Il Mes, pregi, difetti, misteri

Mesdi Piero S. Graglia

Gli ultimi mesi sono stati dominati dalla questione se sia opportuno, conveniente, utile o dannoso ricorrere ai fondi disponibili nell’ambito del Mes. Contro di esso si sono levate voci che hanno usato termini roboanti sia contro (schiavitù, asservimento, danno irreparabile) sia a favore (grande occasione, opportunità da cogliere, salvagente risolutivo). Il tutto in un’accesa polarizzazione dei giudizi che ben presto si sono trasformati in manifestazioni di fede. Nel clima da tifo sportivo che si è creato intorno al Mes, riesce sempre più difficile depurare tale tifo dalle argomentazioni precise. Prima di tutto, quindi, conviene risalire alle fonti.

Il Mes, acronimo italiano dell’inglese European Stability Mechanism (Meccanismo europeo di stabilità), viene firmato come trattato intergovernativo il 2 febbraio 2012 tra i 17 Stati dell’eurozona ed è entrato in vigore dopo la fine del processo di ratifica nell’ottobre 2012. Successivamente alla firma, all’area euro si sono aggiunti altri due Stati, il che porta a 19 gli attuali firmatari. Esso, pur appoggiandosi per il suo funzionamento alle istituzioni dell’Unione europea (in particolare la Commissione europea), non fa parte del sistema normativo dell’Unione, ma si configura come un classico trattato internazionale stipulato da una parte consistente dei Paesi che fanno parte dell’Unione, in particolare quelli che aderiscono al sistema della moneta unica. Se si parla del Mes non si può però ignorare l’altro corno del problema, che è il Trattato sulla Stabilità, il Coordinamento e la Governance dell’Unione monetaria, chiamato spesso, per brevità, Fiscal compact. Anche quest’ultimo si pone alla nascita al di fuori del quadro normativo dell’Unione. In effetti solo presi insieme i due accordi riescono a restituire il pieno senso della loro esistenza: anche perché il Mes viene firmato il 2 febbraio del 2012, mentre il Fiscal compact appena un mese dopo, nel marzo dello stesso anno.

Sia il Fiscal compact sia il Mes rispondono a una logica ben precisa: garantire quella stabilità e coerenza di politiche economiche e fiscali che un sistema che vede coesistere una moneta unica in presenza di ben 17 (oggi 19) diverse politiche di bilancio e fiscali non può garantire. Infatti ciascuno dei 19 i Paesi della cosiddetta area euro presenta diverse politiche di spesa pubblica, di intervento nell’economia, diverse politiche di gestione del debito pubblico, diversa fiscalità. Il rompicapo al quale si voleva dare una soluzione era cercare di organizzare una gestione comune dell’economia interna, diversa da Stato a Stato, in assenza di meccanismi distributivi e soprattutto in assenza di un governo unico dell’economia dell’eurozona. Appare evidente che se si abbandona l’atteggiamento ottimista fondato sulla “buona volontà” dei diversi governi, la gestione di una moneta unica richiede strumenti unici di gestione della spesa pubblica e del debito, nonché di controllo del deficit e delle attività della Banca centrale; strumenti che non possono essere sostituiti da impegni verbali o promesse, ma richiedono, in mancanza di un sistema di tipo federale o comunque unitario, sistemi di controllo “forzoso”.

Del resto, era apparso evidente sin dall’inizio (basta scorrere gli scritti di Tommaso Padoa Schioppa) che la moneta unica non era un punto di arrivo, bensì di partenza, verso una destinazione finale che era l’unione economica-monetaria, un’unica politica fiscale, un’unica politica di bilancio e accresciute risorse proprie per l’Unione, magari prevedendo un arretramento della potestà fiscale degli Stati membri a favore di un sistema misto con tributi europei e nazionali.

Tutto questo non si è potuto realizzare, solo abbozzare, e strumenti come il Fiscal compact (stabilità, controllo e convergenza delle politiche di bilancio) e il Mes (sostegno ai Paesi in difficoltà) sono, in fin dei conti, delle misure di tipo provvisorio, da un lato, e insufficiente dall’altro. In altre parole: se si vuole la sopravvivenza della moneta unica, con tutti i vantaggi relativi a stabilità e solidità dei rapporti con le altre valute mondiali e riparo da fenomeni speculativi, le strade che si aprono non sono quelle del Fiscal compact e del Mes – cioè accordi tra Stati sovrani, che tali restano – bensì quella, unica, ma ben larga, di una unione economica, monetaria, fiscale e di bilancio con una Banca centrale che risponda a un governo democratico europeo, non a 27 diversi governi in costante ricerca di un compromesso. Solo in questo modo si può uscire dall’osservazione dall’interno del “sistema” europeo, e porsi all’esterno di esso. Come Copernico immaginò un sistema eliocentrico ponendosi al di fuori del sistema solare e osservandone il funzionamento teorico dall’esterno, così noi dobbiamo abbandonare l’Unione europea tolemaica, dove tutto ruota intorno agli Stati membri e ai loro governi, e pensare a un sistema in cui non è l’Unione a girare intorno ai singoli pianeti – gli Stati – ma sono questi a ruotare intorno all’Unione.

Il Mes quindi ha un limite, sebbene non quello che i sovranisti denunciano – essere strumento dei Paesi più forti –, quanto piuttosto di essere un classico strumento di consenso negoziato, senza che vi sia, al di sopra di esso, un reale governo europeo responsabile di fronte a un sistema istituzionale sovranazionale rappresentativo (parlamento dei cittadini e Consiglio degli Stati, essenzialmente).

Il Mes si presenta non come una banca presso la quale si apre un conto corrente, ma come un garante che riceve in mano una parte del capitale sottoscritto e garantisce fondi ulteriori sulla base delle garanzie che, a sua volta, riceve dai Paesi firmatari. Per capirsi con un esempio banale: Tizio ha bisogno di un prestito ma nessuno glielo dà perché è in bolletta; tuttavia Tizio è tranquillo perché Caio, al quale anni prima lui ha prestato dei soldi che ancora non ha ricevuto indietro, non solo glieli può restituire ma può anche garantire la sua solvibilità nei confronti di debitori terzi. Caio è il Mes e Tizio è un Paese in difficoltà. Però la crisi attuale non coinvolge solo un Tizio, bensì molti di più, essendo crisi simmetrica e non asimmetrica (crisi asimmetrica è quando in una strada solo un pedone viene investito mentre gli altri sono tranquilli; crisi simmetrica è quando tutti i pedoni sono travolti).

Per tornare a noi, quante sono le risorse che il Mes (Caio) può mobilitare? Esso ha la capacità di mettere in campo 500 miliardi complessivamente, ma la contribuzione effettiva che ogni Stato ha versato al Mes è di molto inferiore: 80 miliardi in tutto. Nel caso dell’Italia si tratta di 14,33 miliardi, pari al 17,91% degli 80 miliardi di euro che tutti i Paesi dell’eurozona hanno versato. Senza fare tabelle che sono tediose, basandosi sui dati allegati alla legge italiana di ratifica del trattato (legge 23 luglio 2012, n. 116), la Germania ha versato il 27,1464% degli 80 miliardi, la Francia il 20,3859%, l’Italia il 17,9137% e via via tutti gli altri, a partire dalla Spagna (11,9037%). Però solo i primi tre contano davvero, perché superano il 15% della contribuzione iniziale, soglia che tra qualche paragrafo assumerà una notevole importanza.

Questi soldi l’Italia di fatto non li ha sborsati, lo ha fatto, presumibilmente in gran parte, “il mercato”: infatti il pagamento, in cinque rate annuali di 2,866 miliardi, è stato coperto con emissioni di titoli di Stato a medio-lungo termine, il cui ricavo netto in tutto o in parte ha finanziato la contribuzione italiana al Mes. Le caratteristiche di tali emissioni – definite come aggiuntive rispetto a quelle previste dai documenti di finanza pubblica – sono state stabilite con appositi decreti del ministro dell’economia e delle finanze. Tali importi non sono stati computati nel limite massimo di emissione di titoli di Stato stabilito dalla legge di approvazione del bilancio, né nel livello massimo del ricorso al mercato stabilito dalla legge di stabilità.

A me non pare un pagamento fatto con risorse del Tesoro, anzi; per di più sorge il sospetto che tali risorse siano state reperite anche con la partecipazione della Bce, che proprio in quegli anni ha acquistato, tra gli altri, anche i titoli di Stato italiani. Il che colora di una comicità involontaria tutte le polemiche dei vari Borghi, Bagnai e compagnia cantante sui “nostri soldi” che dovremmo riavere indietro.

Ma andiamo avanti. Chiarito il punto di quanto (e come) abbiamo “pagato” per il MES, vediamo adesso cosa esso potrebbe fare con il sistema istituzionale attuale. Dopo l’aiuto prestato a Cipro, Portogallo, Spagna e Irlanda dal 2012 in poi (conosciamo dalla stampa solo il precedente caso greco, molto meno i quattro casi ulteriori appena citati, che non hanno portato alle medesime conseguenze sul piano sociale), la capacità effettiva del Mes si è ridotta a 378 miliardi residui da ripartirsi per tutti i Paesi partecipanti in proporzione. En passant sul caso greco – una vergogna europea –, mi viene da dire che esso è stato gestito non solo dalla Commissione o dalla Bce ma principalmente dal Fondo monetario internazionale, e soprattutto dagli interessi privati che hanno concesso i fondi per stabilizzare il Paese, chiedendo in cambio un ritorno economico che non può essere imputato alle istituzioni dell’Unione, che proprio dopo quella brutta esperienza hanno deciso di creare il Mes. Strano come si sia pronti, anche da sinistra, a identificare Commissione e Bce come “poteri forti”, mentre vi sia molta più indulgenza nei confronti dei veri poteri forti, i governi nazionali e i loro contributori e sussidiari, che esercitano un’azione molto più deleteria e devastante rispetto ai primi due. Ma andiamo avanti.

Come funziona il Mes? Essendo un trattato tra Stati, il suo cuore direttivo è un Consiglio dei governatori dove siedono i ministri economici degli Stati partecipanti (un ministro titolare o un suo supplente). Se le decisioni da adottare coinvolgono gli aiuti economici necessari per la stabilità della zona euro (presumibilmente, uno Stato colpito da crisi asimmetrica, che non è certo il caso della crisi da Covid-19, che è crisi che coinvolge tutti nello stesso modo e simultaneamente), in quel caso le decisioni vengono prese non all’unanimità (comma 3 dell’art. 4 Trattato Mes) bensì a maggioranza dell’85% del capitale versato (comma 4 dell’art. 4 Trattato Mes). Quindi, nel caso che la Bce e la Commissione richiamino l’attenzione del Consiglio dei governatori sulla necessità dell’uso del Mes per mobilitare risorse sui mercati (questo è il compito del Mes, non prestare soldi, ma garantire tali prestiti), solo tre Stati possono votare contro superando il 15% che è la percentuale di capitale che dà un diritto di veto (o minoranza di blocco): Germania (27,1464% di capitale), Francia (20,3859%) e Italia (17,9137%). Mi è sempre parso strano che nessuno, né a sinistra i vari esponenti critici (primo fra tutti Fassina), né i Borghi o i Bagnai, abbiano mai citato questa non indifferente circostanza. Detta in altre parole, l’Italia detiene un potere di veto effettivo qualora la Commissione e la Bce decidano che occorrono decisioni urgenti in materia di assistenza finanziaria in caso di minaccia per la stabilità finanziaria ed economica della zona euro. Questo ovviamente vuole anche dire che l’Italia potrebbe rifiutare l’assistenza del Mes e la condizionalità che essa prevede, e nessuno potrebbe obbligarla ad accettarla.

Già, la “condizionalità”: una paroletta che ultimamente è stata ripetuta fino allo spasimo. La condizionalità sull’uso dei fondi concessi significa che deve esserci una verifica sull’uso di tali fondi. C’era condizionalità nel caso del Piano Marshall, tanto per capirci (anche se in quel caso gli Stati Uniti concedevano merci e non soldi): l’European Cooperation Administration verificava, insieme a ogni Stato partecipante, l’uso e le finalità delle materie prime, dei macchinari, dei fertilizzanti, delle sementi, dei viveri, del vestiario, concessi con la formula dei “grants in aid” (ti aiuto, ma controlliamo insieme come usi il mio aiuto).

Il caso del Mes è ovviamente più complicato, poiché viene prevista la vigilanza della Commissione e della Bce (ma non del Fmi, che entrerebbe in gioco solo se concedesse a sua volta dei fondi in prestito, e dopo l’esperienza della Grecia esso è considerato fuori gioco, citato nei trattati ma non più della partita) se si attiva il meccanismo del Mes. Ma qui entrano in campo due “condizionalità” che invece non vengono mai collocate nel giusto posto: la prima è che il Mes, trattandosi di un meccanismo intergovernativo, è sottoposto più al controllo degli Stati aderenti che non della Commissione o della Bce. La cosa è spesso dimenticata. Il Mes non è strumento dell’Unione, nasce come strumento esterno a essa, anche se i suoi aderenti sono parte dell’Ue e la Commissione viene prevista come organismo in grado di attivare il Mes e di verificarne, almeno in parte, la procedura. Tra i molti interventi in proposito che potrei citare, cito soltanto quello più illuminante, di Alicia Hinarejos (“The Court of Justice of the EU and the Legality of the European Stability Mechanism”, in The Cambridge Law Journal, 72, n. 2 (2013), pp. 237–40), che mette bene in chiaro come la nascita del Mes sia avvenuta fuori dai confini dell’Ue: perché sostanzialmente i governi vogliono il controllo del sistema e non vogliono che la Bce, unica istituzione federale del sistema, o la Commissione, garante dei trattati e degli interessi dell’Unione nel suo insieme, prendano il controllo completo del “giocattolo”. Vorrebbe dire prendere atto che è il pianeta a girare intorno al sole, non il contrario.

L’altra condizionalità non è insignificante e non può essere liquidata come una cosa da ridere: sto parlando della lettera a firma di Dombrovsky e Gentiloni, entrambi commissari europei (il primo vicepresidente esecutivo della Commissione). Pochi hanno rilevato come il loro passo sia stato fatto proprio a fronte delle reticenze dei governi europei a prendere una posizione comune chiara sul tema della condizionalità, ed è evidente perché: ognuno teme che il suo “vicino” non sia del tutto sincero e onesto, nel momento attuale e in futuro. Un condominio litigioso. A questo punto interviene la Commissione e per bocca dei suoi rappresentanti, nero su bianco, afferma che i poteri che la Commissione ha di chiedere l’attivazione del Mes non verranno usati, così come non verranno usati i poteri di verifica della condizionalità (con eventuali misure macroeconomiche sul sistema economico-finanziario dello Stato coinvolto). Ma se qualcuno ha letto delle polemiche di qualche mese fa sulla lettera della Commissione, si ricorderà come venisse suggerito che questi strumenti potessero essere attivati in futuro secondo quel testo. Il passo incriminato della lettera della Commissione recita testualmente: “The monitoring under article 14 of Regulation (EU) no 472/2013 will take place thereafter. The bi-annual reporting will be streamlined and reflect the specific features of the Pandemic Crisis Support. Review mission will be embedded in the regular European Semester Surveillance cycle”. La parola inglese “thereafter” significa “da allora in poi”. Cioè, come recita un punto precedente della lettera, dopo che la Commissione avrà verificato che i fondi Mes siano stati usati solo per l’emergenza sanitaria, si svolgeranno le normali attività di monitoraggio della Commissione europea sullo Stato del Paese nel frattempo uscito dall’azione del Mes, attività che peraltro la Commissione è del tutto libera di svolgere o meno, a suo insindacabile giudizio. Normali azioni di monitoraggio sullo stato di salute di ogni economia dell’area euro, previste per tutti i Paesi, e non monitoraggio sull’uso degli aiuti. Dove sta la condizionalità tanto temuta?

È la lettera della Commissione garanzia sufficiente? Io dico di sì, perché la Commissione è l’unica istituzione, insieme alla Bce, in grado di opporsi ai governi con efficacia, e ha preso un impegno preciso. Mentre non ho alcuna fiducia nel concerto dei governi, che può cambiare opinione come il vento, e di solito prende impegni che raramente vengono rispettati in toto.

In conclusione: il Mes non risolverà tutti i problemi, consiste in alcune risorse disponibili che siamo liberi di usare o meno; nel Mes abbiamo il potere di bloccare ogni decisione che ricada sotto le condizioni previste dall’art. 14 del regolamento 372/2012, e siamo ovviamente liberi di non accedere a quei fondi, come tutti gli altri 18 stati dell’eurozona: abbiamo cioè un non insignificante controllo del sistema; la Commissione ha tuttavia preso l’impegno scritto di vigilare affinché tali risorse siano usate solo nell’ambito delle finalità previste dalla crisi simmetrica che stiamo vivendo, sterilizzando peraltro il rischio di una condizionalità (e la lettera della Commissione non è vero che non vale, ha lo stesso valore di una nota diplomatica, e rappresenta un precedente ineludibile). Nel frattempo sono intervenute alcune novità, rappresentate dal “Next Generation EU”, vale a dire il piano della Commissione di intervento a sostegno dei Paesi membri, basato su “grants” e “loans” che coinvolge direttamente anche le risorse già nel portafoglio del Mes.

Tuttavia, visto da un’altra prospettiva, il Mes non “salva” gli Stati, perché comunque il sistema non è solidale in maniera strutturale, ma solo su base volontaria. Sarebbe un compito della sinistra più avvertita impostare una battaglia per una democrazia economica sovranazionale che ci liberi dai tanti Mes sempre possibili come frutto di una fertile immaginazione dei governi europei, rendendo assolutamente inutile il ricorso all’integrazione di strumenti di diritto internazionale all’interno di un sistema sovranazionale com’è l’Unione europea. Si può quindi essere critici verso il Mes, ma non per i rischi descritti come possibili dai neo-nazionalisti, bensì perché esso non realizza una reale sovranazionalità economica, neppure sul piano degli aiuti, restando comunque ostaggio di veti incrociati.

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