Né con il virus delle destre né con Agamben

Giorgio Agambendi Stela Xhunga

Se prima del coronavirus ci avessero detto che un giorno avremmo avuto da ridire su Giorgio Agamben avremmo riso, eppure… Non eravamo pronti. Né al coronavirus, né al virus della paura creato dai laboratori della destra, né alla reductio ad unum proposta da Agamben in un articolo sul “manifesto” in cui parla della reiterazione dello stato d’eccezione generato da una “normale” influenza. Così “normale” da avere una mortalità superiore di più di tre volte a quella cui siamo abituati con i virus tradizionali. A scanso di equivoci, va da sé che le riflessioni di Agamben sono infinitamente più interessanti di quelle proposte da Salvini&Co; tuttavia, l’impressione è che entrambe manchino un punto: l’inedita rivedibilità della realtà. Restringendo il campo all’Italia e ripercorrendo le misure precauzionali adottate per esempio in ambito scolastico, impressiona la rapidità con cui di volta in volta la governance del rischio sia cambiata, si sia contraddetta, e infine abbia optato per la chiusura nazionale di tutti gli istituti scolastici per dieci giorni, dal 5 al 15 marzo. Non era mai successo nella storia d’Italia. Una misura “forte” che tuttavia non tiene conto dei centri diurni per i disabili, al punto che alcuni sindaci hanno agito autonomamente estendendo la delibera anche ai CDD (Centro Diurno-Disabili), CSE (Centro Socio Educativo) e SFA (Servizio di Formazione all’Autonomia), altri li hanno tenuti aperti, altri ancora si sono affidati alle scelte dell’Agenzia di tutela della salute e delle cooperative, che per lo più rimangono aperte, dato che i dipendenti non sono tutelati dagli ammortizzatori sociali previsti per chi lavora nelle scuole. Guardando a questo ristretto panorama, dovessimo tracciarne un grafico, vedremmo la linea delle “restrizioni” oscillare tra eccezioni senza mai crescere esponenzialmente in maniera uniforme. Uno stato d’eccezione con davvero troppe eccezioni per risultare eccezionale. Diversamente dalle emergenze passate, lo Stato ora è costretto ad affidarsi alle previsioni della medicina, non dell’intelligence, come nel caso del terrorismo. E poiché l’evoluzione del coronavirus finora non è stata prevedibile, quello che sta andando in scena in Italia, più che lo stato d’eccezione, è l’eccezionalità dello stato d’imprevedibilità.

Difficile fare previsioni basate sulla letteratura medica e sulla esperienza intorno a un virus sconosciuto che fino a quattro mesi fa stava presumibilmente dentro un pipistrello nella foresta. Un’incertezza che del resto esclude ab origine le accuse che i sovranisti di tutti gli Stati coinvolti dal coronavirus stanno rivolgendo al proprio governo (esclusi quelli che al governo ci sono già): assenza di controlli alle frontiere, provvedimenti sconnessi, lassismo con il Paese da cui tutto pare sia iniziato, la Cina, eccetera. Dal momento che nessuno, finora, è riuscito a trovare il paziente zero (ha importanza ormai trovarlo?), a calendarizzare l’epidemia, e a misurare gli effetti delle precauzioni prese, mettere sotto accusa questo o quel provvedimento appare un’operazione miope. Ci vuole tempo. “Ha da passà ’a nuttata”, avrebbe detto Eduardo De Filippo, peccato che la società civile somigli, o voglia somigliare, più a un algoritmo che a De Filippo. E un virus-specchio anamorfico crea più scompiglio a un algoritmo che a un De Filippo. Dentro il confine di un metro sta accadendo di tutto in questi ultimi giorni. Monadi siamo, altroché: è bastato imporci la distanza di un metro l’uno dall’altro per fare nostro il principio sartriano “l’inferno sono gli altri”. Tutto d’un tratto, l’attenzione è rivolta a chi sta fuori dai nostri confini prima nazionali, poi fisici, infine, chissà, spirituali: l’attenzione è massima perché niente e nessuno inquini la nostra salute. L’altro appare come la vertigine sul ciglio di un dirupo in montagna. Eravamo abituati a leggere la parola pandemia nei manuali di storia o tutt’al più in un romanzo di Curzio Malaparte, eravamo abituati a sentirci tra le nazioni più vecchie al mondo, esportatrice di pensionati a Tenerife. Le pandemie si sono sempre verificate a intervalli di tempo imprevedibili, solo negli ultimi cento anni, ci sono state nel 1918 (spagnola, virus A, sottotipo H1N1) nel 1957 (asiatica, virus A, sottotipo H2N2) e nel 1968 (HongKong, virus A, sottotipo H3N2). La più tragica, la spagnola, fece venti milioni di morti. Non eravamo pronti a sentirci dei De Filippo, noi, algoritmi, soli su un palco di un metro di larghezza non abbiamo monologhi da proporre. Né, tocca ammettere, accettiamo discorsi di chi, come lo sbrigativo Agamben, senza tentativi di problematizzazione, radicalizza l’idea di un potere unico, verticale, in grado di architettare strutture emergenziali col pretesto di una epidemia “inventata”. Che stanchezza, l’interpretazione forzata. E com’è buffa questa visione fumettistica del potere che si presta con così pochi accorgimenti, sia pure diametralmente opposti, a dettami populisti di destra quanto a lezioni foucaultiane di sinistra mai evidentemente riattualizzate a sufficienza.

C’è però un aspetto della biopolitica degli anni Settanta reso plastico dal coronavirus e legato al potere inteso anzitutto come sospensione della morte. Contrariamente a quanto si immagina, diceva Foucault, ma ancora più esplicitamente Baudrillard, il potere non è mai quello di mettere a morte, ma, proprio all’opposto, quello di lasciare in vita, una vita che lo sfruttato non ha il diritto di rendere. Lo abbiamo visto nella civilissima Lombardia, epicentro dei “focolai”, dove risiede il 40% della popolazione italiana. Ventitré milioni di persone stipate nella pianura padana, che, con la complicità dell’aria più inquinata d’Europa, possono vantare, a prescindere da qualsiasi virus, complicazioni respiratorie. Nella sanità regionale migliore d’Italia, all’interno del sistema sanitario “più bello del mondo” (come la Costituzione, uguale) si sono visti medici, infermieri, operatori socio sanitari lavorare con turni fino a cinquanta ore, senza adeguati presidi medici, senza mascherine, potenziali vittime e untori, a suon di “Lavorate, compensate i 37 miliardi di tagli alla sanità pubblica che ci sono stati in Italia dal 2010 a oggi”. Il Paese spende 119 miliardi di euro all’anno, il 6,8% del Pil contro il 7,5% della Francia e il 9% della Germania, ma “voi compensate, lavorate”. In Lombardia mancano 869 medici? Lavorate, chi fa da sé fa per tre. Da qui al 2025 con l’attuale sistema di turnover l’Italia avrà bisogno di 16.700 medici? Chissà se ci arriveremo al 2025, lavorate, e che dio vi benedica. E se è vero che “i virus non spariscono da soli”, come ha detto Walter Ricciardi – chiamato dal Ministero della salute a guidare la task force sull’emergenza coronavirus –, è altrettanto vero che le ortodossie dominanti sono a un passo dallo scomparire. Se non scompariranno con il coronavirus, scompariranno con la prossima emergenza ambientale. Il peggior torto che ora possiamo farci, è non capire che dobbiamo scordarci dei pensionati fino a novant’anni a Tenerife, della bella Venezia, di un sistema sanitario sì forte, sì all’avanguardia, ma impostato sulla normalità anziché sull’eccezionalità.

Già da tempo viviamo una realtà costitutivamente rischiosa perché in un mondo altrettanto a rischio. Non potendo rimuovere dalla nostra esperienza il rischio, è bene che attraverso il coronavirus si apprenda a considerarlo un tratto antropologico, una condizione umana ineludibile. La paura rispetto a scenari imprevedibili ispira svariate proposte securitarie, e quel che prima rientrava nel welfare popolare ed era di segno progressista, riformista, socialdemocratico, adesso le ideologie sovraniste, talvolta discriminatorie e xenofobe, tentano affannosamente di metterlo sotto il proprio ombrello ideologico. Ma non esiste né sicurezza né immunità. E che bello, quanto utile sarebbe usare questo isolamento, questi giorni passati da monadi costrette in spazi di un metro ciascuno, per tornare, poi, a contaminarci, consapevoli dei rischi, pacificati con l’impurità del mondo.

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