment, il potere. Ancor più, i nemici sono i simboli dell’emergenza, cioè i vaccini, le mascherine, perfino i medici e gli infermieri. Non trovando il colpevole, si cerca un suo surrogato simbolico e si evita di vedere il problema anche quando è palese. Il vaccino, per esempio, dovrebbe essere un bene comune dell’umanità senza profitti, e invece abbiamo trasferito e trasferiremo enormi quantità di denaro pubblico nelle tasche dei grandi colossi farmaceutici. Il problema politico e sociale è «chi si arricchisce nella pandemia?», e invece siamo indotti a cercare il responsabile in simboli e untori, come se secoli di pensiero critico fossero passati invano. Non solo, i danni effettivi della pandemia vengono messi in secondo piano, con tutte le morti, le sofferenze e le cattive cure dovute a sistemi sanitari che non sono stati in grado di affrontare l’emergenza a causa di ragioni politiche, culturali ed economiche.

Per energie sociali vanno intese tutte le attività che caratterizzano e accompagnano la produzione materiale e la riproduzione sociale. Una gerarchia tra queste sarebbe fittizia e impropria. La priorità è politica, non è data da parametri oggettivi. I bisogni primari sono un falso criterio, perché non è data alcuna priorità al diritto alla vita e ai suoi corollari: la casa, il cibo, l’istruzione. La stessa sanità pubblica non è stata preparata adeguatamente all’autunno, alla cosiddetta seconda ondata, mentre il privato ha moltiplicato i profitti con gli investimenti per i vaccini e gli appalti d’emergenza. E le mascherine imposte anche all’aperto potrebbero essere viste come il caso più eclatante di una logica puramente disciplinare: esse vanno usate anche quando non serve, perché così saranno indossate quando indispensabili.

Ma le energie sociali compresse portano necessariamente a comportamenti che cercano di surrogare la repressione patita, o tramite la negazione dell’emergenza o tramite la compensazione di una ricerca estrema della sicurezza, o ancora con la ricerca di valvole di sfogo nelle zone grigie. Un comportamento è quello più diffuso ed evidente: le persone non si incontrano fuori ma lo fanno nelle case, gli sportivi fanno partitelle semiclandestine, e se a una certa ora chiudono i bar e i ristoranti, allora si anticipano gli aperitivi.

Il quadro è quello di una presa repressiva che vede però venire meno, da ogni lato, la capacità di controllare. La ragione è che si è utilizzata una politica di contenimento basata sull’imposizione a una cittadinanza passiva e messa in stato di minorità, attraverso un messaggio che ha puntato semplicemente ad attivare un senso di colpevolezza generalizzato. L’efficacia del contenimento è stata dunque molto limitata. Si vedono sempre dei trasgressori per due motivi: 1) noi tutti trasgrediamo quando i nostri bisogni e desideri superano la paura; 2) se la nostra adesione non è consapevole e attiva, la paura chiude in un angolo i soggetti ma può essere anche l’anticamera di un ottimismo irrazionale e immotivato. La razionalità della politica e dei suoi messaggi, priva di approcci paternalistici e ricattatori, potrebbe al contrario dare risposte a quei bisogni e desideri che la pandemia ha così brutalmente svelato, come pure a tutti quei diritti messi da parte che dovrebbero invece trovare un orizzonte di piena attuazione e rilevanza.

Sanzionare e reprimere orizzontalmente può sembrare una buona soluzione a prima vista, ma non ottiene gli effetti sperati perché provoca uno stress non proporzionato, e finisce con l’essere un catalizzatore di comportamenti irrazionali. La paura indotta è accompagnata anche da una forte dose di incertezza, dall’assenza di una progettazione pronta a resistere alle ondate pandemiche. La logica che ne consegue è semplice e la possiamo vedere riproposta quotidianamente: corriamo nei centri commerciali perché non si sa se poi potremo fare i regali, ci infiliamo in alberghi dove poter mangiare fuori la sera, ci ingozziamo di cibo spazzatura e alcolici, sfoghiamo la rabbia sui social, ci appostiamo per spiare eventuali trasgressori, andiamo nei luoghi di assembramento per fotografare le masse ignoranti e postarle ovunque, non programmiamo nulla oltre i due o tre giorni e attendiamo la salvezza con qualche incredulità. Le scelte e la comunicazione politica vanno valutate sui risultati: in Europa abbiamo atteggiamenti diffusamente inadeguati, restrizioni dolorose e ospedali strapieni.

Il problema sono i modi e le priorità con cui si indirizzano le energie sociali, che hanno creato un cortocircuito tra la necessità di affrontare una difficile situazione sanitaria e quella di perpetuare l’ordine sociale. Le scelte europee sono state rivolte a mettere in sicurezza i profitti e a garantire una futura crescita economica. I due aspetti sono correlati e non separati tra loro perché il Recovery Fund e la politica della Banca centrale europea hanno come obiettivo di reindirizzare i capitali, mantenendo intatto il quadro di fondo e utilizzando l’indebitamento pubblico per sostenere il tessuto e gli interessi privati. La struttura economica e sociale, però, è rivolta a un consumo continuo e rapido delle merci materiali e immateriali, cosicché il capitale possa fluire costantemente e valorizzarsi. Detto altrimenti, il freno del contenimento non è granché compatibile con la necessità di generare profitti a grande velocità. Per questo il virus non ha portato a un rovesciamento delle priorità e dei diritti: socializzare, istruirsi, nutrirsi, curarsi non generano immediatamente un beneficio alla circolazione dei capitali. Certo, c’è un blocco a settori fondamentali per il flusso dei capitali, come il turismo e gli investimenti immobiliari, ma in questo caso le perdite possono portare a una ristrutturazione del capitalismo che può riversarsi su tutti i surrogati informatici che compensano il reale godimento dei diritti. Inoltre alcuni governanti ha usato questa situazione proprio per colpire questi diritti. La legge sulla sicurezza francese globale, per esempio, è stato un chiaro tentativo di utilizzare la pandemia per comprimere la partecipazione politica e la libertà d’espressione, come ha dimostrato il divieto di filmare i poliziotti previsto dal disegno di legge.

In definitiva, chi esce vincitore e chi sconfitto? La gestione dell’emergenza sanitaria non è neutra: questo dovrebbe essere il vero cuore del dibattito pubblico sui mass media e sui social. La risposta irrazionale indotta è funzionale all’ordine di priorità che viviamo, dettato dalle esigenze di mantenimento del sistema economico e sociale. I diritti alla socialità, all’istruzione e alla cura sono piegati alle esigenze del capitale. Le stesse evidenze clinico-sanitarie vengono piegate alle esigenze politiche, economiche e sociali. Su queste ultime dobbiamo intervenire, perché la ricerca medica deve fare il suo corso e risolvere l’emergenza dovuta alla malattia, mentre gli effetti collaterali sono in capo alle istituzioni e ai cittadini.

Giorgio Stamboulis è dottore di ricerca in Storia moderna presso l’Università di Firenze e autore di Radicali e moderati nell’illuminismo balcanico. Il pensiero politico di Adamantios Korais e Rigas Velestinlìs e di Filosofia precaria. Insegna Filosofia e Storia alle scuole superiori.

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