Si può dire no alla riduzione del numero dei parlamentari ma sì all’“election day”?

election daydi Roberta Calvano

Si può essere nettamente contrari alla proposta di legge di revisione costituzionale di riduzione del numero dei parlamentari ed essere tuttavia favorevoli all’accorpamento della votazione sul referendum costituzionale ad essa relativo con le elezioni amministrative del 2020? A mio avviso sì, e dico subito che reputo tale posizione la più compatibile con il dettato costituzionale, per le ragioni che cercherò di spiegare brevemente.

Il presidente della Repubblica e il ministro dell’Interno hanno firmato nei giorni scorsi i decreti1 con cui si indicono – accorpandole – le votazioni per il referendum costituzionale, le suppletive in due collegi uninominali per il Senato, le elezioni dei consigli regionali e dei presidenti di sette regioni (Campania, Veneto, Puglia, Toscana, Liguria, Marche, Valle d’Aosta) e le amministrative (comunali e circoscrizionali) in più di mille comuni, tra cui quattordici capoluoghi di provincia e quattro di regione. Si ricorderà che il referendum costituzionale avrebbe dovuto svolgersi già nel marzo scorso e che la legge di revisione, che attende l’esito del referendum per essere promulgata – o finire nel cassetto delle tante iniziative di revisione costituzionale non andate in porto –, è stata approvata in via definitiva l’8 ottobre 2019.

Nelle ultime settimane si sono levate critiche contro questa scelta di accorpamento delle date delle tornate elettorali con quella del referendum. Le obiezioni mosse fanno leva principalmente sulla peculiare rilevanza del referendum costituzionale, che richiederebbe quindi una data a sé, sottolineando la necessità che l’elettore non sia portato a compiere una scelta non pienamente consapevole, data la difformità/disomogeneità delle scelte affidate alle urne in quella data. Si è poi lamentata la diversa potenziale distribuzione dell’affluenza sul territorio nazionale in ragione dell’indizione delle elezioni regionali solo in una parte del territorio nazionale, e infine l’inadeguatezza dei tempi a disposizione dell’informazione sul referendum costituzionale per produrre un’adeguata consapevolezza nell’elettore sulla questione, se uniti a quelli della propaganda sulle altre scadenze elettorali.

Si deve senz’altro convenire sulla importante rilevanza del voto sulla revisione costituzionale e sul referendum costituzionale in sé, quale strumento di ulteriore garanzia della rigidità costituzionale, rispetto agli aggravamenti procedurali previsti nell’art. 138 Cost. Nonostante questo, e le pesanti critiche che possono essere mosse a una iniziativa di revisione mossa da ragioni sostanzialmente antipolitiche e populistiche, che rendono sbagliato il senso prima ancora che i numeri che sono il prodotto di questa iniziativa di revisione, la valutazione circa la scelta dell’accorpamento delle date va fatta alla luce del quadro normativo di riferimento, e deve prescindere dal merito del quesito, non potendo essere influenzata dall’approvazione o dalla contrarietà al singolo intervento di revisione costituzionale. Altrimenti ci potremmo trovare a dare risposte diverse sul procedimento di revisione e referendario a seconda dell’opinione che abbiamo della riforma di volta in volta approvata.

Voglio però precisare che, a mio avviso, la scelta compiuta circa la riduzione del numero dei parlamentari è sicuramente da avversare, in quanto espressione innanzitutto di un paradosso, quello di chi volendo riportare al “popolo” il potere di decidere, finisce poi per ridurre il ruolo della rappresentanza, non accompagnando la riduzione del numero dei parlamentari con misure atte a far sì che il parlamento, pur ridotto nelle dimensioni, venga in qualche misura rafforzato nella sua autorevolezza, o se ne salvaguardi la rappresentatività.

La riforma mi pare rappresentare, inoltre, il frutto di una sostanziale sconfitta del costituzionalismo in Italia. Una sconfitta che arriva a valle di un pluridecennale dibattito relativo alla crisi della rappresentanza e del parlamento, dove a perdere sono tra gli altri i molti costituzionalisti che, inascoltati, hanno lungamente segnalato l’urgenza del recupero della centralità dell’istituzione parlamentare. Come tutte le sconfitte, essa va tuttavia accettata e analizzata, non negata. Immaginare di fare appello a forze politiche che hanno talmente poco chiaro ciò che è in gioco, da aver potuto votare prima a favore, poi contro, ora in alcuni casi giungendo a una sorta di “ni”, sarebbe certamente frutto di un’opera di rimozione, mentre pare scomparso dall’agenda politica il promesso adeguamento dei regolamenti parlamentari, così come una legge elettorale che tenga conto della ridotta chance di ingresso delle minoranze una volta che i numeri delle Camere saranno ridotti.

Data questa sconsolata e amara presa d’atto, si deve tuttavia esaminare il problema giuridico costituzionale sottostante. L’election day è stato deliberato durante la più grave emergenza della storia repubblicana, mentre è in vigore lo stato di emergenza nazionale, e se ne sta probabilmente per deliberare la proroga. Tale stato di emergenza è fondato su ragioni che sono ben note: l’esigenza di tutelare la salute dei cittadini a fronte della pandemia. Salute che è rilevante in questo contesto sia come diritto individuale sia come interesse collettivo, cui la Costituzione riserva l’aggettivo – non usato per alcun altro bene – di “fondamentale”. Questo imprescindibile dato non può essere dimenticato quando si riflette sui principi costituzionali rilevanti per la scelta circa le date di indizione delle varie scadenze elettorali e il loro accorpamento. La rilevanza e delicatezza delle scelte circa il testo della Costituzione, che nessun testo normativo invero espressamente esclude possano essere assunte contestualmente ad altre decisioni, va considerata congiuntamente all’istanza di garantire al massimo grado la salute degli elettori, e in particolare di tutti i soggetti coinvolti nelle operazioni di voto, dagli scrutatori e presidenti di seggio, alla forza pubblica, agli uffici elettorali, le prefetture, etc. Duplicare tali occasioni di contagio (oltre alla già inevitabile duplicazione dovuta alla necessità di convocare il turno di ballottaggio nei comuni di maggiori dimensioni, oltre che nella Regione Toscana, la cui legge elettorale prevede il doppio turno) avrebbe rappresentato una scelta irragionevole, contrastante con l’esigenza di tutelare la salute dei cittadini, in una fase che si preannuncia critica per la diffusione della pandemia.

La seconda considerazione che milita a favore della scelta dell’accorpamento concerne la necessità di non compromettere oltre modo il diritto-dovere all’istruzione, già per lunghi mesi compresso nel 2020, e un avvio dell’anno scolastico che già si preannuncia molto difficile. La progettazione già complessa della riapertura delle scuole, nella consapevolezza che l’autunno vedrà salire inevitabilmente le possibilità di contagio, decidendo diversamente, avrebbe dovuto fare i conti con una duplice (se non triplice, come detto sopra in relazione ai ballottaggi) interruzione della didattica, con aggravio dei rischi e degli oneri per chi ha la responsabilità di organizzare la convocazione dei comizi elettorali, di formare commissioni, di garantire la sicurezza nei seggi, di pianificare misure anti-assembramento per l’entrata e l’uscita, di garantire la sanificazione – prima e dopo ogni operazione – degli edifici scolastici, rischiando di andare a detrimento della salute dei cittadini, oltre che di un ordinato avvio dell’anno scolastico.

Si deve ammettere che la scelta dell’election day è stata, probabilmente, motivata un po’ goffamente, facendo riferimento nel decreto-legge n. 26 prima al contenimento della spesa pubblica, che all’esigenza di ridurre gli assembramenti, e omettendo ogni riferimento alla questione scolastica. Una necessità di contenimento della spesa, che tuttavia in questo frangente, va riconosciuto, si rende macroscopicamente necessaria, seppure vada chiarito che essa non potrà mai prevalere sulle esigenze di tutela dei principi fondamentali, quale la garanzia della rigidità costituzionale, e dei diritti inviolabili della persona, come quello alla salute.

Infine, a tali considerazioni si deve aggiungere, che come è ormai noto ai più, la dichiarazione dello stato di emergenza ai sensi del codice della protezione civile legittima provvedimenti in deroga delle norme vigenti, come abbiamo visto nei mesi scorsi, anche con riferimento alle norme costituzionali. Questa significativa alterazione dei normali equilibri del nostro ordinamento, e l’auspicio di non dover tornare a limitare il diritto all’istruzione, la libertà di circolazione, di riunione, di culto, di iniziativa economica, sembra ulteriormente concorrere a legittimare una decisione di carattere precauzionale che è stata assunta in ragione di una prevalente esigenza di tutela della salute pubblica.

Ci si deve allora chiedere quali esigenze, in questo quadro di emergenza avrebbero pari rango rispetto a quelle sin qui richiamate. La invocata necessità di garantire un voto “omogeneo”, oltre a sovrapporre il concetto di omogeneità del quesito referendario (non costringere l’elettore a votare con un solo sì o un solo no su questioni su cui potrebbe avere opinioni diverse) con quella della pluralità di schede consegnate all’elettore, cui già in passato siamo stati abituati (e anzi è questa la regola a partire dal decreto legge 98/2011 per le elezioni politiche e amministrative), non pare convincente. Come non convince l’argomento della distribuzione geografica disomogenea della chiamata alle urne, visto che si vota “solo” in sette regioni, ma ricordiamo anche in mille e passa comuni, 14 capoluoghi di provincia da Venezia a Reggio Calabria, da Trento e Bolzano ad Agrigento, da Mantova e Lecco a Enna, Matera e Trani. E infine non convince l’argomento che la campagna elettorale si confonderebbe con quella referendaria, levando spazio all’informazione e alla propaganda circa le ragioni a favore e contro la riduzione del numero di parlamentari. Perché non sono convincenti queste posizioni? Perché sembrano alludere a un popolo bambino, a un elettore che va guidato, che da solo non è in grado di capire su cosa vota. Un atteggiamento forse un po’ paternalistico, a fronte di un elettorato di cui si dovrebbe ascoltare con maggiore attenzione la spesso lucida quanto rabbiosa consapevolezza circa i processi in atto nel nostro Paese. Un eventuale aumento della partecipazione al voto referendario (che peraltro, va ricordato, non prevede alcun quorum di validità), dovuto all’accorpamento, non può essere censurato come fatto negativo, laddove si deve invece ritenere che, nello spirito della Costituzione, la partecipazione e il voto debbano essere sempre favoriti.

Sarebbe sicuramente auspicabile avere più tempo da dedicare all’informazione circa le scelte che riguardano la Costituzione, ma bisogna ricordare che il referendum è stato già rinviato una volta di sei mesi. Va inoltre segnalato che la disciplina vigente richiederebbe che il referendum si tenga a breve distanza dall’approvazione della richiesta referendaria (in una domenica tra il 50° e il 70° giorno dalla data di emanazione del decreto che lo indice, che a sua volta deve intervenire entro 60 giorni dall’ordinanza dell’Ufficio centrale che lo ammette). Per evitare il sovrapporsi delle amministrative con la data del referendum, e allo stesso tempo evitare di produrre un duplicarsi delle occasioni di “assembramento” in autunno, si sarebbe dovuto insomma comprimere una delle due istanze: la necessità di rinnovo di organi rappresentativi; la necessità di completare con molti mesi di ritardo il procedimento di revisione costituzionale – in un senso o nell’altro – garantendo lo svolgimento di un referendum costituzionale. Il dato, infine, per cui alla mancata conclusione di tale procedimento si ricollegano conseguenze circa la legittimazione di un nuovo parlamento eletto in caso di un eventuale scioglimento anticipato, e quindi sulla durata della legislatura, non pare di secondo momento. Si vede bene allora come dietro la scelta dell’election day vi fosse un intreccio di questioni difficili da dipanare, un dilemma che difficilmente poteva sciogliersi meglio di così.

1 DPR 17 luglio 2020 e DM 15 luglio 2020, in attuazione del decreto-legge n. 26 del 20 aprile 2020.

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