Contro Walter Siti, per l’impegno

di Rino Genovese

In un incontro online organizzato di recente dalla nostra amica Maria Borio, Dacia Maraini esprimeva la seguente opinione: non può esservi romanzo “impegnato” perché la letteratura è qualcosa che va “più in profondità” rispetto a un giudizio su questo o quel tema politicamente all’ordine del giorno: presa di posizione che, esulando dal campo letterario, il singolo scrittore affermato può però assumere pubblicamente come manifestazione di cittadinanza in virtù del prestigio acquisito con le proprie opere. Si può essere impegnati, insomma, in base alla fama raggiunta. Il che fu sostenuto una volta anche da Sartre – quando uno firma un appello o un manifesto, lo fa perché ha un nome che gli consente di avere una certa eco –, pur non esaurendo affatto la questione di un’arte e di una letteratura impegnate, nemmeno secondo Sartre, essendo in fondo un caso che si sia avuto o no quel successo indispensabile per essere ascoltati, cioè per stare nel circuito dei mass media. La questione dell’esercitare o no un’influenza è altra cosa da quella di una poetica dell’engagement, la cui efficacia, come accade per tutte le poetiche, andrebbe valutata piuttosto all’interno dell’opera.

A colpirmi, nel corso di quell’incontro, fu che Maraini a sostegno della propria opinione citasse proprio la raccolta di articoli e saggi di Walter Siti, Contro l’impegno: così l’idea di un valore conoscitivo proprio dell’attività letteraria (sia pure sostenuta da Siti in maniera non sempre adeguata all’oggetto) veniva dalla scrittrice ridotta semplicemente a quella dell’“andare più in profondità”, che sarebbe la caratteristica del romanzo rispetto alla cronaca politica. La qual cosa potrebbe essere intesa come una specie di excusatio non petita per un’autrice facilmente accusabile, sul piano critico, di produrre una letteratura d’intrattenimento piuttosto superficiale. E infatti, di lì a poco, all’obiezione che l’andare “in profondità” del romanzo è quanto meno dubbio se il novantacinque per cento della produzione letteraria odierna è fatta di ciarpame, Maraini rispondeva un po’ piccata che questa percentuale era di sicuro inesatta, essendo state pubblicate di recente molte opere di qualità, e che comunque anche avere tra le mani un romanzo d’intrattenimento sarebbe più istruttivo del non leggere nulla – forse perché così, verrebbe da dire, uno almeno si ripassa l’alfabeto.

Se ho aperto questo intervento citando un episodio tutto sommato secondario, è per segnalare come certi discorsi “contro l’impegno” possano risuonare in maniera pressoché opposta alle intenzioni di Siti. Del resto il titolo della raccolta di articoli e saggi (tra loro alquanto eterogenei, c’è perfino un pezzo, ironico e divertente, di analisi dei talk-show “politici” televisivi, che poco ha a che fare con le altri parti del libro) dovrebbe essere piuttosto “Contro il neoimpegno”, intendendo tuttavia, con questo termine utilizzato dall’autore, un che di diverso da ciò che comunemente s’intende per “impegno” in letteratura: qualcosa che appare più che altro come la sua contraffazione messa in circolazione dalle agenzie dell’estetizzazione diffusa, con i loro molteplici effetti “a rete” (diversi da quelli della vecchia industria culturale, che aveva una struttura piramidale, dall’alto verso il basso, per esempio dagli studios di Hollywood verso le sale cinematografiche del mondo intero, o da un gruppo ristretto di case editrici verso le librerie di un determinato paese, e così via), che comprendono ormai il web e i social media, così come le trasmissioni televisive, la fabbricazione di “personaggi autoriali” da esibire, allo stesso titolo dei tradizionali premi letterari con le loro competizioni fasulle, e altro ancora.

Siti è consapevole del peso che ha l’intreccio di queste agenzie nel campo artistico e letterario, e, sebbene non le nomini mai, ne discorre in abbondanza. A un certo punto, parlando della differenza tra un’opera di Lucio Fontana e una di Maurizio Cattelan che le fa il verso, dice che la seconda è “webbabile” diversamente dalla prima: per indicare, con ciò, che quel momento originalmente sorgivo, tipico dell’opera d’arte del Novecento, è bypassato dal gesto della sua riproducibilità e imitabilità (peraltro in una maniera che fu già della pop-art di Andy Warhol, benché questi sia stato il primo a individuare la portata di quella trasformazione dell’arte, rientrando così, almeno in parte, in quel “momento originalmente sorgivo” di cui sopra).

Ora, ciò che sembra sfuggire a Siti è che l’inclinazione parenetica – cioè esortativa, edificante, di orientamento verso il Bene –, che egli criticandola attribuisce al neoimpegno, non è affatto qualcosa che faccia parte propriamente di una letteratura impegnata: al contrario, quella inclinazione è una sorta di “effetto Liala” alla seconda potenza, attraverso cui si può vedere l’evoluzione (o l’involuzione) dell’idea di intrattenimento diffusa dalle agenzie dell’estetizzazione e dai loro corifei. Come accade per il cinema – in cui quello “d’autore” è divenuto un genere come un altro, e spesso anzi solo più noioso degli altri –, allo stesso modo il romanzo del neoimpegno potrebbe essere considerato un genere editoriale all’interno di un mercato non semplicemente omologato, ma diversificato in modo del tutto artificioso con pure finalità commerciali. Certo, l’analisi critico-letteraria può mostrare come anche in questo ambito ci sia il meglio e il peggio. In uno dei saggi contenuti nel volume, riprendendo gli strumenti “un po’ arrugginiti” del critico, Siti illustra in modo magistrale cosa va e cosa invece no in, distinguendo Gomorra, e ciò che ha significato nel senso di una rottura, dalle opere successive di questo scrittore, divenuto nel frattempo, tra l’altro, un oratore televisivo e poi un autore di serie televisive. Ciò che a Siti piace è l’attrazione nei confronti del Male, anche proprio il lasciarsi attrarre dalla criminalità organizzata nel momento in cui la si denuncia, capace di rendere il testo di Saviano – quando riuscito – un possibile esempio di quella ambiguità che egli rivendica alla letteratura.

In proposito, un ricordo personale. Al liceo mi trovai a difendere, in una discussione con un compagno del movimento studentesco, il film televisivo Il rito di Ingmar Bergman, una piccola opera in cui ci sono un po’ tutte le tematiche di questo autore, appoggiandomi, contro il piatto contenutismo del mio interlocutore, proprio alla nozione di ambiguità dell’arte. Sono così radicati in me il senso della sua centralità, la consapevolezza del carattere di “formazione di compromesso” tra istanze diverse e anche opposte nell’opera d’arte (in quel film soprattutto il nesso tra il rito magico e quello del teatro), che non verte certo su questo il mio dissenso da Siti. Di più, l’ambiguità vive soprattutto nella forma (quantunque non esclusivamente, perché i temi trattati hanno la loro importanza, e intorno a un contenuto futile difficilmente si potrà costruire un’opera significativa), senza il cui decisivo momento costruttivo essa non potrà esprimersi. Anche su questo, dunque, c’è sintonia con Siti, che cita di passaggio l’Adorno di Filosofia della musica moderna in cui compare la famosa frase: “Tutte le forme della musica […] sono contenuti precipitati, in cui sopravvive ciò che sarebbe altrimenti dimenticato e che non è più in grado di parlarci direttamente” (Torino, Einaudi, 1975, p. 49). Poiché in questo contesto Adorno si riferisce alla fase espressionista di Schönberg, è palese lo sforzo di liberare la poetica di questo compositore radicale dall’accusa di “formalismo” (che, tra parentesi, nella critica marxista e progressista dell’epoca – il saggio di Adorno è del 1949 –, veniva gettata addosso a tutte le avanguardie). Se infatti le forme esprimono dei contenuti (anche in senso psicologico, nella stessa pagina Adorno parla dell’angoscia), l’etichetta di “formalismo” viene a cadere.

Ma quale lezione più generale si può trarre dalla citazione di Adorno? Anzitutto, direi, che una cosa sono le forme, un’altra gli stili. Questi ultimi sono dei presupposti e degli orizzonti di attesa entro cui l’opera si colloca (per esempio, il barocco, il neoclassicismo, etc.), in altre parole ciò che consente di ricevere un testo, un dipinto, un pezzo musicale, inserendolo all’interno di un contesto storico; oppure lo stile è qualcosa che pertiene al singolo autore come cifra personale, quel caratteristico giro della frase, quel determinato uso della punteggiatura, e così via. In un altro senso le forme – nelle quali pure si deposita un’eredità storica, come il sonetto, la forma sonata o la forma romanzo – sono gli involucri entro cui i materiali da costruzione dell’opera possono essere trattati. Però, affinché un’alchimia si produca, è necessario che, oltre ai materiali che consentono all’opera di prendere la forma sua propria, ci siano dei contenuti da esprimere. Prendiamo il caso di un Alberto Arbasino: ogni suo lettore può constatare come uno stile i suoi molteplici scritti ce l’abbiano (lo definiremo barrochistico-gaddiano?), ma quali siano i contenuti precipitati nella sua forma sarebbe arduo da stabilire, perché si ha per lo più la sensazione di trovarsi davanti a un gioco fine a se stesso.

Arrivo così al nocciolo del mio dissenso da Siti. La costruzione formale, e soltanto questa, è ciò che consente alle arti e alla letteratura di avere un valore conoscitivo – ma in quanto conoscenza di che cosa? Evidentemente di un elemento extrartistico che, con Hegel, sarebbe l’apprensione sensibile dell’Idea, con Marx (entusiasta lettore di Balzac) la descrizione della realtà sociale senza infingimenti, o il manifestarsi – per citare un teorico della letteratura caro a Siti, Francesco Orlando – di un “ritorno del represso” in senso psicoanalitico. Ma questa tensione verso l’extrartistico c’è anche in una poetica dell’impegno etico-politico incorporato nell’opera, in Brecht o in Sartre (le cui opere ad Adorno non andavano a genio, perché egli, in quanto sostenitore delle avanguardie, soprattutto di quella espressionista, puntava a un altro tipo di extrartistico, non direttamente implicato in una causa politica). Ciò che va sottolineato, insomma, è che quella dell’impegno è una poetica che fa parte a pieno titolo di una teoria che voglia sostenere il valore conoscitivo della letteratura, in particolare del romanzo o del teatro. È dunque solo nei confronti della sua ripresa da parte di gruppi editoriali operanti come agenzie dell’estetizzazione, e di autori a esse funzionali, che l’attacco di Siti può avere una presa critica.

Facciamo l’esempio delle Mani sporche di Sartre. In questo testo teatrale dall’intreccio che è un po’ quello di un noir politico (la cosa è stata messa bene in luce dalla versione della pièce in un film televisivo a firma di Elio Petri, nel 1978), un militante comunista, reputato anarchico e piccolo-borghese dai compagni, uccide su ordine del partito che vuole metterlo alla prova un dirigente deviazionista: ma, poiché questo stesso dirigente aveva iniziato una tresca con la moglie dell’assassino, non sapremo mai se questi lo fa fuori per gelosia o per fedeltà al partito; e, quando qualche tempo dopo esce di prigione, avendo scontato una pena lieve per via dell’attenuante “d’onore”, è adesso lui che i compagni decidono di eliminare, dato che la nuova linea politica adottata è proprio quella stessa per cui l’assassinato era stato condannato a morte. Siamo nel pieno dell’ambiguità. Il lavoro non è soltanto una denuncia dello stalinismo (già nel 1948, anno della sua prima uscita), ma un’indagine sulla complessità dei grovigli ideologici e psicologici all’interno di una cellula comunista, e intorno alle dure necessità dei mutamenti politici in senso tattico. Insomma è un esempio di engagement propriamente inteso; come lo è, per altre ragioni (“lasciar entrare nel testo il discorso dell’avversario”), la Santa Giovanna dei macelli di Brecht citata da Siti nelle ultime pagine del libro, senza che comunque il positivo giudizio critico che ne dà lo induca a spezzare una lancia in favore di un’arte impegnata.

Perché appare così teoricamente debole questa raccolta maldestramente intitolata Contro l’impegno? Perché Siti confonde il valore conoscitivo come tensione verso l’extrartistico dall’interno dell’opera – e quindi lo smarrimento, il dubbio, a cui la ricezione di un testo letterario metterebbe capo nel fruitore – con l’effetto di scandalo, di presa di parola del Male contro il Bene, che è soltanto uno dei modi in cui a quell’extrartistico può essere data cittadinanza. Senza che Siti neppure si renda conto che – come ebbe a dire una volta perfino André Breton a Luis Buñuel – “lo scandalo invecchia”.

Non c’è soltanto questo, purtroppo. Obsoleta nel frattempo è divenuta la forma romanzo in quanto tale, che sopravvive come intrattenimento, e in virtù dei suoi crescenti successi commerciali, mentre soltanto di rado riesce ancora a dare luogo a opere significative. Perché proprio la narrativa sia diventata la nave ammiraglia delle agenzie dell’estetizzazione nel campo dell’editoria libraria non è difficile da comprendere. La ragione sta nei meccanismi di identificazione, soprattutto con la storia e con i personaggi, attivati dalle narrazioni, e nella facilità, per quanto riguarda la letteratura di genere, con cui possono essere chiusi gli orizzonti di attesa dei lettori. Appunto nello sconvolgimento, maggiore o minore, di questi orizzonti prefissati, anche all’interno degli stessi generi (il poliziesco, il noir, e così via, con tutte le possibili commistioni tra loro), sta l’eventuale scarto dell’opera significativa dalla produzione seriale. Ma il tornaconto emotivo offerto dall’identificarsi con le vicende di questo o quell’eroe di un romanzo (e talvolta mediante una funzione-eroe in quanto prestazione della figura autoriale in se stessa, come nel caso di Saviano) tende a dissolvere quell’ambiguità connessa, piuttosto, con l’interruzione riflessiva dell’identificazione da parte del lettore, come accade con le storie e i personaggi costruiti da un maestro dell’ambiguità quale Dostoevskij.

È la voce dell’alterità nella costruzione polifonica del testo, quella di cui difettano le produzioni romanzesche del neoimpegno, ridotte così alla mera citazione depotenziata del passato. Siti ne è consapevole in quanto cultore di quella tradizione moderna, e del suo imperativo a un continuo autosuperamento, a cui è sempre stato fedele avendo dedicato – come scrive – la vita alla letteratura. Ma la sua critica risulta insufficiente, se non fuorviante: perché per una rivitalizzazione della tensione conoscitiva dell’opera d’arte in direzione dell’extrartistico è necessario cercare di inoculare lo smarrimento e il dubbio nel fruitore, certo, ma oggi è anche indispensabile che l’autore si avvolga in un radicale scetticismo circa se stesso, l’arte, la letteratura e il loro destino. Se “lo scandalo invecchia”, un posizionamento come quello di Pasolini, che si dava alla scorribanda e all’attraversamento massmediatico (con il cinema, gli articoli sul “Corriere della sera”, con la sua figura pubblica), non è in alcun modo riproponibile. Pubblicare presso un gruppo editoriale al cui vertice c’è la figlia di Berlusconi appare contraddittorio rispetto alla difesa di una letteratura non di consumo e, ancor più, rispetto a qualsiasi ruolo dello scrittore e dell’intellettuale. Siti dovrebbe cominciare, allora, con il dubitare di se stesso.

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