Dalla macchina per abitare alla casa-città

Alessandra Criconia

Il coronavirus ci ha fatto rendere conto che la salute non è un fatto privato che riguarda unicamente chi viene colpito dalla malattia e si trova ad affrontare difficili percorsi di cura, ma è una questione collettiva, che inizia prima dell’insorgere della malattia stessa, e tocca i luoghi e i riti della nostra esistenza. In tal senso, il confinamento è stata un’esperienza che ci ha obbligato a modificare le abitudini di vita e l’occasione per riscoprire le nostre case come luoghi da abitare e non più come dei pied à terre in cui tornare la sera per cenare, vedere la televisione e dormire. La casa, durante il confinamento, è diventata anche la nostra città, utilizzata tanto come spazio domestico quanto come ufficio, aula scolastica, palestra, trattoria, piazza, giardino… La vita sociale e pubblica è stata concentrata in uno spazio ridotto che in modo talvolta miracoloso è stato adattato a programmi diversi, sfruttando criteri di flessibilità e ricorrendo a espedienti di modificazione real time dei metri quadri di pavimento disponibili. Abbiamo potuto apprezzare i cambiamenti dell’architettura interna della casa, il fatto che i corridoi che separavano le stanze non esistono quasi più, e i soggiorni sono diventati degli open space attrezzati e multifunzionali. Il confinamento ci ha permesso di capire, in modo concreto, cosa sia una machine à habiter contemporanea: un congegno in cui ogni elemento abitativo (armadi, tavoli, sedie, mobili, sanitari, apparecchiature) occupa un posto perfettamente misurato per liberare lo spazio e non intralciare i movimenti dell’abitante, e anche un guscio costruito intorno all’abitante stesso come la chiocciola della lumaca. La moderna macchina dell’abitare, individuale e misurata al centimetro, si è evoluta. In particolare la casa contemporanea richiede comfort e qualità spaziali che non si conciliano necessariamente con la piccola dimensione dell’Existenzminimum. La macchina per abitare contemporanea è cioè uno spazio non smisurato ma neanche eccessivamente ridotto. Così come non è completamente individualista, ma una giusta miscela di individualismo e spazio sociale: una casa-città relazionale che implica anche lo spazio pubblico.

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Coronavirus, aspetti economici e sociali di una crisi

Coronavirusdi Riccardo Bellofiore

[Sbobinatura di un intervento orale, riveduta dall’autore]

1. La crisi non è esogena: natura e forma sociale

Quello che proverò a fornire è un inizio di scrematura dell’orizzonte problematico in cui leggo questa crisi. Vado per punti, in un discorso che si articola in diversi movimenti.

Primo movimento. Questa crisi non è, come spesso si legge, una crisi “esogena”, cioè qualcosa che da un esterno (la natura) investe la sfera economica. Se vogliamo, questa è una crisi “semi-esogena” perché in parte è indipendente dalla forma sociale, ma nella sostanza è invece legata a doppio filo all’organizzazione capitalistica della produzione, della circolazione delle merci, della distribuzione e dei modi di vita. Non è vero neanche che questa crisi sia giunta inaspettata. Una crisi del genere di quella che stiamo attraversando fu prevista, per esempio, nel 2005, sulla rivista Foreign Affairs, in un articolo preveggente sulla prossima pandemia.

Questa crisi mette in evidenza il rapporto perverso tra società e natura, che è peraltro già stato al centro della discussione, negli ultimi anni, in merito al cosiddetto cambiamento climatico, ma non è mai stato veramente preso sul serio dalla politica e dalla politica economica. Certo, si potrebbe dire che il problema non è il capitalismo ma la struttura industriale. Le cose però non stanno proprio così. Il primato di una produzione tesa all’estremo al fine di una estrazione di profitto si è andato ad accompagnare a un approfondimento della diseguaglianza globale, in alcuni casi in modo anch’esso estremo, dunque a malnutrizione, a forme di agricoltura e allevamento intensivi, al sovraffollamento abitativo, a una urbanizzazione eccessiva. Tutto ciò ha fatto sì che trasmissioni virali, che avrebbero altrimenti avuto un’evoluzione lenta, abbiano visto una drammatica accelerazione.

A una pretesa di crescita esponenziale del capitale ha risposto una crescita esponenziale nella diffusione dei virus. Questo è presumibilmente il futuro che abbiamo davanti. L’alternativa non è, ai miei occhi, una “decrescita” (che sta pur sempre nell’orizzonte della crescita, solo volta in negativo), semmai uno sviluppo qualitativo radicalmente differente. È stato proprio l’orizzonte di una crescita tutta interna alla forma sociale capitalistica che ha prodotto anche le politiche cosiddette neo-liberiste degli ultimi quarant’anni, a partire dalla privatizzazione della sanità.

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Né con il virus delle destre né con Agamben

Giorgio Agambendi Stela Xhunga

Se prima del coronavirus ci avessero detto che un giorno avremmo avuto da ridire su Giorgio Agamben avremmo riso, eppure… Non eravamo pronti. Né al coronavirus, né al virus della paura creato dai laboratori della destra, né alla reductio ad unum proposta da Agamben in un articolo sul “manifesto” in cui parla della reiterazione dello stato d’eccezione generato da una “normale” influenza. Così “normale” da avere una mortalità superiore di più di tre volte a quella cui siamo abituati con i virus tradizionali. A scanso di equivoci, va da sé che le riflessioni di Agamben sono infinitamente più interessanti di quelle proposte da Salvini&Co; tuttavia, l’impressione è che entrambe manchino un punto: l’inedita rivedibilità della realtà. Restringendo il campo all’Italia e ripercorrendo le misure precauzionali adottate per esempio in ambito scolastico, impressiona la rapidità con cui di volta in volta la governance del rischio sia cambiata, si sia contraddetta, e infine abbia optato per la chiusura nazionale di tutti gli istituti scolastici per dieci giorni, dal 5 al 15 marzo. Non era mai successo nella storia d’Italia. Una misura “forte” che tuttavia non tiene conto dei centri diurni per i disabili, al punto che alcuni sindaci hanno agito autonomamente estendendo la delibera anche ai CDD (Centro Diurno-Disabili), CSE (Centro Socio Educativo) e SFA (Servizio di Formazione all’Autonomia), altri li hanno tenuti aperti, altri ancora si sono affidati alle scelte dell’Agenzia di tutela della salute e delle cooperative, che per lo più rimangono aperte, dato che i dipendenti non sono tutelati dagli ammortizzatori sociali previsti per chi lavora nelle scuole. Guardando a questo ristretto panorama, dovessimo tracciarne un grafico, vedremmo la linea delle “restrizioni” oscillare tra eccezioni senza mai crescere esponenzialmente in maniera uniforme. Uno stato d’eccezione con davvero troppe eccezioni per risultare eccezionale. Diversamente dalle emergenze passate, lo Stato ora è costretto ad affidarsi alle previsioni della medicina, non dell’intelligence, come nel caso del terrorismo. E poiché l’evoluzione del coronavirus finora non è stata prevedibile, quello che sta andando in scena in Italia, più che lo stato d’eccezione, è l’eccezionalità dello stato d’imprevedibilità. Continua a leggere “Né con il virus delle destre né con Agamben”