Appunti su “Il cane di Goya”

di Luca Lenzini

Caro Mario, un po’ sono titubante e imbarazzato a prendere la parola in mezzo a tanti amici che, con molta più competenza di quanto ne abbia io, sono riuniti oggi per il tuo compleanno e per parlare del tuo lavoro. Il mio intervento ha per tema la raccolta di poesie intitolata Il cane di Goya1, che mi è cara per più motivi: perché è tua, perché c’è di mezzo Goya; perché è un libro importante e anche perché la mia copia reca nella dedica una citazione fortiniana, da Composita solvantur, versi che in una lezione per un mio corso sapesti commentare, qualche anno fa, in modo memorabile. (I miei sono appunti corsivi, ma se un giorno avranno la forma più compiuta di una recensione forse porteranno un titolo come Il cane di Goya ovvero Mario nella Quinta del Sordo.)

Ora, se penso alla tua poesia, in generale, e cerco un termine adatto a renderne conto, la prima parola che mi viene in mente è “spessore”. Mi rendo conto che non è granché, anzi è un’approssimazione piuttosto goffa a quanto vorrei dire; ma almeno può servire a introdurre una caratteristica della tua scrittura poetica che colpisce a prima vista: ovvero la stratificazione e la pluralità dei livelli discorsivi che vi si intrecciano, che stringono l’insieme di una raccolta come Il cane di Goya, appunto, e conferiscono coerenza e durata alla struttura complessiva.

Un breve ragguaglio su tale intreccio di strati e livelli di significazione. C’è il livello storico, per esempio, ed è fondamentale: la sezione Otto settembre introduce il tema, in apertura, attraverso la figura paterna, dando forma a un dialogo in cui sono i sommersi a riaprire la ferita del passato, una ferita che resta irredenta, non sanata né sanabile, per il “sogno violento” del “secolo finito”. Si avverte in questa parte l’eco come stravolta e quasi espressionistica del Diario d’Algeria di Vittorio Sereni (dove c’è l’amarissima eppure quanto vivida, nella sua amarezza, L’otto settembre), accanto ad altre reminiscenze implicite ed esplicite, a partire da Primo Levi (che sempre più, con gli anni, si rivela come figura-pernio del Novecento); ed è quindi una storia rivissuta e ripensata, che proprio in quanto tale si prolunga nel presente. In questa cornice stanno, nella raccolta, Auschwitz e Hiroshima, come segnacoli non del “male” generico e facilmente esorcizzabile di una deriva folle, ma piuttosto come coordinate, riferimenti della storia comune, collettiva, non sfondo ma nodo di disumanità e di speranze tradite, frammenti inconciliati di una storia vista “dal basso”, con la sua “polonia di voci” (Non vedi, padre…); e su altro piano ancora sta la Comune di Parigi, con i suoi futuri possibili, spezzati ma non sepolti, irrealizzati ma carsicamente riaffioranti.

C’è poi, molto in evidenza, un livello o motivo di ordine visivo-pittorico: un elemento figurativo che tende alla figuralità, e che si traduce in lampi e visioni, immagini icastiche della “città murata” dove “spiano occhi sbarrati / dal non ricordo” (Biblioteca). Già nella prima sezione è lo sguardo di Goya a richiamare I disastri della guerra, ed è uno sguardo, un modo di porsi rispetto al mondo, che ha poi un ruolo centrale sul piano complessivo della raccolta, non solo perché Goya è nel titolo del libro, ma perché quel tipo di sguardo dice non solo le rovine del passato ma la storia (la nostra storia) in atto, nella sua radice tragica, con i suoi “collosi fantasmi aggrumati” e le “nere mantiglie”. Ha scritto John Berger: “Il modo che ha Goya di osservare un massacro equivale all’affermazione che dovremmo essere in grado di fare a meno dei massacri”2. Ma su questa abbondanza e pregnanza di immagini e di sensi, tornerò più avanti, perché è di certo uno dei punti di forza del libro, uno dei motivi che lo fanno tale, coeso, compatto e insieme plurale (anche grazie ai Tramezzi che ne scandiscono le sezioni, come dirotti recitativi). Ma non c’è solo Goya, qui: c’è De Chirico, c’è Monet, e Anselm Kiefer (Lo sconosciuto pittore); e non dimentico che il titolare stesso del libro, l’eteronimo Mario Tomai, rinvia a uno zio materno, Ennio, che era un artista, al quale è dedicata Villa Haas; e dunque anche il versante figurativo-figurale si innesta in una storia familiare e personale. E poi, se nella copertina del libro c’è il cane della Quinta del Sordo, nel retro di copertina c’è William Turner3: una Venezia investita da uno “sciame luminoso”, invasa da “dilagato sole”, quindi non crepuscolare né aurorale, bensì filtrata in “bianchi velari” di una luce insieme spettrale e meridiana, sovraesposta e a suo modo celata (celata perché sovraesposta).

E c’è naturalmente il livello della intertestualità di ordine poetico, anch’esso molto rilevato e ricco, per così dire incarnato, in particolare nei testi dell’ultima sezione, Crepe, con i rifacimenti-interpretazioni di Char, Céline, Rilke; livello in cui oltre al già citato Levi è ben presente, al di là delle citazioni esplicite o implicite, Paul Celan, una specie di matrice interna che impregna di sé torsioni linguistiche e bagliori intermittenti di verità rimosse o latenti. Non a caso Celan a Todnauberg è una delle poesie più intense della raccolta. Di nuovo, è una costellazione e insieme una genealogia (anche partenopea: riaffiorano nelle pagine Ortese, Ferrante, Gemito) che affonda nel nucleo più duro e impietoso del Novecento; una tradizione senza sconti né conforti, senza ripari elegiaci, ma allo scoperto, urticante ed esposta nei frantumi e nelle frattaglie della storia – nei tornanti di “lava spenta” dell’ultimo Leopardi, dove abitano ora “neri serpenti” (Ginestra di luce lenta).

Facile dire, poi, che lo spessore di cui parlo (e di cui ho fornito solo un sommario essenziale, ma ricorderò anche l’importanza del cinema, da Resnais a Orson Welles), questo spessore non è di per sé garanzia di riuscita poetica; anzi, inteso superficialmente, esso potrebbe essere soltanto una forma di accreditamento culturale, un cumulo di riflessi dell’itinerario di Mario Pezzella filosofo. Il che è per un verso ovvio, quanto all’itinerario, ma va inteso in tutt’altra direzione, nel senso di un pensiero in movimento che sa usare strumenti diversi, senza deviare da una volontà unica di conoscenza. Se finora non l’ho nominata, la filosofia, è perché credo che sarebbe un cattivo servizio alla poesia metterla, quasi fosse scontato, sotto l’insegna della filosofia intesa come disciplina, come “sapere” settoriale e codificato, per totalizzante che si voglia.

Tu per primo, infatti, caro Mario, sai che la poesia – e appunto nella sua configurazione storica e nella tradizione appena richiamata – è una forma cognitiva a sé stante, unica e autonoma, dialettica e disposta su tempi lunghi e lunghissimi, attuale e insieme lungimirante. Da Benjamin come da Adorno abbiamo imparato che il pensiero ne fa parte ma essa non vi si risolve, sottraendosi ad ogni formula; ogni immagine ne reca l’impronta e ne supera i limiti.

Ecco perché vorrei tornare, per concludere, a quel cane il cui muso curioso se ne sta sulla soglia del libro, nella Quinta del Sordo dov’erano le “pitture nere” di Francisco José de Goya y Lucientes. Mi sono fatto l’idea che nella partita di luce e ombra, fiamme e tenebre, cenere e faville che percorre l’intera raccolta, si giochino dei significati profondi, con i quali siamo chiamati a misurarci: un alto dramma che tra Goya e Caravaggio definisce, a un tempo, la nostra epoca e il sogno di emancipazione di cui lo sguardo si fa ancora – e nonostante tutto – portatore, come se nel nero e contro il nero si stagliasse il muro del nichilismo e albeggiasse la sfida del suo superamento; e proprio in questo libro, dove i detriti del capitalismo, le discariche del consumismo, l’infestare delle merci è guardato in faccia senza possibili redenzioni o postmoderne assoluzioni, senza ironie complici e funeste. A proposito delle “pitture nere” e della Quinta ha scritto Yves Bonnefoy che “andando verso il buio Goya ha trovato la luce”; e ancora: “Dipinge, si è spinto lontano nella trasgressione dei miraggi, ha incontrato la violenza senza legge né senso; ed ecco che ha dato rilievo a qualcos’altro, forse un nonnulla, ma che non appartiene né a ciò che è, né al sogno: una realtà di essenza nuova, o piuttosto finalmente la realtà, l’unica sostanza, per quanto misteriosa essa sia, che si meriti il nome di realtà”4. Il cane della Quinta che, scrivi, “sporge appena la testa / la zampa scivola / sul muro inclinato”, ed è rivolto ai “giorni afoni”, alla “folla di sogni / vaneggianti e abissali / nel marasma di luce / dove si aggrumano e disfano / esitanti abbozzi di volti / incerti contorni di anime”, è forse lì che si affaccia, incerto e curioso e quindi ancora preso nella ricerca, nella conoscenza.

1 Mario Tomai (Mario Pezzella), Il cane di Goya, Roma, Efesto, 2020.

2 John Berger, Paesaggi, a cura di Tom Overton, traduzione e cura dell’edizione italiana di M. Nadotti, Milano, il Saggiatore, 2019, p. 146.

3 The Dogana and Santa Maria della Salute, 1843 (National Gallery of Art, Washington, DC, USA).

4 Yves Bonnefoy, Goya, le pitture nere, Roma, Donzelli, 2006, p. 87.

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