Sentenze sul disastro

di Antonio Tricomi

Vale forse la pena partire dal fondo. È infatti nell’ultimo saggio incluso in Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura (Milano, Rizzoli, 2021) che Siti elenca “le caratteristiche”, per lui irrinunciabili, di un testo in grado di “sostenere cause etiche e/o politiche senza avvilire le potenzialità conoscitive della letteratura” (p. 254).

Intanto, si tratterebbe, per quel libro e per il suo autore, di conservare un’“assoluta onestà intellettuale ed emotiva”, dimostrando, sia l’uno sia l’altro, la propria “naturale incapacità di aderire agli stereotipi”. In secondo luogo, un’opera simile sarebbe chiamata a non tacere “il discorso dell’avversario”, stratificandosi “come una struttura dialettica perennemente aperta al dubbio”. Infine, gli scrittori che ambissero, come certi loro modelli, a battere la strada dell’engagement, dovrebbero regolarsi al pari dei maestri e “ammettere una subordinazione e una passività dell’impegno rispetto al farsi concavi per accogliere una Parola che non conosciamo ancora e non ci appartiene” (pp. 255, 257, 259).

Sarebbero insomma tenuti – come Siti aveva già chiarito nei precedenti capitoli del pamphlet – a non credere la forma letteraria “puro estetismo da torre d’avorio” o un orpello (peraltro sacrificabile) utile “ad abbellire il contenuto” di un testo e a rendere quest’ultimo “più accattivante”. Perché invece spetterebbe anzitutto a loro il compito di rinvenire nella forma sia un’alleata grazie a cui “estrarre i contenuti” che essi stessi preferirebbero eludere, e quindi un imprescindibile “strumento di conoscenza” (cioè di analisi e di autoanalisi), sia “un contenuto a tutti gli effetti”. Per citare Adorno, un “contenuto sedimentato”: un grumo dei fantasmi individuali e collettivi “tanto più prezioso quanto più inaspettato” (pp. 27, 32).

Del resto – senza che ciò sorprenda chi ne abbia fin qui seguito sostanzialmente per intero la traiettoria saggistica, narrativa, poetica – è con teorie della letteratura affini a quella (freudiana) elaborata da Francesco Orlando che Siti mostra di percepirsi più in sintonia. Il che gli consente di assimilare “la verità letteraria” all’ambigua “verità del desiderio”, dunque a “un campo di tensioni in cui ogni asserzione può essere rovesciata, ogni no può valere come un sì”. E di ribadire che un testo è libero di accedere a tale dimensione solo mediante la forma. Ossia in virtù di una “Bellezza” da intendersi non quale “estetismo” ma, pressoché al contrario, come “attacco a qualunque Bellezza precedente, ricerca di una parola (o di una struttura, o di una figura) profonda, plurivalente, nemica di se stessa”. Per cui grazie a una lingua restia a ricalcare il luogo comune, “se non ‘mettendolo in situazione’ e sfruttandolo narrativamente”. Giacché, in definitiva, “Vero e Bello né coincidono né si oppongono: stanno su piani logici inconfrontabili, hanno due ‘statuti’ diversi”. E il secondo non ha necessariamente a che fare col primo, “e nemmeno col Bene”, se la letteratura può, anzi deve permettersi quanto l’opinione pubblica giocoforza evita di concedersi: “dare cittadinanza a Satana” (pp. 149-150).

Non condividere simili affermazioni mi pare impossibile. Tanto che mi spingo io, sospettandolo da lui taciuto per ovvi motivi di bon ton, a esplicitare uno dei moventi che hanno magari indotto Siti, chissà, a pensare Contro l’impegno come “una piccola rivendicazione corporativa, quasi una vertenza sindacale” in difesa di una letteratura abile sì a frugare “là dove abbiamo nascosto la nostra spazzatura più segreta”, ma solo quando disposta a impiegare, per farlo, “tecniche sopraffine e subdole” (pp. 263-264): ingiungerci di reputarlo, proprio perché autore sempre ligio (persino in qualità di saggista) all’imperativo della forma, il massimo scrittore engagé fra quelli, presunti o reali, attivi in Italia nel nuovo millennio. Intimarci di ritenerlo un sicuro erede dei migliori letterati civili del secondo Novecento italiano, pronti – ciascuno a suo modo e spesso in rivalità l’uno con gli altri – a far scaturire il valore stesso delle proprie opere e la credibilità del loro impegno intellettuale da una scommessa sullo stile che nel caso di Pasolini assumeva, per esempio, i connotati di “una continua dolorosa sperimentazione formale” (p. 71).

Né sussistono dubbi, per quel che mi riguarda: se Siti è un grande autore tout court, non solo un coerente scrittore engagé, lo è proprio in quanto i pochi libri, che ha forse sbagliato, li ha sbagliati perché ha voluto appunto prendersi dei rischi formali, conscio di come non possa darsi vera letteratura nuova senza azzardi stilistici inclini a rendere reversibili l’uno nell’altro, e dunque un’unica istanza testuale, il culto e l’oltraggio della tradizione. Evidenza, quest’ultima, grazie alla quale ci si può tuttavia scoprire legittimati a scrutare con occhio critico il panorama schizzato in Contro l’impegno.

Nel sondarne la confezione, Siti ritrae gli esiti del nuovo engagement – potremmo in estrema sintesi dire – come prodotti e non quali opere. Essi rinunciano alla complessità formale, scartando la fatica dello stile; tendono a rigettare ogni unitarietà di fondo per ridursi a guazzabugli di frammenti non già espressivi, ma piattamente comunicativi; esaltano la stereotipia di messaggi impositivi, mai polisemici, mai ambivalenti, perché ricalcati su taluni inderogabili assunti del comune sentire; rinnegano a tal punto il proprio statuto di testi letterari, da nascere con l’ambizione di essere presto tradotti in altri dispositivi massmediatici (in serie tv, in film commerciali, in dibattiti durante i talk-show politici). Tutto vero, tutto giusto. Soltanto mi chiedo: ma gli altri feticci smistati dall’industria culturale con l’etichetta di romanzi, di racconti o persino di saggi, e che non sono né concepiti né messi in vendita né fruiti quali surrogati della vecchia letteratura civile, non presentano forse i medesimi tratti distintivi? A occhio e croce, mi pare di sì. E, qualora le cose effettivamente stessero come mi sembra, ciò implicherebbe che il basso o inesistente tasso di letterarietà, in cui Siti rintraccia l’essenziale attributo protocollare dei libri sedicenti impegnati, non risulterebbe in realtà marchiare questi ultimi, ma li accomunerebbe alla schiacciante maggioranza dei testi smerciati dalle principali case editrici ai lettori affinché, consumandoli, essi ancora s’illudano, o addirittura si vantino, di vivere esperienze estetiche, conoscitive.

Vero è, invece, che peculiare dei protagonisti del “neoimpegno” – cioè di intellettuali convintisi, specie dopo il 2001, di potersi ritenere scrittori solo “in quanto cittadini e combattenti” pronti a “collaborare alla difesa di una democrazia percepita sotto attacco” – si rivela l’insistenza su precisi temi: “migranti, vari tipi di diversità, malattie rare, orgoglio femminile, olocausto, bambini in guerra, insegnanti eroici, giornalisti o avvocati in lotta col Potere, criminalità organizzata, minoranze etniche” (pp. 24-25). Non vorrei che si finisse però col trarre affrettate conclusioni sociologiche da una simile disponibilità dell’industria culturale a concedere ampio spazio a libri segnati – diciamo così – da una sensibilità genericamente progressista.

La gran parte dei lettori non saltuari di testi letterari (come pure la maggioranza dei fedeli spettatori di talk-show politici quali quelli in onda a getto continuo su La7) si ritiene – esserlo, talvolta, è un’altra cosa – perlopiù emancipata e, tra mille incertezze, grossomodo di sinistra (anche solo per supposto principio). Ecco allora il circo massmediatico offrire ai suoi clienti la mercanzia che essi cercano, non già in ossequio ad avanzati disegni culturali, ma con l’intento di fare cassa. Non per nulla, chi l’abbia desiderato ha potuto anche baloccarsi, negli scorsi anni, con un romanzo “orgogliosamente fascista” quale Le uova del drago di Buttafuoco, o con le destrorse riletture della Resistenza firmate da Pansa, o coi forsennati pamphlet anti-islamici della Fallaci (pp. 251-252). Così come chi proprio lo voglia può tuttora accomodarsi in poltrona, la sera, e godersi i qualunquistici sproloqui reazionari puntualmente trasmessi da Rete4.

Questo, per dire che sì, in un Paese nel quale per antonomasia, rispetto ad altre nazioni, quasi non si comprano libri, Saviano è più letto (ed è più ascoltato in tv) che non il succitato Buttafuoco, ma ciò non credo autorizzi a supporre che gli umori profondi degli italiani siano quelli intercettati da una voga, il neoimpegno, alimentata da una macchina editoriale che si dimostra anzitutto ligia ad accontentare una fetta, tra le più estese, del suo comunque limitato pubblico. E che, in caso tale schiera di utenti mutasse parere in fatto di morale, non avrebbe alcun problema ad omaggiarla con proposte di altro orientamento politico.

Come Pasolini, in special modo negli ultimi anni di vita, aveva ragione a criticare il farisaismo di molta intellighenzia progressista italiana e a imputarle di monopolizzare il dibattito pubblico e renderlo ipocrita, salvo però dedurne una diagnosi tuttora smentita dai fatti, ossia l’avvenuta secolarizzazione della mentalità e del potere politico di casa nostra, così non ha insomma torto, Siti, a voler polemizzare col conformismo di troppa letteratura autoproclamatasi civile, e apertamente sinistrorsa, che da noi oggi si sforna, purché i lettori non ne ricavino l’idea che tale miriade di testi veicoli la sensibilità etico-culturale più diffusa nel Belpaese. Sbaglierò, ma l’Italia continua a risultarmi un’infelice commedia delle mere apparenze in cui gli intellettuali tendono a dipingersi più illuminati di quanto davvero siano proprio perché la maggior parte dei cittadini indugia in miraggi vandeani più di quanto gli intellettuali stessi siano disposti a riconoscere.

E a costo di sembrare ancor più propenso di Siti a credere che “allontanare la letteratura dall’elitarismo” (della forma, però) significhi rinunciare per sempre ad essa (p. 263), vorrei soffermarmi su qualcosa che in Contro l’impegno non c’è o compare appena. Vi abbondano le ricognizioni di libri – da quelli della Murgia a quelli di Carofiglio – di cui è fin troppo facile dimostrare la precostituita pochezza letteraria, trattandosi di oggetti analoghi ai surrogati di veri romanzi o autentici saggi sempre riservati ai lettori di bocca buona, dacché essa esiste, dall’industria culturale. Ma proprio perché temo che Siti abbia ragione, ossia in quanto sospetto anch’io in atto “una mutazione genetica” (p. 261) capace – col consenso di una critica incline a ridursi ad appendice degli uffici stampa dei grandi gruppi editoriali – di imporre tale letteratura posticcia come l’unica letteratura ammessa, accusando la letteratura, quale la si pensava un tempo, di costituire “un lusso che non ci possiamo più permettere” (p. 263): appunto per questo, avrei voluto trovare, in Contro l’impegno, saggi dedicati all’analisi di opere a noi coeve – e ne esistono, per fortuna, pure in Italia – viceversa d’autore.

Mi sarebbe infatti piaciuto che Siti si fosse esercitato a mettere in luce gli effetti determinati, su di esse, da una simile trasformazione epocale. Che, se irreversibile lo è tanto quanto appare, non può allora non voler intimare il rispetto delle proprie logiche anche agli scrittori di qualità (in Contro l’impegno se ne citano alcuni, ma perlopiù di passaggio e, in genere, stranieri: da Houellebecq a Carrère). Lo noto perché, almeno per chi voglia interrogarsi sulle residue chance di contrastare siffatta deriva, il dato di maggiore interesse culturale diventa giocoforza capire se, a che prezzo e con quali strategie testuali gli autori migliori stiano cercando di schivare le dinamiche implicate da tale processo o stiano persino provando a risemantizzarle in chiave espressiva. A ricavarne nuova benzina per motori ancora tenacemente letterari. Giacché non si può sperare che l’industria culturale scelga tutto d’un tratto di propinarci, rispetto ad oggi, una più esigua quantità di grevi succedanei dei testi letterari. C’è invece da augurarsi che – nonostante la nostra euforica complicità di lettori, di critici, di scrittori – essa infine non riesca nell’impresa di esporre in vetrina soltanto quelli.

Pur giudicando Gomorra tra i libri più importanti pubblicati in Italia da un ventennio a questa parte, la successiva traiettoria disegnata da Saviano non può essere accolta in tale ottica “resistenziale”. Lo penso io, ma soprattutto lo conferma la sottile analisi “psicocritica” che Contro l’impegno ne tenta.

Il rapporto intessuto dall’autore napoletano con la parola trae origine – spiega Siti – da una giovanile, interiormente combattuta attrazione verso il limitrofo, anzi su di lui incombente, universo malavitoso: da un’attrazione, però, subito rovesciata in una strenua lotta – da condursi con civico ardore attraverso la pubblica testimonianza – contro quel mondo di ferina violenza indiscriminata. Se ne ricava che Gomorra si poneva al confine tra autoriale rivisitazione narrativa e mitica registrazione diretta del reale, per offrirsi quale ordigno la cui deflagrazione rompesse un simile argine, sì da riaffermare che né la plurivoca scrittura letteraria né l’univoca parola comunicativa sono mai legittimate a credersi autosufficienti e in sé capaci di cogliere il vero tutto intero, all’una sempre mancando, a tal fine, qualcosa che solo il rapporto conflittuale con l’altra può darle, l’una dovendosi sempre intridere dell’altra. Obiettivo simile a quello perseguito da molta letteratura civile – in particolare – del secondo Novecento, che all’esplicita implicazione dell’autore con la propria opera affidava talora il compito di sporcare l’autonomia formale di quest’ultima, messa in tensione con l’eteronomia dei linguaggi ordinari non per negarne la natura di organismo testuale, ma per accrescerne il già ritenuto intrinseco valore conoscitivo. Obiettivo, insomma, che ancora ricordava quello impostosi da Pasolini a partire, quantomeno, dagli anni Sessanta.

Laddove in seguito – a leggerne gli altri libri o a valutarne la complessiva attività di opinion-maker – Saviano sembra avere in effetti accettato, in sé, una graduale trasformazione: più egli è andato acquisendo “presenza” nel sistema massmediatico, “più la letteratura è rimpicciolita dentro di lui” (p. 89). Che si è via via scoperto incline a sentirsi ormai stretto nelle “maglie” di quest’ultima; a volerla ibridare “con mezzi espressivi più potenti”; a pensare di doverla dissolvere nelle proprie “orazioni” o di poterne ancora offrire di nuova solo esibendo (come nei romanzi) una “noncuranza dello stile” che ne certificasse le intenzioni non già di scrittore, ma pur sempre di pubblico accusatore (pp. 75-76, 84). Col risultato di non ambire a scommettere più sul testo letterario come luogo della possibile ricomposizione dell’originaria frattura tra parola e mondo, artificio e verità, imbelle decodifica e potenziale modificazione del reale. Di giudicare la letteratura uno strumento retorico tra i tanti cui ricorrere, nella propria impetuosa arringa contro un male che, appunto perché violentemente assoluto, implica lo si processi – secondo una dinamica di tipo quasi mimetico, dal punto di vista psicologico – pronunciando discorsi inflessibilmente perentori.

Invece, persino i testi “lacerati” dell’ultimo Pasolini erano all’insegna di un manierismo tragico, poiché foravano sì la letteratura per denunciarne l’ormai cronica irrilevanza socioculturale, ma senza volerla con ciò ripudiare. E anzi, pur sapendola destinata a infrangersi, accettavano di coltivare l’illusione che, grazie a tale sua forma bucata, essa potesse d’improvviso recuperare, nell’agone pubblico, almeno una quota del suo inalienabile valore conoscitivo. Del resto, per il poeta delle Ceneri era un assioma addirittura scontato: una civiltà senza letteratura ignora troppo, forse tutto, di se stessa ed è quindi destinata a ridursi a barbarie. La medesima tesi di fondo presupposta da ogni singola pagina di Contro l’impegno.

Da tempo, gli scrittori non hanno più la licenza di aspirare a essere reputati le laiche coscienze critiche delle proprie società. Sono orfani di “grandi narrazioni” con cui antifrasticamente misurarsi, nei loro testi, per accoglierle o rigettarle, per demistificarne le ipocrisie. Né possono perciò interloquire con formazioni politiche che dischiudano autentici orizzonti socioculturali, o sperare di raggiungere lettori le cui identità civiche scaturiscano dal dialogo con tali, per l’appunto tramontate, ipotesi complessive di senso. Un’opera non dovrebbe dunque essere da loro concepita anzitutto come un meccanico contributo a diffuse pratiche democratiche fedeli a già formalizzate utopie, dato che sia le prime sia le seconde oggi sussistono solo in versioni parodistiche. Dovrebbe invece essere intesa essa stessa, e di per sé, come il recinto entro il quale accettare di confliggere con i diversi interdetti sociali per sforzarsi di mettere il meglio possibile in forma l’impensato, l’impensabile, il rimosso individuale e collettivo. Come un luogo che tutti – l’autore, i lettori – siano richiesti di abitare senza rifiutarsi di scoprirvi intera la loro miseria, o fittizia la loro ricchezza, così da provare a conoscersi integralmente. Tanto più che solo da quote di sapere non convenzionale su se stessi e sulle proprie scelte di socializzazione potrà negli individui rinascere, se mai rinascerà, un qualche slancio in direzione dell’utopia.

Se, con la sua disinibita vis polemica, anche questo Siti ha voluto rammentarci, come dargli allora torto? Persino chi si dedichi “a una neutra e quasi compiaciuta contemplazione del disastro”, persino chi se ne resti “rannicchiato e inerte a sputare sentenze” (pp. 262, 264), ma frattanto pubblichi attualissimi romanzi-saggio inattuali, può talvolta gettare piccoli semi di futuro.

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