Dalla macchina per abitare alla casa-città

Alessandra Criconia

Il coronavirus ci ha fatto rendere conto che la salute non è un fatto privato che riguarda unicamente chi viene colpito dalla malattia e si trova ad affrontare difficili percorsi di cura, ma è una questione collettiva, che inizia prima dell’insorgere della malattia stessa, e tocca i luoghi e i riti della nostra esistenza. In tal senso, il confinamento è stata un’esperienza che ci ha obbligato a modificare le abitudini di vita e l’occasione per riscoprire le nostre case come luoghi da abitare e non più come dei pied à terre in cui tornare la sera per cenare, vedere la televisione e dormire. La casa, durante il confinamento, è diventata anche la nostra città, utilizzata tanto come spazio domestico quanto come ufficio, aula scolastica, palestra, trattoria, piazza, giardino… La vita sociale e pubblica è stata concentrata in uno spazio ridotto che in modo talvolta miracoloso è stato adattato a programmi diversi, sfruttando criteri di flessibilità e ricorrendo a espedienti di modificazione real time dei metri quadri di pavimento disponibili. Abbiamo potuto apprezzare i cambiamenti dell’architettura interna della casa, il fatto che i corridoi che separavano le stanze non esistono quasi più, e i soggiorni sono diventati degli open space attrezzati e multifunzionali. Il confinamento ci ha permesso di capire, in modo concreto, cosa sia una machine à habiter contemporanea: un congegno in cui ogni elemento abitativo (armadi, tavoli, sedie, mobili, sanitari, apparecchiature) occupa un posto perfettamente misurato per liberare lo spazio e non intralciare i movimenti dell’abitante, e anche un guscio costruito intorno all’abitante stesso come la chiocciola della lumaca. La moderna macchina dell’abitare, individuale e misurata al centimetro, si è evoluta. In particolare la casa contemporanea richiede comfort e qualità spaziali che non si conciliano necessariamente con la piccola dimensione dell’Existenzminimum. La macchina per abitare contemporanea è cioè uno spazio non smisurato ma neanche eccessivamente ridotto. Così come non è completamente individualista, ma una giusta miscela di individualismo e spazio sociale: una casa-città relazionale che implica anche lo spazio pubblico.

Le restrizioni causate dal coronavirus hanno quindi mostrato come i condomini dotati di cortili interni, di giardini e terrazze comuni possiedano degli ammortizzatori della vita pubblica. E questo fa tornare alla memoria i grandi falansteri dei primi del Novecento, come il Karl-Marx Hof della Vienna rossa, che concentravano un gran numero di abitazioni intorno a cortili coltivati a giardino e attrezzati con asili nido, scuole, palestre, piscine, lavanderie, per consentire ai residenti di avere i servizi comuni a portata di mano. La battuta di arresto causata dal coronavirus (che andrebbe considerata come monito per un modello di sviluppo out of limits e per una tecnologia moderna paradossalmente fragile) dovrebbe indurci a ripensare la qualità degli spazi esistenziali, le relazioni di prossimità, il valore del tempo, il rapporto pubblico/privato. Certamente non è possibile modificare la città dall’oggi al domani, ma non si tratta di fare tabula rasa e di ricominciare daccapo. Il distanziamento di due metri indicato dai tecnici della sanità come misura di salvaguardia per evitare la diffusione del contagio non è tale da far saltare in toto lo spazio pubblico e collettivo. Più che altro, la circolazione di un virus invisibile induce a riflettere sulla città in termini di pratiche d’uso degli spazi pubblici: trasporto pubblico efficiente, percorsi fluidi e scorrevoli, strade pulite, piazze e giardini curati, servizi accessibili, tanto quelli commerciali e sanitari quanto quelli legati al tempo libero (ristorante, teatro, cinema, spiagge). La questione che si pone è come conciliare la qualità ambientale – aria salubre, controllo climatico, fonti energetiche naturali – con l’igiene urbana (strade pulite, cassonetti svuotati, alberi potati, facciate rimesse a nuovo). Il che costituisce in ultima analisi anche una questione estetica.

La città non nasce come un agglomerato mostruoso. Essa non è cioè un male in sé, come ritengono alcuni. Sebbene venga talvolta dipinta come il luogo da cui fuggire, contrapponendole la campagna come orizzonte di autenticità e di felicità, la città è ancora oggi il luogo delle opportunità e dell’emancipazione: la possibilità di scegliere tra forme e stili di vita differenti, di avere una vita pubblica e sociale, di migliorare il proprio stato economico. Per proseguire dunque nella riflessione sullo sviluppo urbano e i suoi limiti scoperchiata dal Covid-19, è necessario superare gli arroccamenti e le prese di posizione ideologiche: non i pregiudizi debbono prevalere, ma un ragionamento puntuale a partire dai dati di fatto, al fine di riorganizzare gli spazi in modo appropriato, senza pensare di dover tornare alla campagna per un’alternativa.

Quello che in questi anni è venuto a mancare è un sereno discorso sul progetto della città. La pianificazione è stata accusata di inefficacia e di visioni distorte. Ma la pianificazione non è soltanto perimetrazioni, vincoli, norme, cronoprogrammi; è anche (e soprattutto) progettazione del territorio e produzione dello spazio, per dirla con Henri Lefebvre, a partire da uno sguardo a volo d’uccello, così da avere una visione ampia e globale senza perdere i dettagli. Si tratta di sviluppare uno sguardo critico non scambiando delle misure per soluzioni. Un esempio sono le piste ciclabili: in sé sono una buona cosa, ma programmare unicamente delle piste ciclabili comporta una settorializzazione dei ragionamenti che tengono conto in modo solo parziale delle esigenze di una cittadinanza che è plurale. Mi spiego. Non tutti amano andare in bicicletta e non tutti vogliono, o possono, spostarsi con le due ruote: per gli anziani e i disabili, per esempio, è improbabile che la bicicletta sia un veicolo adatto. C’è poi chi preferisce andare a piedi e chi invece è costretto a muoversi in auto, o a prendere un mezzo pubblico, perché deve spostarsi per diversi chilometri. Questo significa che la migliore risposta alla domanda di una mobilità urbana per tutti non è aumentare il numero delle piste ciclabili ma avere una visione integrata dei percorsi, i quali devono essere differenziati a seconda del mezzo di trasporto (strada, marciapiede, pista ciclabile, binari) e collegati tra loro nei nodi e nei punti di intersezione. Senza questa varietà di percorsi e sentieri, la vita in città continuerà a essere faticosa e insoddisfacente.

A vederli dal lato positivo, i cambiamenti urbani richiesti dal contenimento della diffusione del virus rendono ancora possibile pensare a una città per tutti, perché essa già esiste in filigrana. Si tratterebbe di cambiare la scala e dare più rilievo ad alcuni aspetti delle nostre città, per esempio alla vita di quartiere, ai circuiti locali di microcircolazione, agli spazi pubblici di prossimità, agli interni delle nostre abitazioni… E di trovare nuove soluzioni per aprire a una diversa idea di ambiente urbano. In tal senso, la diffusione planetaria del coronavirus potrebbe permettere quella sterzata che gli interessi del capitalismo hanno fin qui sempre ostacolato: riconversione ecologica; multimodalità dei trasporti; lavoro a distanza; superamento della gentrification dei centri storici; ridimensionamento del fenomeno airbnb e degli affitti brevi. La questione della salute pubblica potrebbe aprire a una negoziazione con il dominio dell’economia (e della monocultura del turismo), consentendo uno sviluppo “alla scala umana”, senza per questo rinunciare alle opportunità della vita urbana e senza cadere nel tranello di una vita magari ritirata nei piccoli borghi.

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