La Comune di Parigi, un urbanesimo rivoluzionario

Mario Pezzella

[Intervento al convegno “Diritto alla città”, Roma, 24-25 novembre 2016]

La Comune – il suo tentativo di rivoluzionare lo spazio urbano e sociale – rappresenta per Lefebvre un possibile sconfitto e represso nel passato, ma che pure può ripresentarsi attuale nel presente. Quest’idea è legata alla concezione filosofica generale di Lefebvre, secondo cui la realtà storica è una pluralità di possibili coesistenti, e non solo la linea maestra e univoca del progresso imposta dai vincitori del momento. In condizioni mutate, un possibile prima sconfitto può riattualizzarsi e modificare retrospettivamente la nostra percezione del passato nel suo insieme: d’altra parte il possibile nel senso in cui ne parla Lefebvre non è una fantasia arbitraria sostituibile con altre, ma possiede una sua oggettività storica documentabile e ricostruibile, benché dimenticata o posta fuori dall’ordine del discorso: “Il passato diviene o ridiviene presente in funzione della realizzazione dei possibili oggettivamente inclusi nel passato. Esso si svela e si attualizza con essi”1. La Comune è un possibile di questo tipo e in questo senso, anzi è un nesso di possibiltà che investe tutti i campi e i settori della vita associata. Ovviamente è qui impossibile considerare tutti gli aspetti politici, istituzionali, artistici, linguistici, giuridici, coinvolti dall’utopia rivoluzionaria della Comune secondo Lefebvre. Ci limiteremo a considerare alcune osservazioni che egli dedica al modo in cui la Comune ha considerato la città e il suo destino storico.

Tra gli obiettivi della Comune, c’era la riappropriazione della città, che le trasformazioni di Haussmann avevano iniziato a rendere estranea agli strati popolari della città. D’altra parte questa estraniazione non è in quell’epoca completa, gli spazi e gli edifici della città ancora si contrappongono secondo strutture simboliche distinte, sono ancora una proiezione spaziale delle separazioni sociali e lavorative: “La Parigi militare e la Parigi ufficiale (statuale e governamentale) con i loro palazzi, i loro monumenti e le loro strade, proiezione sul terreno della struttura sociale e politica, si sovrappongono senza soffocarla alla Parigi popolare”2. La città è trasfigurata da una estesa immaginazione mitica, che diviene essa stessa parte della lotta politica, appare come “Città santa”, Gerusalemme e Terra Promessa, dal cui possesso dipende per intero la salvezza degli abitanti: “Il popolo ha santificato la Babilonia moderna. La città dei re e degli imperatori diviene la Città santa “assisa ad Occidente” (Rimbaud), Gerusalemme e Roma del mondo moderno”3. La critica generale della separazione – degli spazi, dei lavori, degli universi simbolici – imposta dal capitale è l’intenzione generale della Comune, ed essa investe anche la città come luogo simbolico materiale: La Parigi insorta ha ancora la forza di voler combattere la sovrapposizione della città come luogo centralistico del potere statale alla dispersione e alla festa della vita popolare della città (di questa lotta è sintomo e simbolo l’abbattimento della colonna Vendôme ).

Tra le altre cose, la Comune è per Lefebvre un tentativo in atto di costituire un urbanesimo rivoluzionario, avendo compreso la connessione tra strutture statuali e politiche, separazione delle classi e divisione dello spazio urbano. Critica distruttiva della gerarchia esistente, prima di tutto; ma anche trasformazione degli spazi separati in luoghi di incontro e riconoscimento reciproco, in occasioni di festa. La Comune voleva la riorganizzazione degli spazi urbani in funzione dell’incontro e del riconoscimento, piuttosto che degli scambi, o detto in altri termini, intendeva incrementare incontri e riconoscimenti non mediati dallo scambio di merci. “La Comune rappresenta, fino ai giorni nostri, il solo tentativo di un urbanesimo rivoluzionario, che abbia contestato sul terreno i segni pietrificati della vecchia organizzazione, intuendo le fonti della socialità (in quell’epoca il quartiere), riconoscendo lo spazio sociale in termini politici e non credendo all’innocenza dei monumenti (demolizione della colonna Vendôme, occupazione delle chiese da parte dei clubs, etc.). Coloro che riconducono questi atti al nichilismo e alla barbarie dovranno confessare che invece essi sono disposti a conservare tuttto ciò che considerano “positivo”, vale a dire tutti i risultati della storia, tutte le opere della società dominante, tutte le tradizioni; tutto il già dato, compreso ciò che è morto e irrigidito”4. L’utopia di una vita in cui il riconoscimento e l’eros come legame comune sostituiscano le relazioni dominate dalle astrazioni dello scambio di equivalenti, dell’uguaglianza solo giuridica, del lavoro esso stesso astratto, ha trovato nella Comune un’espressione di possibilità concreta, che resta indelebile. Come i traumi dolorosi e le sconfitte, anche le feste collettive e le insorgenze, lasciano una traccia nella memoria collettiva: “Questa utopia, questo preteso mito, per qualche giorno entrò nei fatti e nella vita. In questo senso, la Comune si confonde con l’idea stessa della rivoluzione, intesa non come idealità astratta ma come l’idea concreta della libertà”5.

Nel “Programma elementare di urbanismo unitario” (Internazionale Situazionista, 6) Debord-Vaneigem-Kotanyi avevano espresso concetti affini6, inserendo come momento costituivo della rinascenza dello spazio urbano, paradossalmente, il concetto di vuoto: «Tutto lo spazio è già occupato dal nemico… Il momento di apparizione dell’urbanismo autentico consisterà nel creare, in certe zone, il vuoto da questa occupazione. Quello che noi chiamiamo costruzione comincia lì. Può comprendersi con l’aiuto del concetto di buco positivo forgiato dalla fisica moderna”. L’urbanesimo unitario rivoluzionario, fu – secondo Debord – il tentativo più ardito della Comune, che egli stesso cercò di articolare e sviluppare.

Il concetto centrale è per Debord quello di psicogeografia: si tratta di immaginare un ambiente rivolto a creare un continuo snodo di incontri possibili, piuttosto che di funzioni dirette dalla separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tempo di lavoro e tempo libero, etc. La costruzione di situazioni di gioco liberato (gioco “armonico” nel senso in cui lo intendeva Fourier) richiede la costruzione di ambienti concreti adatti ad esso, in cui l’architettura e la distribuzione degli spazi tengano conto fin dal progetto dell’effetto psichico sugli abitanti. Studiare e progettare la relazione tra psiche e spazio, e dunque tra il tempo vissuto della psiche e lo spazio geografico, è il compito primario della psicogeografia: “La psicogeografia si propone lo studio delle leggi esatte e degli effetti precisi dell’ambiente geografico, consapevolmente disposto o meno, agendo direttamente sul comportamento affettivo degli individui”(204)7; occorre studiare gli “elementi del quadro urbanistico, in stretta connessione con le sensazioni che provocano”(207); centro della psicogeografia sono “realtà subconscie che appaiono nell’urbanismo stesso”(460). Come Pasolini proponeva un cinema di poesia, Debord propone un urbanesimo, un’architettura di poesia, che si proponga esplicitamente di costruire luoghi che siano “somme di possibilità”. Questa è del resto per Debord l’unica definizione possibile di bellezza: “Parlando di bellezza, è chiaro che non intendo la bellezza plastica – la bellezza nuova non può che essere bellezza di situazione – ma soltanto la presentazione particolarmente emozionante… di una somma di possibilità”(208).

Su queste basi Debord stabilisce una differenza tra semplice ecologia e l’urbanesimo unitario. L’ecologia non si occupa dei loisirs, che invece sono al centro dell’urbanesimo. L’ecologia ragiona in modo statico, “dal punto di vista della popolazione fissa nel suo quartiere”, mentre la psicogeografia “si pone dal punto di vista del passaggio… Il suo osservatore osservante è il passante… la psicogeografia studia le relazioni di attrazione degli ambienti”(459). In questo senso il problema dell’abitare e delle abitazioni e del loro modo di essere non è l’unico della psicogeografia, che si occupa anche di “ambienti inabitabili” o non destinati all’abitare, fatti per il gioco, per il passaggio, per suscitare passioni. La progettazione non solo dev’essere fatta tenendo conto dell’ecologia, ma anche del clima, del colore, delle variazioni di luce del luogo. In generale, la psicogeografia tiene conto della transitorietà e della variabilità della situazione, pre-dispone a questa assoluta transitorietà: “…Il prossimo avvenire apparterrà al rovesciamento delle arti-spettacolo separate e durevoli, a vantaggio di tecniche d’intervento unitarie e transitorie”(448). Qui si può leggere anche una differenza tra Lefebvre e Debord: se Lefebvre ripropone una forma di città fondata sull’uso e sul valore d’uso da parte dei suoi abitanti, la “situazione” di Debord riguarda piuttosto una riappropriazione del transitorio e mutevole: l’euforia isterica del consumo non viene criticata in nome del valore d’uso, ma del gioco, della somma di possibili, in una parola del loisir: “Condizione nella quale è permesso fare ciò che si vuole; spazio di tempo necessario per fare qualcosa a proprio agio; tempo che resta disponibile dopo il lavoro”; di queste tre definizioni del dizionario Littré, Debord privilegia senz’altro le prime due e respinge l’ultima, caratterizzata dal tempo della separazione e del lavoro astratto.

Ma torniamo alla Comune, in cui Debord vedeva l’unico tentativo concreto di urbanesimo unitario, ricorrendo alle analisi di K. Ross. Negli appunti preparatori al suo Passagenwerk, Benjamin definì il rapporto tra forme simboliche e modo di produzione capitalistico col termine di espressione (e non con quelli tradizionalmente marxisti di struttura e sovrastruttura). In questa prospettiva egli considerò la relazione tra l’architettura dei passages e le forme di vita sociale del Secondo Impero. Un metodo per certi versi simile è necessario per studiare l’articolazione dello spazio e del tempo durante la Comune di Parigi del 1871. Occorre leggerla in modo sincronico, cercare le “strutture comuni della vita quotidiana – l’immaginario sociale dello spazio e del tempo”8.

La costruzione di uno spazio-tempo urbano non è un accessorio secondario di un essere sociale: essa ne è l’espressione, e cioè articola su un piano simbolico le scansioni, divisioni e contraddizioni, che lo percorrono. Senza articolazione spaziale e temporale l’essere sociale resterebbe muto, solo nuda gerarchia di poteri, e dunque in effetti non giungerebbe ad essere quello che è. Lo spazio sociale è tale perchè simultanamente dato come ordine economico e simbolico, che attraversa tutte le pieghe della vita quotidiana e ne disegna l’orizzonte di senso. Perciò Marx definiva la Comune come “esistenza in atto”, e Ross aggiunge: “Essa sposta la dimensione politica sui problemi apparentemente periferici della vita quotidiana: l’organizzazione dello spazio e del tempo, i mutamenti dei ritmi di vita e degli ambienti sociali… la lotta rivoluzionaria è insieme diffusa e orientata con precisione… si esprime in conflitti specifici e nelle numerose trasformazioni degli individui, piuttosto che in un’opposizione rigida e binaria tra capitale e lavoro”9.

Il termine spazio sociale va del resto inteso in senso proprio. Le strutture di potere e il modo di produzione dominante (così come le esperienze che intendono combatterli) si inscrivono simbolicamente e materialmente negli spazi urbani, nella maniera in cui sono divisi e amministrati, nella forma (possiamo anche chiamarla biopolitica) entro la quale sono distribuite le vite individuali e le loro relazioni all’interno di essi. L’“esistenza in atto” della Comune è una rivoluzione della geografia della città, che ha comportato, secondo Lefebvre, la “scomparsa dei luoghi privilegiati, a favore di uno scambio permanente tra luoghi distinti, di qui l’importanza del quartiere”. Durante l’assedio, compaiono “nuovi ambienti, nuovi modi di incontrarsi e di riunirsi”10, conseguenza e causa di diverse condotte e comportamenti.

Nei romanzi di Balzac – come ha ricordato Jacques Rancière – le descrizioni lunghissime di case, mobili, arredi, quartieri urbani, corrispondono alla convinzione dell’autore che emergano in tal modo le strutture sociali profonde che dominano la vita. L’architettura, si potrebbe dire, è l’inconscio materializzato dell’ordine simbolico e del suo sistema di potere, e lo scrittore è l’interprete di questo rapporto espressivo, nel quale lo spazio si configura come prodotto sociale. La rivoluzione dello spazio sociale, che implica relazioni altre tra i soggetti, comporta anche una modifica della percezione del tempo. Innanzitutto la rivolta induce l’intuizione di un “tempo saturo”, in cui ogni istante acquista la potente densità di un possibile punto di svolta della storia.

Forza e debolezza della Comune si esprimono in due gesti simbolici: l’assoluta determinazione di abbattere la colonna Vendôme e l’esitazione (forse fatale per la sua sconfitta) a impadronirsi delle riserve della Banca di Francia: quasi che l’atto immaginativo simbolico potesse sostituire interamente il peso volgare dell’oro. La Comune non è solo una rivoluzione politica, ma riarticola profondamente l’ordine simbolico entro cui avviene la vita quotidiana. Come nei rapporti sociali così nella distribuzione e nella codifica di nuovi spazi essa segue un principio rigorosamente egualitario e antigerarchico. La Comune ha messo in questione prima di tutto la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e la gerarchia di valori che ne conseguiva. Non per caso la distruzione della colonna Vendôme suscitò così tanto scandalo da divenire l’atto emblematico della Comune: segno, per alcuni, della sua barbarie e del suo disprezzo per il passato e per la storia. Ma la colonna era essa stessa nata come articolazione e fondazione e propaganda di uno spazio sociale politicamente determinato: essa celebrava le glorie militari dell’Impero e dunque una definita gerarchia di poteri, a cui veniva sottomesso lo spazio geografico. La colonna era il simbolo dell’incatenamento e dell’incantamento dei molti all’Uno verticale e convergente dello Stato. Distruggerla indicava la volontà di cancellare questa gerarchia, di sostituirla con una diversa distribuzione sociale della vita, di fondarla su basi totalmente rinnovate, rompendo i legami col passato dell’oppressione e della guerra. La distruzione della colonna Vendôme è atto d’inizio di un nuovo calendario, equivalente della presa della Bastiglia nella rivoluzione del 1789.

La rivolta della Comune procede dalla liberazione della vita quotidiana verso l’emancipazione economica (e non viceversa, come nella tradizione marxista). La liberazione della vita quotidiana investe la sfera dei rapporti di riconoscimento, dell’intersoggettività, la distribuzione degli spazi urbani, la gerarchia e la divisione del lavoro. È in opposizione assolutamente radicale al lavoro astratto. La liberazione individuale e l’emancipazione economica coesistono nell’esperienza della Comune. Come ha sostenuto Lefebvre, la vita quotidiana è una terra intermedia fra soggettività e oggettività, è in effetti il codice simbolico che definisce le forme di esistenza, di comunicazione, di relazione. Allo stesso tempo, è il modo specifico in cui l’individuo patisce dell’ordine sociale dominante: “La vita quotidiana non è la sfera del soggetto monadico e intenzionale caro alla fenomenologia; essa non risiede neppure nelle strutture obiettive – il linguaggio, le istituzioni, le strutture di parentela – percettibili unicamente se si mette fra parentesi l’esperienza del soggetto”11. Essa consiste proprio nell’intessitura del soggettivo e dell’oggettivo: nella prassi con cui il soggetto è costituito passivamente dalle strutture esterne e al tempo stesse reagisce su di esse con un atto esistenziale di scarto e di trascendimento. L’arte non è in questo diversa per natura dalla soggettività della vita quotidiana: esistenza che emerge e produce uno scarto, sia pur minimo, rispetto alla necessità della situazione.

Se la colonna Vendôme è espressione verticalizzante e gerarchica del potere imperiale, una forma di vita definibile come sciame caratterizza sia lo spazio sociale sia quello urbano della Comune. Lo sciame è la pluralità della moltitudine assunta positivamente, così come il termine plebe serve quasi sempre a indicarla negativamente. Lo sciame è una plebe divenuta connessione simbolica di differenze. Esso ha la molteplicità polimorfa del desiderio, è un movimento coordinato di diversità: “…un’agitazione, una vibrazione, rapide e ripetute, un campo di forze e di frequenze oscillanti tra la minaccia e la quiete”12.

A sciame, non come colonne militari, si muovono le masse di Parigi, “in fraterno disordine”, nei mesi della Comune. “Fiori incantati ronzavano. I declivi lo cullavano. Circolavano bestie di un’eleganza favolosa. Le nubi si ammassavano al largo del mare, fatto di un’eternità di calde lacrime” (Infanzia II, Rimbaud).

1 H. Lefebvre, La proclamation de la Commune, Gallimard, Paris 1965, p. 36.

2 Ivi, p. 134.

3 Ibidem.

4 Ivi, p.394.

5 Ivi, p.390.

6 Questo il passo di da cui proviene quello prima citato di Lefebvre e fu anche all’origine di una lite con gli autori situazionisti: “La Comune rappresenta fino ai nostri giorni l’unica realizzazione di un’urbanistica rivoluzionaria, che attacca sul campo i segni pietrificati dell’organizzazione dominante della vita, riconosce lo spazio sociale in termini politici, non crede che un monumento possa essere innocente. Chi riconduce tutto ciò ad un nichilismo da lumpenproletario, all’irresponsabilità delle incendiarie, deve ammettere in contropartita tutto ciò che ritiene positivo, da salvare, nella società dominante (si vedrà che è quasi tutto)”.

7 G. Debord, Oeuvres, Gallimard, Paris 2006. Numeri di pagina in corpo testo fra parentesi.

8 K. Ross, Rimbaud, la Commune de Paris et l’invention de l’histoire spatiale, Les Prairies ordinaires, Paris 2013, p. 15. In questa edizione c’è un’introduzione nuova rispetto all’edizione americana, The Emergence of Social Space: Rimbaud and the Paris Commune, University of Minnesota Press, 1988.

9 Ivi, p. 56.

10 Ivi, p. 68.

11 Ivi, pp. 22-23.

12 Ivi, p. 155. Il significato del termine è dunque opposto in questo caso a quello considerato da Bauman e più recentemente da F. Berardi.