Il Dioniso di Hölderlin, ovvero il dio del possibile

di Tomaso Cavallo

Porgo i miei auguri a Mario con grandissimo piacere e con altrettanto affetto – anche se devo ringraziare subito Rino Genovese per il fatto stesso di poterteli fare, caro Mario, perché come tu sai bene, conoscendo da vicino e da sempre la mia pedemontana celtica inurbanità, nei tanti anni (52 per l’esattezza!) a cui risale la nostra conoscenza e amicizia, per quanto frughi nella memoria, ahimè, è sicuramente questa la prima volta che ti auguro un felice compleanno, avendo sempre, con tranquilla incoscienza, ignorato la data del tuo genetliaco, come colpevolmente ignoro la data di compleanno di tutti i miei amici, riuscendo molto spesso a dimenticare addirittura quella dei miei famigliari più prossimi.

Nel chiamarmi a questo incontro online, Rino mi ha fornito un suggerimento che accolgo pienamente, ovvero di salutarti nel nome di Hölderlin. Mi ci proverò. E prima di venire a Hölderlin, pur restando nell’ambito del prestigioso Stift di Tubinga, voglio recitarti i quattro scanzonati Knittelverse consegnati dallo Hegel ventenne all’album degli ospiti dell’amico Fink, in data 4 settembre 1790:

Glücklich, wer auf seinem Pfad

Einen Freund zur Seite hat;

Dreimal glücklich aber ist,

Wen sein Mädchen feurig küßt

Beato, chi sul suo sentiero,

Al fianco ha un amico vero;

Ma tre volte più beato,

Chi il suo amor baciò infocato.

Poveri versi quelli hegeliani, ma calzanti appieno se, da nonni come ormai entrambi siamo, cediamo per un attimo al flusso dei ricordi. Infatti, caro Mario, io non posso dimenticare che è grazie a un tuo invito per una comune passeggiata alla volta della Piazza dei Miracoli a Pisa, un giorno sereno di primavera del lontano 1973, che è iniziato il mio corteggiamento della studentessa di medicina che sarebbe diventata la compagna della mia vita, con un matrimonio civile, celebrato in quel di Rosignano Marittimo, di cui tu sei stato il mio testimone.

Lasciando adesso il giovane Hegel, che improvvisa goffi versi, veniamo a chi invece i versi sapeva crearli davvero. Hölderlin è un autore che amiamo da anni, e che tu, forse grazie alla raffinata scuola dei gesuiti magari conoscevi anche prima di approdare alla Normale, mentre io, formato alla più sportiva scuola salesiana e in un liceo di provincia intitolato all’autore di Le mie prigioni, ho imparato a conoscere solo dalle favolose lezioni serali del giovane Bodei (lezioni che, come ricorderai, frequentavamo insieme con Lello Pinto, Gregorio De Paola, Enrico Moriconi, Luciana De Bernart, Paola Gallo, Giorgio Graffi e numerosi altre e altri nell’ormai lontano anno accademico 1969-70).

Da Hölderlin siamo stati affascinati entrambi: e, come te, neppure io di fronte all’autore dell’Iperione e di La morte di Empedocle sono sfuggito alla strana sensazione tipica di chi si trova “di fronte a ineguagliati capolavori di indecifrabile trasparenza e di enigmatica bellezza” di cui ha scritto Bodei nella prefazione al tuo bel libro La concezione tragica di Hölderlin, pubblicato nel 1993 per i tipi del Mulino. Tu presenti il tuo lavoro come un commento: io direi, piuttosto, che hai fornito un’interpretazione a tutto tondo e originalissima della fase più matura della riflessione e della poesia hölderliniana, avvalendoti della strumentazione teorica che ti offriva la ricezione benjaminiana dell’Urphänomenon goethiano, servendoti, anche qui, della interpretazione dell’archetipo junghiano e tenendo presente le riflessioni sull’elemento ctonio, a te ben noto dai tuoi studi bachofeniani.

Partendo dai frammenti teorici, in particolare dal testo conosciuto come Il divenire nel trapassare rintracci in Hölderlin il tema – divenuto peraltro una costante della tua filosofia – del possibile: il possibile che si libera là dove interviene un trapasso epocale e dove interviene, spesso con esiti tragici, la fichtiana Wechselwirkung tra l’organico, il formato, l’apollineo e l’aorgico, il caotico, il magmatico, il dionisiaco.

Ma il dionisiaco hölderliniano, come evidenzi sulla scorta di Böschenstein, ha caratteristiche molto peculiari. Dioniso, “il dio del possibile” è “il dio della metamorfosi che si fa palese nel mondo in declino”. “In Hölderlin – scrivi – il suo aspetto ctonio-femminile, la sua ebbrezza, sono sempre congiunti alla sobrietà, alla ritmica interna che l’entusiasmo stesso sa darsi. Non è il dio del senza forma e della regressione esaltata nell’indifferenziato; ma la sua opera civilizzatrice non ha nulla in comune con le forme irrigidite della legge olimpica. Non solo organica e non puramente aorgica, la mitologia dionisiaca esprime il principio trascendente che sospende i due opposti, e muta radicalmente la prospettiva stessa entro cui giungono a visibilità. Ognuno di essi depone la sua identità unilaterale. Il carattere maschile di Dioniso non è dominato dalla volontà eroica e dall’ascesi spirituale, ma dal simbolo del gamos, dalla relazione erotica e generativa con il principio femminile della natura. Essa dà vita a una forma incompatibile sia con l’astratta durezza dello Zeus olimpico, che con l’immediatezza dissolvente della Madre tellurica. Dioniso è capace di sconvolgere ogni forma già nota ed è insieme creatore di nuovi limiti, diversamente orientati, in grado di offrire una diversa apertura del mondo”.

Dioniso, in Hölderlin, è anche l’immagine di quella rivoluzione di cui già l’Iperione aveva constatato amaramente il fallimento. In questo senso la sua immagine è il sogno della fine del tragico se è vero, come tu scrivi, che “nei luoghi più alti della poesia di Hölderlin, il conflitto tragico mostra insieme sé e il sogno della sua fine”. Un sogno che siamo costretti a continuare a sognare ancora oggi, se vogliamo tenere aperto almeno uno spiraglio per un’alternativa alla “voluttà di morte”, al Todeslust, che anima un sistema economico-sociale come quello vigente che seguita a investire in armamenti, laddove l’urgenza sarebbe in primis la produzione e la diffusione dei vaccini e la messa in opera di una decente equità sociale.

Caro Mario, ancora auguri e un forte abbraccio!

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