Per Karl-Otto Apel (1922-2017)

Karl-Otto Apeldi Rino Genovese

Mi è capitato d’incontrare Apel, o per meglio dire di vederlo, una volta soltanto. Fu a un convegno sulla “comunicazione umana” nel settembre 1983 ad Abano Terme. Erano relatori, tra gli altri, Watzlawick, Vattimo, Luhmann, Baudrillard (anche se il contributo di quest’ultimo non figura negli atti a cura di Umberto Curi, pubblicati dalla Franco Angeli nel 1985). Apel mi fece una notevole impressione, soprattutto nella discussione con Luhmann, che per una certa filosofia tedesca era un po’ la bestia nera del momento; mentre lo stesso Luhmann preferì polemizzare con Baudrillard. L’oltranzismo fondazionalista di Apel, la passione e il rigore con cui discuteva, rendevano immediatamente percepibile quello che Stefano Petrucciani ha ben detto nel suo Ricordo, che con lui si aveva a che fare con un vero filosofo.

Nella mia biografia intellettuale (si licet parva…) quell’incontro occupa un posto di rilievo. Attraverso di lui, studiando in seguito il suo pensiero piuttosto approfonditamente, appresi come, collocandosi sulla via su cui si era posto Habermas, o si arriva al fondazionalismo trascendental-pragmatico – una nuova esaltazione della ragione sulla base della funzione centrale svolta dal linguaggio – oppure, restando quasi-trascendentali – volendo salvare capra e cavoli, cioè la pluralità delle forme di vita o delle Lebenswelten e la tensione trascendentale –, si rimane in una mezza misura sostanzialmente debole. Insomma: o c’è la comunità ideale illimitata della comunicazione, teorizzata da Apel come pietra di paragone controfattuale di qualsiasi discorso, o si apre al relativismo anche al di là delle intenzioni. Tuttavia, rispetto a una tradizione coscienzialista come quella della filosofia trascendentale, la stessa insistenza sul linguaggio di tanta parte del pensiero del secondo Novecento, implica a mio avviso un indebolimento: laddove nella prospettiva kantiana di una conoscenza basata sull’uso bene ordinato delle facoltà antropologiche, o in altro modo nelle evidenze eidetiche husserliane, il punto di arrivo antiscettico è scontato, un approdo sicuro per l’intersoggettività linguistica invece non si dà, perché questa è per definizione sempre incompleta, perfettibile nella sua ricerca di verità, come mostra anche l’uso della parola “illimitata” che connota la comunità ideale della comunicazione apeliana. Caratteristica di questo fondazionalismo, del resto, è che, meritoriamente evitando un pericolo maggiore, si sottragga all’ancoraggio in una comunità storicamente determinata o tradizionalmente reale. Quindi o si è apeliani, con tutto l’universalismo illuministico che ciò a giusto titolo comporta, o si è scettico-relativisti, tertium non datur. È a partire da questa netta alternativa che ho scritto i miei libri successivi all’incontro con Apel.

Ora, sono pronto ad ammettere che una comunità ideale della comunicazione sia controfattualmente operante in una discussione scientifica o filosofica, ma nego che una teoria della comunicazione sociale in senso ampio possa riferirsi a qualcosa del genere. Quest’ultima è essenzialmente una girandola dei punti di vista piuttosto anarchica, senza alcuna pretesa né di verità né di veridicità. Mi sembra che la rete ne sia oggi, con la sua dispersione, una raffigurazione esemplare. D’altronde nemmeno il modello della discussione scientifica, già di per sé non generalizzabile, riesce a mostrare senza falle le virtù di una intersoggettività linguistica dispiegata. Nelle matematiche o nella fisica teorica (in cui peraltro il linguaggio naturale è quasi completamente sostituito dai linguaggi formali, e in cui si può dire che matematica sia “ciò che è considerato tale dalla maggior parte delle persone che se ne intendono”) la comunità della comunicazione scientifica gioca un ruolo centrale di per sé, senza l’aggiunta dell’evidenza empirica o di un dato sperimentale. Ma già in medicina le cose stanno in modo diverso – se si pensa, per esempio, alla storia della scoperta dell’helicobacter pylori, il batterio cui oggi va imputata la stragrande maggioranza dei casi di gastrite. Uno dei due ricercatori che ne sostenevano l’incidenza, infatti, dovette ingurgitarne lui stesso una colonia, ammalarsi e sottoporsi a terapia antibiotica, affinché la loro tesi fosse accettata dalla comunità scientifica per la quale fino a quel momento l’ambiente dello stomaco, a causa della sua elevata acidità, non avrebbe potuto ospitare un batterio. Senza un’istanza empiristica, da far valere ostensivamente – in maniera gestuale, direi, nel caso specifico con il sottoporsi volontariamente all’infezione –, l’intersoggettività linguistica da sola può ben poco. La sua forte valorizzazione trascendental-pragmatica potrebbe quindi sopravvalutarne la portata.

Non voglio sostenere che in ogni discorso scientifico sia presente, foucaultianamente, un momento di potere: anche soltanto per rompere delle abitudini mentali inveterate (nell’esempio quella della impossibilità, nello stomaco, dello sviluppo di un batterio) c’è spesso bisogno di fuoriuscire dalla pura intersoggettività linguistica, magari per farvi ritorno poco dopo, tuttavia non senza essere andati avanti per un tratto sulla base di un monologismo avvicinabile a quello della possibilità dell’esperienza in senso kantiano. Diversamente, la ricerca non conoscerebbe il nuovo, il pensiero non penserebbe mai l’impensato, perché l’anticipazione controfattuale tende piuttosto a confermare in via fattuale quella che Kuhn chiama la “scienza normale”.

C’è un ulteriore aspetto collegato a questa anticipazione dell’accordo tipica della prospettiva trascendental-pragmatica: ed è quello della sua valenza utopica. Come gli utopisti si rappresentavano un mondo in se stesso armoniosamente pacificato, in cui tutti i conflitti si sarebbero risolti, così la proposta di Apel ha in sé una portata controfattualmente conciliatoria. Secondo me questa è una ragione sufficiente per cominciare a vedere l’utopia, in termini diversi, nella forma di un conflitto ben temperato, sottraendola a quell’anticipazione dell’accordo (e rispettivamente del disaccordo) che può sfociare facilmente nella messa al bando di chi non accetta l’utopia. Se essa fosse al contrario pensata come un modo non distruttivo di conduzione del conflitto, in una sorta di disaccordo disinteressato, perderebbe la possibilità di rovesciarsi in distopia, come l’esperienza novecentesca si è purtroppo incaricata di mostrare. È la ricerca di unanimità che l’anticipazione controfattuale, sottilmente, nasconde. Questa idea unidimensionale della ragione, ancorché con le più nobili intenzioni, cela dei rischi. Che non sarebbe più il caso di correre.

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