A che punto siamo

di Aldo Garzia

Il silenzio sulla pandemia della politica è quasi totale. Si sta andando in questi giorni a piccoli passi verso un lockdown nazionale dopo la strategia “gialla”, “arancione” e “rossa” che forse sarebbe andata bene nei mesi scorsi. È un’ipotesi che appare inevitabile per salvare il Natale commerciale e famigliare. Poi seguiranno probabilmente altre chiusure e aperture in una fisarmonica di iniziative fino all’arrivo dei vaccini. Ipotesi quest’ultima non immediata e con problemi enormi di distribuzione. Gli altri paesi europei sono combinati più o meno nello stesso modo, con la solita eccezione di Germania e paesi del Nord che brillano per organizzazione, credibilità delle istituzioni e disciplina dei comportamenti individuali.

Bisognerebbe quindi abituarsi a convivere con tutto ciò che la pandemia significa nello stile di vita di ognuno, nei rapporti sociali mutilati e soprattutto nel dibattito pubblico. Non c’è ordine del discorso politico che non debba partire di qui. Niente è più come prima. Questa volta sul serio e non per modo di dire. E ci sono virologi ed epidemiologi che già avvertono come pure in caso di vaccino ravvicinato dovremo abituarci a distanziamento e mascherine per un periodo medio-lungo.

Da questo versante, sembra ben piccola cosa il dibattito sul coinvolgimento o meno dell’opposizione (di questa opposizione italica poi) nell’azione anti-pandemica, mentre appare del tutto inadeguato quello sull’utilizzo dei fondi europei (Mes) che avrebbe bisogno di un grande piano di riorganizzazione della sanità pubblica di cui non c’è sentore. È confortante, in contrasto, che Joe Biden come primo atto dopo la sua elezione a presidente degli Stati Uniti abbia formato una commissione ad hoc per affrontare l’epidemia e rilanciare la riforma sanitaria del suo predecessore Barack Obama.

Qui da noi sarebbe il momento di discutere almeno dell’ammodernamento di cui l’Italia necessita. Il conflitto governo/Regioni di queste settimane è inquietante, come la burocrazia asfissiante che ritarda ogni atto di gestione di questa crisi (pensiamo al meccanismo infernale dei “ristori”). La politica discute invece solo di emergenza sanitaria da affrontare a piccole dosi come se la crisi non la coinvolgesse in toto. Il governo, da parte sua, si è comportato sufficientemente nella prima ondata, annaspa nella seconda e non brilla per programmazione del futuro. Tutto nella politica è messo sottosopra. La gestione anche solo dei fatti correnti non è possibile con i metodi del passato e con le avvisaglie di una protesta sociale di cui avvertiamo solo i prodromi, destinata a dilagare se non si propongono grandi obiettivi in cambio dei sacrifici. La contraddizione o salute o economia è devastante, insolubile con i vecchi ragionamenti.

Anche l’alternativa sicurezza/libertà è particolarmente devastante. Di fronte alla cronaca della quotidianità pandemica appaiono, dopo pochi mesi, spazzatura le posizioni “no vax” che parlavano di un complotto mondiale per mutarci geneticamente attraverso l’invenzione di un virus. Come appaiono assai fragili le posizioni di coloro che hanno messo al primo posto la tutela delle libertà assolute individuali contro quelle della sanità collettiva, quasi ci stessimo incamminando verso regimi totalitari alla Pinochet. Il che non vuol dire non discutere ogni volta la categoria di “emergenza” usata a piè sospinto, sapendo però che in questa fase “più libertà” vuol dire “meno sicurezza” e “meno salute”. Serve perciò, inevitabilmente, un ripensamento della coppia diritti/libertà di cui non si intravede neppure l’inizio. È da buttare inoltre l’idea della soggettività individuale intesa come quella esclusiva di “consumatore” e “spettatore” di una società in cui non si ha altro potere. Tutto questo non sarà facile, perché decenni di liberismo (dai tempi di Thatcher e Reagan) hanno inciso nel profondo.

Serve di conseguenza un’aggiornata riflessione – potrebbe farla anche la Fondazione per la critica sociale – sul rapporto libertà/diritti al welfare in cui l’abitudine a pensare a se stessi come a un “io” intoccabile viene sostituita via via dal ritorno a un “noi” come assillo teorico e politico (da qui la ricerca tutta aperta su nuovo welfare e idea di Europa politica in cui non sia solo l’economico a dettare legge).

“Non ci si salva da soli” è un antico refrain tornato quanto mai di attualità. Ecco perché a me non dispiace usare l’immagine di “un nuovo eco-socialismo” per indicare l’orizzonte di una alternativa agli stili di vita e di consumo della società liberal-liberista.

Un amico ha obiettato recentemente: “Ma che vuol dire l’uso della parola ‘socialismo’ per nuove e vecchie generazioni? Non sarà un guscio vuoto che usiamo per abitudine?”. Anche di questo dovremmo infatti discutere perché il “socialismo reale” ha lasciato dietro di sé quasi solo macerie. Ma non trovo altra immagine – per senso e storia – che indichi in Occidente il bisogno di un mutamento di priorità e di valori in direzione egualitaria e di un’altra organizzazione storico-sociale.

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