Le Sardine, il plancton e Baudrillard

Sardine

di Stela Xhunga

“Sì, ma quali sono le proposte delle Sardine? E perché non sono arrabbiate?” si chiede con sospetto il plancton. C’è qualcosa di intrigante nel fuoco amico, non fosse altro che per la ricorsività con cui si ripresenta a ogni fenomeno, a ogni novità. Questo malcontento, questi afflati spasmodici di vibranti politici, giornalisti e sapientoni di sinistra che grazie alle Sardine hanno ritrovato la voce, sì, contro le Sardine. Plancton, “organismi acquatici galleggianti che, non essendo in grado di dirigere attivamente il loro movimento (almeno in senso orizzontale), vengono trasportati passivamente dalle correnti e dal moto ondoso”, così si legge su Wikipedia. E il moto ondoso li porta a sbattere contro le sardine, perché contro la balena e gli scogli ci si fa troppo male.

Con un briciolo di onestà intellettuale si converrebbe tutti nel dire che il 2019 è stato un insieme incongruo di grettezze, abomini e meteoriti, e che lì in mezzo anche il più piccolo bagliore ha l’effetto di una cometa. Superata la prima fase, per le Sardine non sarà semplice organizzarsi, soprattutto in termini di trasparenza, nelle reti digitali e di autogestione nelle reti territoriali, ma, di grazia, non potranno scendere più in basso di quanto si è fatto nel 2019, un anno preso per il bavero della giacca e rialzato giusto all’ultimo minuto. Le Sardine sono un movimento di opinione e non propriamente politico, promuovono un rinnovamento di toni e non di contenuti, parlano e basta. Potrà sembrare poca cosa, non lo è affatto. Quest’anno la quarta edizione della mappa dell’intolleranza realizzata da Vox, l’Osservatorio italiano sui diritti, ha fotografato la crescita dell’hate speech in Italia, sottolineando la diretta correlazione tra il linguaggio politico e la pervasività dell’odio online. Secondo un sondaggio di Swg, il 55% degli italiani oggi giustifica gli atti di razzismo come le parodie scimmiesche e gli insulti rivolti a Mario Balotelli durante una partita di calcio; Enzo Risso, direttore scientifico di Swg, ha parlato di “un affievolimento degli anticorpi”.

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Per Karl-Otto Apel (1922-2017)

Karl-Otto Apeldi Rino Genovese

Mi è capitato d’incontrare Apel, o per meglio dire di vederlo, una volta soltanto. Fu a un convegno sulla “comunicazione umana” nel settembre 1983 ad Abano Terme. Erano relatori, tra gli altri, Watzlawick, Vattimo, Luhmann, Baudrillard (anche se il contributo di quest’ultimo non figura negli atti a cura di Umberto Curi, pubblicati dalla Franco Angeli nel 1985). Apel mi fece una notevole impressione, soprattutto nella discussione con Luhmann, che per una certa filosofia tedesca era un po’ la bestia nera del momento; mentre lo stesso Luhmann preferì polemizzare con Baudrillard. L’oltranzismo fondazionalista di Apel, la passione e il rigore con cui discuteva, rendevano immediatamente percepibile quello che Stefano Petrucciani ha ben detto nel suo Ricordo, che con lui si aveva a che fare con un vero filosofo.

Nella mia biografia intellettuale (si licet parva…) quell’incontro occupa un posto di rilievo. Attraverso di lui, studiando in seguito il suo pensiero piuttosto approfonditamente, appresi come, collocandosi sulla via su cui si era posto Habermas, o si arriva al fondazionalismo trascendental-pragmatico – una nuova esaltazione della ragione sulla base della funzione centrale svolta dal linguaggio – oppure, restando quasi-trascendentali – volendo salvare capra e cavoli, cioè la pluralità delle forme di vita o delle Lebenswelten e la tensione trascendentale –, si rimane in una mezza misura sostanzialmente debole. Insomma: o c’è la comunità ideale illimitata della comunicazione, teorizzata da Apel come pietra di paragone controfattuale di qualsiasi discorso, o si apre al relativismo anche al di là delle intenzioni. Tuttavia, rispetto a una tradizione coscienzialista come quella della filosofia trascendentale, la stessa insistenza sul linguaggio di tanta parte del pensiero del secondo Novecento, implica a mio avviso un indebolimento: laddove nella prospettiva kantiana di una conoscenza basata sull’uso bene ordinato delle facoltà antropologiche, o in altro modo nelle evidenze eidetiche husserliane, il punto di arrivo antiscettico è scontato, un approdo sicuro per l’intersoggettività linguistica invece non si dà, perché questa è per definizione sempre incompleta, perfettibile nella sua ricerca di verità, come mostra anche l’uso della parola “illimitata” che connota la comunità ideale della comunicazione apeliana. Caratteristica di questo fondazionalismo, del resto, è che, meritoriamente evitando un pericolo maggiore, si sottragga all’ancoraggio in una comunità storicamente determinata o tradizionalmente reale. Quindi o si è apeliani, con tutto l’universalismo illuministico che ciò a giusto titolo comporta, o si è scettico-relativisti, tertium non datur. È a partire da questa netta alternativa che ho scritto i miei libri successivi all’incontro con Apel. Continua a leggere “Per Karl-Otto Apel (1922-2017)”

L’America e la secolarizzazione

L'America e la secolarizzazionedi Emiliano Ilardi

Ci sono sostanzialmente tre modi per intendere la secolarizzazione: come totale desacralizzazione della società; come riduzione del sacro alla dimensione privata; come assorbimento del sacro all’interno della sfera pubblica laica, per cui, come sosteneva Talcott Parsons (e in qualche modo anche Max Weber), la religione si integra nei simboli e nelle strutture della società moderna secolare (ad esempio in gran parte del diritto dei paesi occidentali, sono presenti valori cristiani). La potenza di tali derive aveva portato a credere che, prima o poi, le religioni avrebbero perso la loro dimensione autonoma, il loro spazio e, quindi, la loro capacità di influire e modellare la sfera pubblica. Se guardiamo a ciò che è accaduto negli ultimi trent’anni tale processo sembra lontano dal realizzarsi e anzi, come scrive Rino Genovese in un precedente intervento su questo sito, oggi siamo probabilmente di fronte a “una vera e propria inversione della secolarizzazione”, a una sacralizzazione del secolare. Alcune religioni (non tutte) dimostrano cioè una straordinaria capacità di sopravvivenza e adattamento alle derive di un mondo che si va facendo sempre più consumista e tecnologico in cui, come ha affermato Manuel Castells, ogni elemento immateriale (perfino Dio) si materializza, si reifica, occupa una spazio, si fa bit.

In realtà questi tentativi di negoziazione con il “progresso” non sono nuovi: è almeno dal XVI secolo (se non prima) che, ad esempio, la religione cristiana cerca di inglobare dentro la dimensione del sacro le derive della modernità e della secolarizzazione. E lo ha fatto in due modi distinti: il protestantesimo attraverso l’ascesi intramondana, ossia sacralizzando le capacità produttive dell’individuo (il lavoro); il cattolicesimo attraverso la spettacolarizzazione di stampo gesuita della Chiesa stessa intesa come istituzione multiuso, che deve essere capace di diventare un contenitore suscettibile di assorbire al suo interno tutte le possibili differenze culturali o di stili di vita (il consumo) e dare loro un senso (si pensi al barocco sincretico dell’America Latina). Entrambi i modelli hanno essenzialmente due punti deboli. Il primo non può reggere alle potenti spinte dell’ethos consumistico che nel corso dei secoli ha velocemente sostituito la produzione come fonte di identità individuale; esso, per la sua natura effimera, è difficilmente riconducibile a Dio e alla salvezza ultramondana, come invece avveniva per la semplice accumulazione di ricchezza. Il secondo è troppo legato all’istituzione ecclesiastica, per cui se questa va in crisi, rischia di crollare tutto l’impianto religioso su cui si appoggia; d’altronde, come ha fatto notare Fabio Tarzia in un suo recente commento alle Lettere Provinciali di Pascal (La morale dei gesuiti, Roma, Manifestolibri, 2016), l’elezione al soglio ponficio di un gesuita come Papa Francesco è proprio l’estremo tentativo della Chiesa di salvare se stessa e quindi l’intero cattolicesimo che, senza un istituzione centralizzata, semplicemente non ha più senso e non può che dissolversi. È su questi due punti deboli che è cresciuta la secolarizzazione europea, prima nei paesi protestanti e negli ultimi anni anche in quelli cattolici.

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