De capitalismo disputandum est

Rahel Jaeggidi Leonard Mazzone

[Questo articolo è apparso su “L’Indice”, 6, giugno 2017]

Dallo scoppio della crisi economico-finanziaria a oggi, la nozione di “critica” è tornata al centro del dibattito internazionale delle scienze umane e sociali. Paradossalmente, però, il sistema economico e sociale da cui è maturata quella crisi non è stato sottoposto a un’interrogazione altrettanto attenta e severa, soprattutto da parte degli specialisti di una disciplina a vocazione fortemente normativa come la filosofia politica. All’interno di questo campo disciplinare si è tornati a problematizzare la nozione di critica nella sua doppia veste di attività teorica e di prassi sociale, senza però annoverare fra i suoi oggetti di analisi e, quindi, fra i suoi bersagli polemici il capitalismo neoliberale.

La regolarità di una simile tendenza trova un’eccezione esemplare nel volume Forme di vita e capitalismo curato e tradotto da Marco Solinas, che raccoglie alcuni dei contributi più originali pubblicati in materia da Rahel Jaeggi. Prendendo le mosse da Theodor Adorno e dai suoi Minima Moralia, la titolare della cattedra di filosofia pratica e sociale all’Università di Berlino tenta di aggiornare uno degli obiettivi programmatici originari della Scuola di Francoforte – la critica del capitalismo – rinnovando gli strumenti concettuali adottati dai primi esponenti della teoria critica della società.

In primis l’ideologia, una delle categorie apparentemente più desuete del marxismo, che sembrava destinata a essere riciclata con altri sostituti concettuali (le nozioni di “cinismo di massa” e di “rivoluzione antropologica” sono solo un esempio), se non del tutto rigettata. L’attualità di una categoria come questa, però, viene oggi riabilitata proprio dai ripetuti annunci della sua presunta fine. Qualora le ideologie fossero davvero giunte al tramonto, sarebbe quanto meno ridondante continuare a ribadirne la scomparsa. La tanto decantata fine delle ideologie risuona semmai come un indizio esemplare del suo contrario: le ideologie si radicano in maniera tanto più pervasiva là dove meno si fa sentire la loro presenza. Uno dei principali effetti di questi sistemi di credenze consiste infatti nel cosiddetto processo di “de-contestazione” (decontestation) o di “de-problematizzazione” (deproblematization), che consente di rendere ovvie, dunque immodificabili e accettabili delle pratiche sociali che, intaccando la possibilità stessa di una vita migliore, meriterebbero il rifiuto più radicale da parte dei soggetti coinvolti.

Per converso, la critica dell’ideologia consiste nel “rendere la realtà inaccettabile”, per riprendere il titolo francese di un bel libro di Luc Boltanski. Per raggiungere questo obiettivo, però, la critica non può limitarsi a “de-naturalizzare” o a “de-fatalizzare” fenomeni sociali potenzialmente modificabili; deve avere a cuore il superamento delle condizioni di dominio che le ideologie rispecchiano e, al tempo stesso, legittimano. In ciò consiste la dimensione cognitiva e normativa delle ideologie, trattandosi di sistemi di credenze prodotti da determinate condizioni sociali (ecco perché sono in parte vere), ma al tempo stesso produttivi di pratiche che, spesso, si rivelano difformi rispetto alle relative giustificazioni (ecco perché sono in parte false). È proprio lo scarto più o meno sistematico fra le pratiche sociali prodotte e i presunti valori deputati a legittimarle a fondare la possibilità della critica dell’ideologia.

A ben vedere, tale critica non necessita di ricorrere a valori o principi di giustizia alternativi a quelli analizzati (critica esterna à la John Rawls), né di richiamarsi ai valori condivisi di una determinata comunità ma, di fatto, traditi dalle concrete dinamiche sociali (critica interna à la Michael Walzer). Muovendo dalle contraddizioni interne di certe pratiche sociali, la critica dell’ideologia non può fare a meno dell’analisi di questi stessi processi. Lungi dal voler confermare le norme esistenti riducendo la distanza che le separa dalle relative pratiche, la critica immanente intende innescare un processo di trasformazione che investa le une e le altre. Al tempo stesso, però, questa forma di critica immanente getta un’ombra sulle capacità critiche dei soggetti coinvolti in relazioni di dominio: sulle loro coscienze ricade un “sospetto di opacità” o, per dirla con Paul Ricoeur, si instaura un’ “ermeneutica del sospetto” che finisce per condannare la critica dell’ideologia a uno strumento appannaggio di un’oligarchia più o meno ristretta – le avanguardie rivoluzionarie o, per usare un termine meno anacronistico, gli intellettuali – capace di “sapere come stanno le cose”, a differenza delle masse tenute in ostaggio da sistemi di credenze che veicolano una rappresentazione deformata della realtà.

Malgrado questa difficoltà teorica e pratica, Jaeggi non rinuncia ad aggiornare il metodo immanente della critica dell’ideologia per applicarlo alle cosiddette “forme di vita”. Questa nozione è riferita a fasci inerti di pratiche sociali spesso inintenzionali, bisognose di interpretazione, regolate da norme e orientate al perseguimento di determinati fini, le forme di vita sono spesso irriflesse e questa caratteristica spiega la consapevolezza intermittente dei soggetti che vi sono direttamente coinvolti. Quando queste pratiche soddisfano le attese create dalle loro norme e dai loro obiettivi, è probabile che i soggetti non siano perfettamente consapevoli dei fini sottesi alle forme di vita. Quando però i meccanismi di funzionamento ordinario di queste pratiche vengono interrotti da vere e proprie crisi, i fini implicitamente perseguiti e le norme tacitamente accettate fino a quel momento emergono in primo piano, esponendosi alla possibilità della critica o, in ogni caso, trasformazioni più o meno radicali.

È questa possibilità a consentire di criticare una forma di vita particolarmente pervasiva come il capitalismo, che a differenza delle altre dissimula sistematicamente le norme e i fini che la innervano. Anziché puntare sulla ripresa di una critica funzionalista, morale o etica del capitalismo, Jaeggi elabora una critica etico-pragmatica di questa forma di vita, le cui crisi possono esporla a derive più o meno democratiche, a seconda delle reazioni critiche o ipocrite innescate. Anche questa forma di vita, infatti, può incorrere in contraddizioni pratiche e, dunque, in crisi che non palesano soltanto i suoi deficit morali, ma anche e soprattutto il malfunzionamento oggettivo delle sue istituzioni, dovuto al mancato conseguimento degli annessi fini.

Quanto alle cause di queste crisi, Jaeggi sembra in parte voler correggere le tesi di Luc Boltanski ed Ève Chiapello, che avevano intravisto nella critica sociale il motore – anziché l’ostacolo – dell’evoluzione spirituale del capitalismo. Lungi dall’essere causate da momenti di particolare intensità critica, le crisi del capitalismo dipendono dai deficit interni del suo funzionamento ordinario. Da un punto di vista più strettamente filosofico Jaeggi sembra voler prendere le distanze non solo dal suo maestro Axel Honneth, che aveva visto nelle lotte per il riconoscimento avviate da gruppi culturalmente esclusi o economicamente subordinati la miccia capace di riaccendere lo sviluppo etico, giuridico e sociale delle società democratiche, ma anche (e soprattutto) da Jürgen Habermas. Se, per un verso, Jaeggi riconosce alle contraddizioni pratiche delle forme di vita molta più importanza (troppa?) di quanta non ne rivesta la critica sociale, d’altro canto prende commiato dalla teoria dei sistemi ripresa da Habermas per differenziare un mondo della vita basato su un agire orientato all’intesa comunicativa e il sistema economico e statale, dominato da un agire strategico che, nelle cosiddette società tardo-capitalistiche, minaccerebbe di colonizzare il primo.

Proponendo una “concezione estesa” dell’economia, Jaeggi stravolge gli assunti della teoria dei sistemi: lungi dal designare una sfera sociale dominata esclusivamente da una forma di agire strategico, l’economia moderna si compone di istituzioni che non potrebbero funzionare in assenza di specifiche norme implicite. Senza la combinazione regolata di istituzioni moderne come la proprietà privata dei mezzi di produzione, un’economia di scambio e un mercato del lavoro, non sarebbe possibile produrre, vendere e commerciare alcuna merce; per converso, senza le norme implicite in tali istituzioni, sarebbe legalmente possibile acquistare e vendere corpi umani ridotti a merci fra le altre (con ciò, l’autrice non intende certo negare che la tratta di esseri umani sia scomparsa, ma focalizzare l’attenzione sul fatto che in nessun paese una simile pratica è legalizzata).

Se, come ogni forma di vita, il capitalismo è strutturato su norme e fini potenzialmente difformi dal funzionamento ordinario delle sue istituzioni fondamentali, la sua critica non dipenderà da norme o principi alternativi a quelli che ispirano le sue pratiche economiche, né da soluzioni etiche troppo particolaristiche per essere all’altezza del pluralismo culturale delle società democratiche contemporanee. La critica del capitalismo viene invece a dipendere dalla sua irrazionalità interna: lungi dal tradire valori che gli sono estrinseci, la forma di vita capitalistica è da criticare perché non si dimostra all’altezza delle sue norme istituzionalizzate.

Resta da vedere se e fino a che punto una forma di vita che oggi più che mai è solita auto-rappresentarsi in termini naturalistici anziché per quello che è – una forma di vita dotata di norme e fini propri – possa (e debba) essere criticata sulla sola base di questo scarto e non anche – o, forse, soprattutto – a partire dalla progressiva erosione delle sue condizioni – sociali, politiche ed ecologiche, oltre che economiche – di possibilità. Da loro dipende non solo la disuguale distribuzione della qualità della vita delle generazioni esistenti su scala globale, ma la vita stessa di quelle future.