L’antisemitismo tra negazionismo francese, revisionismo ungherese e israelizzazione

Negazionismodi Stela Xhunga

Si prova un certo sollievo a trattare di antisemitismo e teorie negazioniste lontano dal 27 gennaio. Il terreno è sgombro dalle cerimonie della politica che a cavallo della Giornata della Memoria ci tiene, ligia, a ribadire la propria estraneità a ogni tipo di discriminazione. Tutta la politica, compresa quella di destra. Poco importa se a marzo 2019, come fece la segretaria di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, si era twittato: «Soros scende in campo per le elezioni europee finanziando con duecentomila euro il partito di Emma Bonino. Un grande orgoglio per Fratelli d’Italia: tenetevi i soldi degli usurai».

Passato il 27 gennaio, rimane l’essenziale, la realtà. Quella dei numeri pubblicati il 30 gennaio e raccolti dal Rapporto Italia 2020 dell’Eurispes, giunto alla trentaduesima edizione, dove alla voce antisemitismo risulta che il 15,6% della popolazione nega la Shoah. Rispetto alla negazione tout court dello sterminio degli ebrei, un 4,5% si dichiara «addirittura molto d’accordo» con l’Olocausto, un 11,1% è «abbastanza d’accordo» con l’Olocausto, a fronte dell’84,4% «non concorde» (il 67,3% «per niente», il 17,1% «poco»). Il 16,1% è convinto che l’Olocausto non abbia prodotto così tante vittime come si racconta. Un italiano su sette è negazionista.

Il ruolo del negazionismo francese

 Sembra incredibile, ma, prove alla mano, il negazionismo è nato prima della stessa parola «Olocausto». All’indomani della seconda guerra mondiale, per circa trent’anni, non se n’è parlato. I sopravvissuti faticano a raccontarne, e gli storici, forse per inadeguatezza, forse per bisogno di guadagnare tempo e raggiungere la giusta prospettiva analitica, non ne trattano in maniera compiuta. È in questo silenzio attonito che, in Francia, alcuni personaggi spiccatamente antisemiti approfittano per riscrivere la storia, e lo fanno subito, già a ridosso del Processo di Norimberga. Il genocidio sarebbe un’invenzione degli ebrei che così si sono arricchiti e hanno giustificato la creazione dello Stato d’Israele. Il primo a metterlo nero su bianco è Maurice Bardèche nel saggio Nuremberg, ou la terre promise scritto nel 1948 e pubblicato l’anno seguente. Uomo di lettere, Bardèche sposa la sorella di Robert Brasillach (antisemita assai noto, alla Liberazione fu giustiziato perché collaborazionista dei nazisti) e fa immediatamente proseliti, anche eterodossi, come nel caso di Paul Rassinier. Da giovane filo-partigiano e perciò prima torturato dalla Gestapo poi deportato nel campo di concentramento di Buchenwald. Sebbene non abbia messo piede in un campo di sterminio è, a tutti gli effetti, un testimone dei crimini tedeschi. Ciò nonostante, riprende le tesi di Maurice Bardèche, scrive e divulga nelle librerie francesi (e non solo) di estrema destra.

Intanto gli anni passano, i sopravvissuti sono ancora alle prese con la fase post-traumatica, e nel 1978 fa la sua apparizione Robert Faurisson. Membro di associazioni in difesa della memoria di Pétain e della conservazione dell’Algeria francese, ha letto attentamente i libri di Maurice Bardèche e Paul Rassinier. Robert Faurisson è smaccatamente di estrema destra, ma si impone con straordinaria capacità mimetica. Al pubblico si presenta come un ricercatore apolitico, un uomo di scienza guidato dalla ragione e non dall’ideologia. Perfeziona le teorie precedenti introducendo il negazionismo tecnico. È tecnicamente impossibile – dice serafico Faurisson, specialista in letteratura francese, in nessun modo qualificato a parlare di storia o ingegneria – che le camere a gas avrebbero potuto funzionare. Cerca insistentemente di pubblicare sui giornali, ci riesce nel dicembre 1978, quando il quotidiano Le Monde accetta uno dei suoi articoli. Faurisson spicca il volo, una traversata internazionale che durerà quarant’anni.

Voci da Budapest

«L’integrazione senza segregazione porta alla super-segregazione». Le parole si riferiscono agli ungheresi rom e sono di Lóránt Hegedűs, prete presbiteriano piuttosto noto a Budapest per avere voluto ospitare il monumento a Miklós Horthy (reggente di Ungheria durante la guerra, antisemita e filonazista fino a quando Hitler non se ne sbarazzò) sul sagrato della sua chiesa, in piazza della Libertà, a una manciata di metri dal parlamento. Il nazismo e il fascismo, superfluo ribadirlo, con gli ebrei hanno perseguitato anche i rom. E gli omosessuali e i portatori di handicap. Durante l’intervista Lóránt si è mostrato cordiale, sorridente. Un uomo mite. La figlia era dolcissima. Si è detto «dispiaciuto» che la politica e la stampa «comunista» abbiano bloccato la proposta arrivata dalla costola di estrema destra (staccatasi da Jubbik a seguito della virata riformista e della coalizione con il centrosinistra) di istituire scuole per soli rom. Segregarli, appunto.

Oggi l’antisemitismo non è un’opinione ma un reato, in Italia come nella maggior parte degli Stati occidentali. Dovendo definirlo in poche battute, si converrebbe nel dire che si tratta di un sentimento razzista, basato sull’intolleranza, nutrito di complottismo, insomma una barbarie, l’affermazione di una volontà persecutoria. E tuttavia, per annidarsi, fa il paio con altri fenomeni, come il revisionismo, per esempio. Un revisionismo spesso al confine della storia. Miklós Horthy: «non è vero che ha consegnato gli ebrei ai nazisti» – ha dichiarato il prete Lóránt – «anzi li ha salvati»; e i cittadini che per anni, ogni pomeriggio, hanno manifestato contro quel monumento riunendosi pacificamente ed esibendo le fotografie dei propri cari deportati e uccisi «non sono in realtà veri ebrei» ma «comunisti», perché «non tutti gli ebrei sono contro Horthy, tutt’altro». Una storia da riscrivere, o quanto meno da verificare, a detta del prete.

In Italia l’Ungheria piace molto, anche agli ultimi, in ordine di tempo, amici di Israele. A gennaio il segretario della Lega, Matteo Salvini, ha promosso in Senato un evento intitolato «Le nuove forme dell’antisemitismo». Assente l’invitata Liliana Segre, «per impegni precedentemente presi». Fra gli ospiti c’era invece Dore Gold, già ambasciatore di Israele all’Onu e presidente del Jerusalem Center for Public Affairs, il quale, alla domanda «chi sta diffondendo l’antisemitismo in Europa?», ha risposto: «Dopo la caduta dell’Unione sovietica sono emerse nuove forme di cooperazione che noi chiamiamo le “alleanze rosso-verdi”: queste forniscono linfa vitale alla diffusione dell’antisemitismo». Sul banco degli imputati «le organizzazioni terroristiche «protette da qualcuno» responsabili di diffondere idee antisemite in Europa e negli Stati Uniti.

Israelizzazione

In Ungheria, ha poi spiegato Gold, «c’è stato un forte rifiuto dell’immigrazione nel 2015. La Germania invece ha deciso di aprire i confini nel 2015. Non è un caso che a Berlino, e non a Budapest, al capo della comunità ebraica sia stato consigliato di rimanere in casa e di non uscire senza scorta. Proprio a causa dell’immigrazione giunta in Germania negli ultimi anni». Del resto all’antisemitismo – tenace al punto da non risparmiare nemmeno gli ambienti di sinistra per via della questione palestinese, con una sovrapposizione pericolosa tra antisemitismo e antisionismo –, specie dopo l’11 settembre, è per certi versi subentrata l’avversione all’islam. Da anni in Europa e in generale in Occidente si è insinuata quella che è stata definita dagli analisti di Brookings una «israelizzazione» della vita dei cittadini, un concetto che il politologo Dominique Moïsi ha teorizzato per primo.

Israelizzazione significa accettare di vivere come da sempre si vive in Israele, fronteggiando rischi quotidiani che si traducono in controlli continui, e con un senso di paura e fatalismo divenuti ormai costanti. Chiunque è sospettabile, soprattutto se islamico, o addirittura attivista ambientalista, come dimostra un documento diffuso nel Regno Unito che ha sollevato non poche polemiche. La sezione antiterrorismo della polizia britannica ha inserito Greenpeace, PETA (People for the Ethical Treatment of Animals), il gruppo «Campagna per il disarmo nucleare», che si batte contro l’uso di armi nucleari, chimiche e biologiche, l’associazione ambientalista Extinction Rebellion e altre organizzazioni no-profit all’interno di un documento a uso pratico con finalità di prevenzione antiterrorismo. Nel documento, difeso dalla segretaria di Stato per gli affari interni del Regno Unito nonché membro del Partito conservatore, Priti Patel, figurano gruppi che inneggiano al suprematismo bianco e al nazismo. Il tema della sicurezza si è talmente mangiato l’intero discorso politico che le «ragioni di sicurezza» hanno stabilmente preso il posto di quello che una volta s’intendeva per «ragion di Stato». Con buona pace dei nostalgici e dei negazionisti che, in questo stato di perenne allarme, proliferano, e di notte, com’è accaduto a Mondovì, sull’uscio di una casa appartenuta a un’italiana ebrea, Lidia Rolfi, staffetta partigiana, venduta da un compaesano mentre portava rifornimenti ai partigiani della XI divisione Garibaldi, XV brigata Saluzzo, undici mesi di lager, possono scrivere: Juden hier.

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