Utopia. La parola e la cosa

Angela Felicedi Antonio Tricomi

[In ricordo della nostra amica Angela Felice, direttrice del Centro Studi Pasolini, con cui la Fondazione per la critica sociale ha stabilito nel tempo solidi rapporti, ripubblichiamo qui la postfazione di Tricomi al suo volume L’utopia di Pasolini, Udine, Bottega Errante, 2017.]

È proprio come spiega Angela Felice in questo suo libro. Ha appena superato i vent’anni, Pasolini, quando, in una lettera a Luciano Serra, attribuisce a sé, e ai suoi coetanei, «una missione non di potenza o di ricchezza, ma di educazione, di civiltà», cui egli si sforzerà di non venire mai meno e per il buon esito della quale giudicherà sempre cruciale il magistero di un uomo di pensiero, e in special modo del poeta, umanisticamente inteso – per dirla con Bauman – quale «intellettuale-legislatore». Per costui, all’indomani della caduta del Duce, si tratterà, nell’ottica di Pasolini, di gettare le basi culturali per quella rigenerazione anzitutto morale di cui il Paese ha bisogno dopo un ventennio di dittatura fascista ritenuto il trionfo delle onnipervasive, e grette, logiche borghesi. A repubblica istituita, l’uomo di sapere dovrà invece contribuire a rendere quest’ultima non una forma nuova, e però ugualmente asfittica, del dominio borghese, ma un’autentica democrazia, e potrà farlo accettando il ruolo di laica coscienza critica della società.

Come un «misero e impotente Socrate» Pasolini si immagina insomma fin dal principio, non solo nei Versi sottili come righe di pioggia che include nella Nuova gioventù poco prima di morire. Del resto, egli sceglie, proprio intorno ai vent’anni, di pensarsi alla stregua di un poligrafo – che si percepisce anzitutto poeta, è vero, ma non era già, o non diventerà in seguito, solo per mera ossessione sperimentale anche (o meglio al contempo) pittore, saggista, autore teatrale, romanziere, cineasta – appunto perché convinto di poter meglio esercitare, attraverso la costante ibridazione delle varie pratiche artistiche e discorsive, la funzione pedagogica che, in quanto intellettuale civile, si sente chiamato a svolgere. Accettabili o meno che possano risultare, le proposte socioculturali implicate da quell’edenico mito friulano costruito, intessendo memorie simbolistiche e lirismo novecentista, nelle sue prime opere non solo in versi e non tutte dialettali o dalla successiva esplorazione (narrativa e poetica, poi anche cinematografica e saggistica) del mondo borgataro principalmente capitolino – un’esplorazione che si vuole ideologicamente fedele al magistero gramsciano ma appare, in vari casi, essenzialmente regressiva – intendono essere proprio questo: brani di un coerente discorso educativo i cui idoli polemici sono inflessibilmente i medesimi, ossia i detestabili modelli di vita borghesi, che ciascun individuo dovrebbe rigettare persino a costo della morte.

Ecco perché il ’68 sancisce la crisi della strategia pedagogica elaborata da Pasolini. Pur senza esprimersi così, egli infatti lo interpreta – se ripensiamo a una categoria critica messa a punto da Cuoco e poi ripresa da Gramsci – come una «rivoluzione passiva» che genera – per citare invece Anders – una forma di «totalitarismo morbido» implacabile nel degradare l’intera società all’asfittica istituzionalizzazione della norma borghese, attraverso l’abiura di qualsivoglia orizzonte etico-culturale di matrice umanistica e grazie all’imposizione dei diktat consumistici non solo moralmente più retrivi. E dunque non c’è più posto per l’intellettuale che si pensi figlio della tradizione anzitutto letteraria e, in virtù di ciò, desideri attualizzarne utopisticamente i valori, tanto etici quanto estetici, con la propria opera.

Non che Pasolini rinunci, da lì in avanti, a pronunciare il suo J’Accuse contro il presente. Viceversa, egli alza il tiro ed esaspera i toni ma, appunto, perché crede che non vi sia più possibilità alcuna di salvezza: che il dominio borghese sia ormai incontrovertibile, che un altrove abbia cessato ovunque di esistere, che l’apocalisse incomba e che allora urga, con ironica disperazione e febbrile combattività, darne lucidamente annuncio alle coscienze, tutte sopite, degli interlocutori. La sua diviene insomma – e anche questo Angela Felice sa acutamente suggerircelo – una sorta di quando lieve e quando cupamente aggressiva perorazione distopica, sempre modulata sul filo del paradosso. Perché, negli anni Settanta, l’opera di Pasolini vieppiù si propone come un polemico esercizio umoristico agevolato – chiarisce il titolo di un componimento e di una sezione di Trasumanar e organizzar – dalla Nascita di un nuovo tipo di buffone. Cioè dall’idea, maturata nel poeta civile di un tempo, di doversi convertire – per non abiurare i propri obblighi verso narrazioni culturali che nessuno pare ormai incline a valutare – in un saltimbanco chiamato, se vuol restarle fedele, a dire la verità solo deformandola in esasperata, irrealistica provocazione, come pure – si evince da Petrolio – in «scherzo» autoreferenziale o in capricciosa successione di «calembours».

Non solo l’appena ricordato romanzo postumo, ma l’intero zibaldone dell’ultimo Pasolini è infatti «un Satyricon moderno», la cui spericolatezza argomentativa, ancor più che dal testo di Petronio Arbitro o dal magistero di Rabelais, Cervantes, Sterne, Dostoevskij, sembra scaturire dalla rivisitazione di un classico della letteratura satirica che risale al 1729 e non si fa ridurre a semplice modello di un saggio incluso, col titolo Due modeste proposte per eliminare la criminalità in Italia, nelle Lettere luterane: la swiftiana Modesta proposta (per impedire che i bambini irlandesi siano a carico dei loro genitori o del loro Paese e per renderli utili alla comunità). Nel Pasolini degli anni Settanta andrebbe cioè riconosciuto un redivivo Swift che, in ragione del vicolo cieco in cui il presente è andato a cacciarsi, vuole non tanto indicare antidoti del tutto congrui per un’emergenza socioculturale ormai insanabile, ma rimarcare le conseguenze logiche implicate dall’irredimibile barbarie imperante: l’obbligo, per ognuno, di credere irrealistico il superamento della crisi in atto e quindi il dovere, per l’intellettuale, di proporre rimedi impraticabili al fine sia di denunciare con arreso livore l’imminente catastrofe, sia di scovare in un disilluso sarcasmo l’unico plausibile erede del canonico discorso utopistico.

Nessun dubbio, in proposito: non si dovrebbe prendere alla lettera il Pasolini corsaro o luterano. Né promuoverlo al rango di profeta. O si dovrebbe almeno evitare di farlo senza aver preliminarmente notato che egli immaginava di poter calzare tale maschera solo a patto di conoscere e di volere – si legge in un testo, Il Gracco, raccolto in Trasumanar e organizzar – «l’inutilità di ogni parola». In pratica, senza aver prima ricordato che – come si ricava dalla già citata Nascita di un nuovo tipo di buffone – il senso ultimo della sua «carriera di poeta», giunta «alla fine» perché socialmente rigettata e costretta dunque a pentirsi di essersi in passato ritenuta «indispensabile all’umanità», è la certezza di non poter più comunicare alcunché. Di dover solo riversare «una spiacevole ironia» su tutto e su se stessa.