Tolleranza religiosa e legame nazionale in Albania

di Stela Xhunga

In Albania si beve molto caffè. Lo si fa tendenzialmente al bar, a qualsiasi ora. Accade di bere un caffè con una persona e scoprire che è di religione musulmana perché a un certo punto si alza e se ne va, deve andare a pregare. Poi magari la si rincontra al fianco del consorte, e sempre casualmente si scopre che l’altro è di religione ortodossa, o cattolica. Accade allora che il forestiero rimanga sorpreso, e chieda loro come abbiano fatto a sposarsi, a quel punto seguono l’occhiata divertita da parte dei due e una risposta, che solitamente suona così: “Che domanda! facendo festa per tre giorni, come tutti”. La coabitazione religiosa e la sostanziale assenza di conflitti tra cattolici, ortodossi, musulmani e bektashi in Albania è qualcosa di sorprendente, specie se raffrontato ai conflitti etnico-religiosi nel resto della regione balcanica, ma rappresenta un’eccezione anche rispetto a buona parte dei cosiddetti paesi progressisti dell’Europa. Durante la seconda guerra mondiale, le istituzioni albanesi rifiutarono le leggi razziali e non consegnarono nessuno degli ebrei presenti sul territorio, né ai fascisti italiani né ai nazisti tedeschi. Non solo, molti cittadini albanesi offrirono identità false e nascosero gli ebrei provenienti dai paesi dove erano invece perseguitati.

In Albania la nazionalità prevale sulla religione, e non da oggi: già nel 1909, il giornalista francese Gabriel Louis-Jaray osservava come “il legame nazionale, in Albania, è assai più forte delle divisioni religiose”. Un legame che nel 1878 il poeta risorgimentale Pashko Vasa, in un passaggio della sua poesia O moi Shypni, cantava così: “O albanesi, vi state uccidendo tra fratelli / vi siete divisi tra cento gruppi armati / alcuni dicono io ho la fede / altri dicono io ho la religione / uno dice sono turco, l’altro sono latino / io dico sono greco, alcuni altri io sono serbo / ma voi siete tutti fratelli, o sventurati!”. Un legame propiziato da Giorgio Castriota, detto Scanderbeg, Gjergj Kastrioti Skënderbeu in albanese. Figlio di Giovanni Castriota, principe di Croia, ribelle agli ottomani, che perciò catturarono e tennero in ostaggio ad Adrianopoli i quattro figli Stanisha, Reposh, Costandin e lui, Giorgio, che prima di diventare eroe nazionale e guadagnarsi i titoli di “difensore impavido della civiltà occidentale” e “atleta di Cristo” per avere difeso l’Europa dall’avanzata ottomana, si formò presso la corte del sultano, guadagnandosi per altro la sua amicizia.

È da allora, dal 1400, che la Turchia sa che qualunque sua mira espansionistica non può prescindere dall’Albania, solo che fino all’Ottocento ha tentato di piegarla con la forza, poi, durante l’isolazionismo di Henver Hoxha, è rimasta ferma, e oggi è tornata all’attacco con manovre di soft power che prevedono il finanziamento e la costruzione di nuove moschee. Il 24 luglio è stata ufficialmente riconvertita in moschea l’antica basilica bizantina di Santa Sofia per volontà del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che non ha raccolto nessuno degli appelli giunti da diverse parti nel mondo, né ha preso in considerazione di rendere Santa Sofia un luogo di condivisione dei culti, sia cristiani sia islamici, come hanno proposto alcuni leader cristiani pakistani, protestanti, e cattolici. Essendo insorto anche l’Unesco, Erdogan ha promesso di preservare i mosaici e gli affreschi cristiani della cattedrale, che saranno coperti con tende solo durante la preghiera. Prima cristiana poi musulmana, infine sconsacrata e ora riconsacrata, nei secoli abbellita, spogliata, vittima di incendi, crolli, furia iconoclasta: Santa Sofia è l’emblema di come religione e nazionalismo si impastino, anzi spesso coincidano.

Dopo il lockdown, a Tirana sono ripresi i lavori di edificazione della nuova moschea, si vocifera che sarà enorme, bellissima e sfarzosa grazie ai soldi di Erdogan, finanziatore (non troppo) anonimo. Sul nuovo edificio in tanti già proiettano la degna risposta alla cattedrale ortodossa di Tirana, completata nel 2012 e consacrata nel 2014 dall’arcivescovo ortodosso greco Anastasio, dal 24 giugno 1992 primate della Chiesa ortodossa albanese con il titolo di arcivescovo di Tirana e di tutta l’Albania, uomo potentissimo. Il nome scelto per la cattedrale è “Resurrezione”, in albanese “Ngjallja” e in greco, “Anastasis”, appunto. Notoriamente filogreca in Albania e filorussa in Serbia, Montenegro e Macedonia del Nord, la Chiesa ortodossa gode di un tale potere, che in piena pandemia è riuscita a far valere le proprie istanze contro i leader politici, che ben sanno quanto gli elettori siano influenzati dai pope. E così si è chiuso un occhio sulle messe che copiose si sono tenute in tutta la regione, nonostante i divieti. In Serbia sono stati segnalati casi in cui i pope hanno servito l’ostia come d’abitudine, senza alcuna precauzione. In Macedonia del Nord, le chiese sono addirittura rimaste aperte per la Pasqua. Un caso a sé è il Montenegro, dove il patriarca della locale Chiesa ortodossa ha pubblicamente dichiarato: “Crediamo ai dottori, ma non siamo ingenui. Le autorità stanno piegando quest’epidemia ai loro scopi ideologici e politici”.

In Albania, complice un primo ministro Edi Rama particolarmente “pragmatico” e a proprio agio nei panni dell’uomo forte – sua la decisione di introdurre pene fino a 15 anni per soggetti ritenuti colpevoli di diffondere il contagio violando la restrizione di rimanere a casa – ciò non è avvenuto. Ancora una volta, gli albanesi si sono sentiti prima tutti albanesi, poi ciascuno fedele alla propria religione. Il timore è semmai per il futuro, quando, scemata la pandemia, ci si ritroverà in uno Stato di diritto indebolito con ancora di fronte il difficile compito di proseguire i negoziati per entrare a far parte dell’Unione europea. Negoziati fortemente osteggiati tanto dai pope ortodossi, quanto dagli imam musulmani. I primi premono per un’Albania ellenizzata al seguito della Grecia, i secondi inseguono i progetti di moderna ottomanizzazione di Erdogan, che preferisce, almeno formalmente, dare in gestione l’Albania agli Stati Uniti o alla Russia invece che all’Unione europea. E poco importa se, dati alla mano, è l’Europa ad avere aiutato di più non solo l’Albania, ma l’intera regione, durante l’emergenza coronavirus. Dopo avere destinato solo ai Balcani occidentali un pacchetto da 410 milioni di euro in assistenza bilaterale, 38 ad hoc per l’acquisto di materiale sanitario, Bruxelles ha stanziato altri 3 miliardi per aiutare i paesi dell’allargamento e del vicinato. Di questi, 180 milioni sono andati all’Albania, 250 alla Bosnia-Erzegovina, 100 al Kosovo, 60 al Montenegro e 160 alla Macedonia del Nord. Non pochi. Nonostante ciò, la propaganda si nutre più di chiese che di guanti, camici e respiratori. Chissà se gli albanesi resisteranno alle gradevoli architetture e alle dolci malie della propaganda. L’auspicio è che, indipendentemente dagli sviluppi futuri, gli albanesi continuino a sedersi nei bar e a sorridere di fronte all’ingenuità di chi, ottuso, si sorprende di come sia possibile un matrimonio misto tra musulmani, bektashi, ortodossi e di quanto sia semplice fare festa per giorni, rispettosi, perfino dimentichi della professione religiosa altrui.

[Foto di Fabrizio Minini]

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