Dalla macchina per abitare alla casa-città

Alessandra Criconia

Il coronavirus ci ha fatto rendere conto che la salute non è un fatto privato che riguarda unicamente chi viene colpito dalla malattia e si trova ad affrontare difficili percorsi di cura, ma è una questione collettiva, che inizia prima dell’insorgere della malattia stessa, e tocca i luoghi e i riti della nostra esistenza. In tal senso, il confinamento è stata un’esperienza che ci ha obbligato a modificare le abitudini di vita e l’occasione per riscoprire le nostre case come luoghi da abitare e non più come dei pied à terre in cui tornare la sera per cenare, vedere la televisione e dormire. La casa, durante il confinamento, è diventata anche la nostra città, utilizzata tanto come spazio domestico quanto come ufficio, aula scolastica, palestra, trattoria, piazza, giardino… La vita sociale e pubblica è stata concentrata in uno spazio ridotto che in modo talvolta miracoloso è stato adattato a programmi diversi, sfruttando criteri di flessibilità e ricorrendo a espedienti di modificazione real time dei metri quadri di pavimento disponibili. Abbiamo potuto apprezzare i cambiamenti dell’architettura interna della casa, il fatto che i corridoi che separavano le stanze non esistono quasi più, e i soggiorni sono diventati degli open space attrezzati e multifunzionali. Il confinamento ci ha permesso di capire, in modo concreto, cosa sia una machine à habiter contemporanea: un congegno in cui ogni elemento abitativo (armadi, tavoli, sedie, mobili, sanitari, apparecchiature) occupa un posto perfettamente misurato per liberare lo spazio e non intralciare i movimenti dell’abitante, e anche un guscio costruito intorno all’abitante stesso come la chiocciola della lumaca. La moderna macchina dell’abitare, individuale e misurata al centimetro, si è evoluta. In particolare la casa contemporanea richiede comfort e qualità spaziali che non si conciliano necessariamente con la piccola dimensione dell’Existenzminimum. La macchina per abitare contemporanea è cioè uno spazio non smisurato ma neanche eccessivamente ridotto. Così come non è completamente individualista, ma una giusta miscela di individualismo e spazio sociale: una casa-città relazionale che implica anche lo spazio pubblico.

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Su La città polifonica di Massimo Canevacci

San Paolo del Brasile. Sul tetto del SESC 24 de Maiodi Alessandra Criconia

[Intervento alla presentazione del volume nella libreria “Todo modo” di Roma il 18 ottobre scorso]

Il libro di Massimo Canevacci La città polifonica (Roma, Rogas, 2018), di cui abbiamo oggi la seconda edizione arricchita da una nuova premessa, è un testo di antropologia urbana che tratta della megalopoli, nel caso San Paolo, dichiarando fin dal titolo la tesi che intende sostenere: la città contemporanea è una molteplicità di segni e codici comunicazionali intrecciati alle tecnologie digitali. Questa è la sua “polifonia”: essa non consiste soltanto in un insieme di beni e valori materiali e immateriali, ma, come in un cortocircuito, permette di connettere la città ipermoderna con il villaggio Bororo. Scrive Canevacci: «[…] straniero e familiare si attraversano e la comunicazione digitale connette la megalopoli di São Paulo con il villaggio Bororo di Meruri» (p. 19). Il libro è una riflessione etnografica attenta ai tempi nostri, vòlta a costruire un pensiero del presente, che può essere tale solo in quanto stabilisce un rapporto con il passato. I cinque capitoli che compongono la prima parte del volume sono così dedicati alla puntuale analisi dei “classici” (dai futuristi a Benjamin, dai surrealisti a Lévi-Strauss, arrivando fino a Bateson,) per prendere poi in esame la comunicazione urbana seguendo soprattutto le suggestioni di un antropologo della postmodernità quale Clifford Geertz e di un critico della letteratura come Michail Bachtin. Questa rilettura è la premessa del metodo sviluppato nella seconda parte del libro, che «[…] utilizza due altre voci per la rappresentazione di São Paulo: le foto e un diverso stile di scritture, [che] contribuiscono a far parlare le molteplici facce della metropoli» (p. 179).

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La foto: Sesc 24 de Maio

San Paolo del Brasile. Sul tetto del SESC 24 de Maiodi Alessandra Criconia

Di solito non commentiamo le foto di apertura del sito (il cui discorso si inserisce nella nostra tematica sul “diritto alla città”), ma questa volta facciamo un’eccezione. Abbiamo deciso di riprendere il tema dei centri SESC di cui ci siamo già occupati con l’articolo Sesc Pompeia di San Paolo. L’individualismo sociale in Brasile.

Sesc è l’acronimo di Serviço Social do Comércio, l’organizzazione dei commercianti che promuove la realizzazione di centri sociali multifunzionali in cui ci si reca per fare sport, mangiare, prendere un caffè, giocare, danzare, vedere una mostra, andare in biblioteca o all’emeroteca, assistere a uno spettacolo teatrale, incontrare degli amici o semplicemente trascorrere il tempo guardando dal terrazzo le cime dei grattacieli.

Da non confondersi con degli shopping center, questi centri pieni di attività, dove si trova anche un servizio odontoiatrico, sono dei luoghi di socialità solidale e, soprattutto, di riqualificazione urbana. San Paolo è una città che negli ultimi anni abbiamo visto progredire anche grazie all’azione del suo ex sindaco Fernando Haddad. In un Brasile ancora fortemente segnato dalle diseguaglianze sociali, e percorso da nostalgie autoritarie come la recente cronaca politica ci ha mostrato, i centri Sesc sono delle oasi di qualità della vita da preservare. Nello Stato di San Paolo se ne contano ben 39. Quello che si vede nella foto è l’ultimo in ordine di tempo, costruito dall’architetto Paulo Mendes da Rocha.

Rimodulare il Diritto alla città. Tor Pignattara, una periferia romana multietnica

Alessandra Criconia

Con questo intervento ho intenzione di riprendere il confronto iniziato a novembre con il convegno sul Diritto alla città e di continuare i ragionamenti su come sia cambiato questo diritto e cosa significhi oggi, prendendo in considerazione delle situazioni concrete. Ho scelto di iniziare con Tor Pignattara, una delle periferie storiche di Roma descritta da Pasolini in Ragazzi di vita come «[…] una Shanghai di orticelli, strade, reti metalliche, villaggetti di tuguri, spiazzi, cantieri, gruppi di palazzoni, marane» perché questo quartiere sta vivendo un’importante mutazione antropologica, a fronte di un paesaggio urbano tendenzialmente stabile, come da periferia romana.

Tor Pignattara continua a essere il borgo delle vie dell’Acqua Bullicante, della Marranella, della stessa Tor Pignattara, schiacciato tra il Pigneto e il Casilino e diviso in un “nord” (più cittadino) e un “sud” (più paesano) dalla via Casilina (sede dello storico trenino giallo Termini-Giardinetti che collega con la stazione Termini) e suddiviso da un pettine di strade e stradine, ortogonali alle tre vie principali, che si infilano tra i caseggiati per addentrarsi nella campagna sopravvissuta all’espansione edilizia e ancora, in parte, coltivata a orti e giardini (si tratta degli ex terreni dello SDO, il Sistema Direzionale Orientale progettato negli anni Sessanta e, come in molti altri casi, naufragato già al momento della sua ideazione).

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Introduzione al convegno

Alessandra Criconia

[“Diritto alla città”, Roma, 24-25 novembre 2016]

«Il diritto alla città si presenta come forma superiore dei diritti, come diritto alla libertà, all’individualizzazione nelle socializzazioni, all’habitat e all’abitare. Il diritto all’opera (all’attività partecipante) e il diritto alla fruizione (ben diverso dal diritto alla proprietà) sono impliciti nel diritto alla città.»

Abbiamo scelto il titolo Diritto alla città per riprendere un tema che ha segnato un’epoca di rivoluzione culturale e nuova coscienza civile, gli anni Sessanta e Settanta, quella:

  • dei movimenti e dei “nuovi diritti”: dell’ecologia, delle donne, dei gay, delle minoranze etniche, del pacifismo;
  • di un uso “politico” della città e degli spazi pubblici: le strade e le piazze usate per manifestare e proporre idee;
  • della costruzione, in architettura, dei grandi progetti urbani, ancora nel segno di una visione progressista e utopica della città (si pensi alle villes nouvelles in Francia e ai quartieri di edilizia abitativa pubblica, poi divenuti le “periferie contemporanee”).

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