Appunti su “Il cane di Goya”

di Luca Lenzini

Caro Mario, un po’ sono titubante e imbarazzato a prendere la parola in mezzo a tanti amici che, con molta più competenza di quanto ne abbia io, sono riuniti oggi per il tuo compleanno e per parlare del tuo lavoro. Il mio intervento ha per tema la raccolta di poesie intitolata Il cane di Goya1, che mi è cara per più motivi: perché è tua, perché c’è di mezzo Goya; perché è un libro importante e anche perché la mia copia reca nella dedica una citazione fortiniana, da Composita solvantur, versi che in una lezione per un mio corso sapesti commentare, qualche anno fa, in modo memorabile. (I miei sono appunti corsivi, ma se un giorno avranno la forma più compiuta di una recensione forse porteranno un titolo come Il cane di Goya ovvero Mario nella Quinta del Sordo.)

Ora, se penso alla tua poesia, in generale, e cerco un termine adatto a renderne conto, la prima parola che mi viene in mente è “spessore”. Mi rendo conto che non è granché, anzi è un’approssimazione piuttosto goffa a quanto vorrei dire; ma almeno può servire a introdurre una caratteristica della tua scrittura poetica che colpisce a prima vista: ovvero la stratificazione e la pluralità dei livelli discorsivi che vi si intrecciano, che stringono l’insieme di una raccolta come Il cane di Goya, appunto, e conferiscono coerenza e durata alla struttura complessiva. Continua a leggere “Appunti su “Il cane di Goya””

Due o tre cose sulla “Critica della ragion populista” di Mario Pezzella

di Alessandro Simoncini

Anche se le forze populiste nel mondo hanno leggermente frenato una corsa che sembrava inarrestabile, le cause profonde del populismo restano intatte nell’“intreccio di tre crisi differenti”: una crisi economica che ha colpito duramente, e continua a colpire, ceto medio e classi subalterne; una crisi politica che ha generato, e genera, sfiducia nei confronti del sistema dei partiti; una crisi “culturale” che ha prodotto, e continuerà a produrre, una crescente percezione di insicurezza nei confronti di profughi e migranti, con le correlate richieste di protezione identitaria. A completare il quadro c’è poi il rafforzamento di un ambiente mediatico, come quello dei social network, molto favorevole alla conquista di visibilità e egemonia da parte dei populisti (D. Palano, Apocalisse democratica, in “Rivista internazionale di Politica, Filosofia e Diritto”, 2, 2020).

Per questo è interessante e utile tornare a leggere due brevi densi testi in cui, nel 2016, Mario Pezzella ha schizzato i lineamenti fondamentali di una Critica della ragion populista (Critica della ragion populista, in “Il Ponte”, 8-9 2016 e in S. Cingari, A. Simoncini, Lessico postdemocratico, Perugia, PUP, 20161). La Critica di Pezzella va riletta per quello che è: un frammento di “ontologia politica dell’attualità” che si insedia con una prospettiva di parte dentro un campo strategico ben determinato, quello della lotta tra teoria populista e teoria socialista. Pezzella pensa e scrive la sua Critica dentro il cosiddetto “momento populista” e contro La ragione populista di Ernesto Laclau (Roma-Bari, Laterza, 2008): il testo che – come sappiamo – ha funzionato da “metafisica influente” per la sinistra populista europea e non solo. Con Laclau, contro l’idea stessa di una sinistra populista, Pezzella ingaggia un serrato corpo a corpo nel corso del quale compie tre mosse teoriche (tra le altre) particolarmente interessanti. Continua a leggere “Due o tre cose sulla “Critica della ragion populista” di Mario Pezzella”

Sulla sindrome identitaria

sindrome identitariaIl volume presenta i risultati di due ricerche tra loro collegate, svolte tra il 2018 e il 2020, nell’ambito delle attività della Fondazione per la critica sociale.
La prima, condotta da Cristina Vincenzo e Renato Foschi, è un’analisi di psicologia sociale, mediante lo strumento di questionari diffusi a livello nazionale, intorno alle forme della xenofobia e del razzismo «vecchio stile», cioè ideologicamente strutturato, nei suoi rapporti con il rifiuto dell’altro nelle sue modalità oggi meno evidenti e implicite, per così dire più discrete. La seconda, condotta da Anna Simone e Alberto De Nicola, si concentra sulla città di Roma: è un’inchiesta di taglio sociologico-etnografico, con interviste ai presidenti di alcuni comitati dei cittadini attraverso cui è possibile cogliere il lato oscuro, nelle vesti di una «lotta al degrado» – in una capitale
peraltro afflitta da mille problemi, da quelli della mobilità urbana a quelli della raccolta dei rifiuti, all’abbandono a se stessi di interi quartieri –, di talune realtà organizzate della cosiddetta cittadinanza attiva.
L’introduzione di Rino Genovese, presidente della Fondazione per la critica sociale, mette a fuoco il contesto teorico generale al cui interno si è formato il gruppo di studio sulla sindrome identitaria, definendo quest’ultima
come una patologia a più facce di un bisogno identitario, da parte degli individui e delle collettività, che può avere aspetti positivi o negativi, progressivi o regressivi, a seconda delle forme in cui venga a esprimersi.

Rino Genovese è filosofo ed è stato ricercatore alla Normale di Pisa. Fa parte del comitato editoriale del quadrimestrale di teoria sociale “La società degli individui”. Tra i suoi libri, Gli attrezzi del filosofo. Difesa del relativismo e altre incursioni (2008); Trattato dei vincoli. Conoscenza, comunicazione, potere (2009); Che cos’è il berlusconismo. La democrazia deformata e il caso italiano (2011); Il destino dell’intellettuale (2013).

Nell’urbanizzazione del mondo la distinzione tra natura e cultura non tiene più

Rino Genovese

[Testo riveduto della relazione presentata il 18 febbraio scorso nella serie di seminari online su “Il disordine della natura e la via verso un nuovo modello di sviluppo”, a cura della Fondazione per la critica sociale, Legambiente e Crs Toscana.]

Affrontare concettualmente la pandemia richiede un supplemento di riflessione intorno alla distinzione natura/cultura così come si è configurata da sempre. Non si tratta tanto della questione del “dominio sulla natura”, instaurato fin dalla più profonda antichità (e su cui autori come Adorno e Horkheimer nella loro Dialettica dell’illuminismo hanno scritto pagine memorabili), quanto piuttosto di mettere a fuoco un fenomeno completamente nuovo nella storia dell’umanità, quello che si può definire dell’urbanizzazione del mondo. In breve, la parte di esseri umani che abita nelle città è superiore già oggi al cinquanta per cento della popolazione mondiale, e si prevede che questa quota arriverà nel 2030 al sessanta per cento. In un paese come la Cina, in cui il fenomeno appare particolarmente marcato, si è assistito negli scorsi decenni alla nascita e al moltiplicarsi di agglomerati urbani nell’arco temporale di pochi mesi. Quando si usa il termine “epocale”, per indicare un cambiamento, ci si dimentica di applicarlo a questa vera e propria grande trasformazione che tende a cancellare la stessa classica distinzione tra città e campagna, e – con certezza ancora maggiore – relega le nostre città e metropoli nel museo dei ferri vecchi della storia: perché sono gli informi agglomerati urbani, le megalopoli di milioni di abitanti del ventunesimo secolo, ad avere ormai il sopravvento sul vivere cittadino di origine medievale come quello europeo.

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Energie sociali e paure irrazionali nella pandemia

pandemiadi Giorgio Stamboulis

La seconda ondata del covid-19 ci pone davanti a tutte le contraddizioni e ai problemi politici, sociali ed economici che la volontà di rassicurare la popolazione, e la necessità di affrontare l’emergenza, avevano nascosto sotto il tappeto. I media e la politica hanno concentrato l’attenzione quasi esclusivamente sulla contrazione dei consumi e soprattutto dei profitti. Il dilemma e il tentativo di conciliazione proposti sono stati tra il diritto alla salute e quello ad arricchirsi, mentre altre priorità sono state messe tra parentesi, come il diritto al lavoro, all’istruzione, alla socialità, alla libertà di movimento ed espressione.

Su giornali, televisioni e social, il dibattito pubblico è stato ampiamente ricondotto alla dimensione morale della responsabilità individuale, con slogan, più che con argomentazioni, che di volta in volta hanno spostato il soggetto della condanna, riproducendo però sempre la stessa logica: «il runner non deve correre perché diffonde il virus e si distrae dalla lotta alla malattia»; «i giovani si incontrano e vanno a ballare, ma così diffondono il virus»; «le scuole potrebbero fare la didattica a distanza»; «ristoratori e baristi vogliono tenere aperto a tutti i costi per persone che pensano solo agli aperitivi e alle cene, e se ne fregano delle morti»; oppure «pensano al Natale mentre siamo con gli ospedali al collasso».

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Catastrofe sfiorata, appunti per il dopo Trump

Donald Trumpdi Aldo Garzia

I simboli, in politica come nella vita, contano molto. L’occupazione per alcune ore del Campidoglio di Washington peserà come un macigno non solo sulla storia degli Stati Uniti. Quello che non era ritenuto possibile è invece avvenuto. Il trumpismo ha varcato il Rubicone, mettendo sotto ulteriore stress il sistema politico ed economico non solo statunitense. I media di oltre Atlantico hanno parlato esplicitamente di “tentato colpo di Stato”. Il che la dice lunga su cosa abbiamo rischiato con la rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca.

Tornano in mente certi commenti a sinistra all’epoca della sconfitta di Hillary Clinton nel 2016. Si pensava che il ritorno dei repubblicani al comando avrebbe fatto dell’isolazionismo un valore evitando guerre e interventismi, che né Bill Clinton né Barack Obama seppero evitare. Non si era compresa la portata devastante del “fenomeno Trump” che aveva conquistato la candidatura repubblicana fuori da ogni previsione e norma. Lo avremmo imparato via via. Meglio avere come avversari dei conservatori che degli eversivi, dovremmo aver appreso (eppure c’è chi ha storto ancora una volta la bocca per l’elezione del poco alternativo Joe Biden sostenendo che democratici e repubblicani pari sono).

Le destre non sono sempre uguali a se stesse. Trump non è stato eguale a Ronald Reagan: lui ha unito il liberismo spinto alla rottura di ogni regola interna e internazionale. Non è stato solo una variante del populismo che si aggira nel mondo. È stato un fenomeno che si è inserito nella crisi economica e sociale della società a stelle e strisce, in quella del multilateralismo internazionale proponendo soluzioni autoritarie. In più, si è fondato sul rinascente razzismo (muro contro gli immigrati e i “diversi”) e il via libera al popolo delle armi che cerca soluzioni di vita individuali. Riascoltare i discorsi di Trump nella recente campagna elettorale fa un effetto agghiacciante. Prefiguravano Stati Uniti e il mondo a sua immagine e somiglianza. Una sorta di “fascismo moderno”, si potrebbe dire, se il termine non fosse abusato e utilizzato a volte a sproposito (lo uso togliattianamente, alludendo a un regime fortemente autoritario ma con vasto consenso di massa). Non c’è infatti solo un forte tasso di populismo in Trump: c’è il disprezzo di ogni principio regolatore della vitta collettiva. È questa la sua cifra distintiva. Continua a leggere “Catastrofe sfiorata, appunti per il dopo Trump”

Anche oggi la patrimoniale si fa domani

di Stela Xhunga

Il 2020 è stato l’anno della paura. Paura di ammalarsi, paura di morire, paura di non arrivare a fine mese. C’è però una parola che terrorizza gli italiani ma non c’entra con il virus ed è “patrimoniale”. La sola pronuncia è in grado di scatenare le reazioni più scomposte da destra a sinistra, passando per il centro. L’aspetto curioso della faccenda sta nel fatto che non sono solo i grandi borghesi a rabbrividire al suono di “patrimoniale” ma anche i piccoli borghesi e persino i proletari. I primi la temono nonostante siano ricchissimi, i secondi si accodano pavlovianamente per sembrare anche loro un po’ ricchi o comunque vicini ai ricchi e i terzi perché l’eredità lasciata da vent’anni di berlusconismo è l’amore per i ricchi. Un eros sfrenato, che si inserisce perfettamente nei dogmi liberisti degli ultimi decenni e trova il suo casus belli nel famoso 6 per mille sui capitali applicato dal governo Amato nel 1992. Un prelievo forzoso che è parso particolarmente odioso perché operava già al netto delle imposte, detto altrimenti, le tasse su quei patrimoni i cittadini le avevano già pagate. “Fu un male necessario”, ammise a distanza di anni Amato: “Serviva una prima manovra correttiva da trentamila miliardi di lire e avevo passato la notte a discutere con i tecnici del Tesoro e delle Finanze come trovare gli ultimi otto. Mi offrivano di alzare l’Iva, ma avrebbe fatto salire ancora l’inflazione; o di agire sull’Irpef, ma avrei alzato le tasse sui ceti più deboli. Fu allora, alle 4 del mattino, che Giovanni Goria (ndr. allora Ministro delle Finanze) mi prese da parte e mi chiese se poteva studiare il prelievo”. Di lì in poi lo strappo non fu più ricucito e il parlamento non seppe rimettere sul tavolo una discussione laica sul tema della patrimoniale. Non ci è riuscito neppure stavolta, in un contesto inedito come quello innescato dal Covid-19 ormai un anno fa. Continua a leggere “Anche oggi la patrimoniale si fa domani”

L’Italia del Censis e quella voglia di pena di morte

pena di mortedi Stela Xhunga

Primi nel mondo ad abolire la pena di morte e a convincere le potenze mondiali a seguirne l’esempio, oggi gli italiani vogliono la pena di morte. La vogliono davvero, non metaforicamente: quasi la metà degli italiani (il 43,7 per cento) si dice favorevole alla sua introduzione nel nostro ordinamento, nero su bianco, nel consueto rapporto annuale del Censis che parla “di un rimosso in cui pulsano risentimenti antichi e recentissimi di diversa origine, intensità, cause”. Il dato sale al 44,7 per cento tra i giovani compresi tra i 18 e i 34 anni.

Quando un ragazzo ventiseienne fece abolire la pena di morte

Quando nel 1764 fece pubblicare Dei delitti e delle pene Cesare Beccaria era un giovane marchese di 26 anni imbevuto dell’umanitarismo e della filosofia di Montesquieu, enciclopedisti, Hume, Bentham, Locke, ma soprattutto Rousseau. Quando nel 2018 Giorgia Meloni scriveva di volere “abolire il reato di tortura che impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro” ne aveva 41. Alle volte l’età è proprio un dato anagrafico che non significa nulla. Il trattato di Beccaria, messo all’Indice tra i libri proibiti dalla Chiesa nel 1766, è una delle cose di cui gli italiani dovrebbero andare più fieri, più della pizza e del mare, per intenderci. L’abolizione della pena di morte, l’ispirazione egualitaria secondo cui alla radice del crimine c’è la disuguaglianza economica e sociale, la laicità che disciplina il diritto di punire, se tutto ciò oggi è possibile – sia pure talvolta faticosamente – in Italia e in Europa è grazie anche al libro di un italiano. Non è un’esagerazione.

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Seminari su disordine della natura e capitalismo

Interpretare le sfide della nostra epoca per andare oltre il modello capitalistico e immaginare un futuro più giusto e sostenibile

Il ciclo di seminari intende proporre alcune categorie di pensiero che si ritengono utili per comprendere la situazione di emergenza che stiamo vivendo. Punto di partenza della nostra riflessione sarà il concetto di apocalisse culturale, elaborato da Ernesto De Martino. Un’apocalisse culturale si verifica quando, in seguito a un trauma storico profondo (un’epidemia, una guerra, un’aggressione coloniale, una crisi economica sistemica, una catastrofe ecologica) l’ordine simbolico con cui abitualmente riusciamo a orientarci nella realtà ambiente e nella vita quotidiana viene a essere sospeso, diventa irriconoscibile e ci lascia esposti al caos politico e psichico. Si verifica allora quella che sempre Ernesto De Martino ha definito una crisi della presenza.
Siamo, infatti, di fronte a un dissesto e a un disordine reattivo della natura, provocato dalla crisi sistemica del capitale e della sua concezione della tecnica. Qualcosa dunque di così radicale e profondo da minacciare il nostro ordine simbolico nelle sue stesse fondamenta. Come ebbe a dire Walter Benjamin in uno dei momenti più drammatici della storia del Novecento, «prima che la scintilla raggiunga la dinamite, la miccia accesa va tagliata».
I vari interventi del seminario, di cui proponiamo di seguito gli abstract intendono analizzare da diverse prospettive, a nostro avviso complementari, il dissesto radicale della forma di vita e la crisi della presenza che stiamo vivendo, integrando e sviluppando l’intuizione di De Martino e cercando di prefigurare anche come superare questa crisi per una nuova dimensione della relazione fra natura e cultura come base di un nuovo modello di sviluppo.

Scarica gli abstract

 

Un nuovo piano per il centro storico di Genova?

Genovadi Agostino Petrillo

Il centro storico di Genova è una realtà estremamente complessa per un insieme di ragioni materiali e simboliche: non è mai stato veramente chiaro dove inizi e dove finisca la città antica, e i confini non ne sono nettamente delineati nemmeno nell’immaginario degli stessi genovesi. Le demolizioni che si sono succedute negli ultimi due secoli hanno complicato ulteriormente il quadro che propone una città cresciuta per strati, in cui le epoche si sono sovrapposte in spazi ristretti, e le architetture si sono sviluppate spesso inglobando e ricostruendo quanto già esisteva in precedenza. Una città incalcolabilmente antica ma anche “stratificata”, dunque: il che non ha certo aiutato a determinare quali siano le parti di città da considerarsi “storiche”.

Le distruzioni del tessuto urbano sono state notevoli già nell’Ottocento, quando una parte del centro è stata completamente abbattuta, riedificata e riorientata per l’apertura di nuovi assi viari e per permettere l’irruzione di sistemi di trasporto moderni, ma sono proseguite pervicacemente anche nel Novecento fino al crescendo rappresentato dal folle piano regolatore del 1959 che, oltre a prevedere per Genova uno sviluppo demografico fino a sei milioni di abitanti, provvide anche a liquidare completamente un esteso quartiere antico, quello di Portoria, in cui c’erano edifici quattro-cinquecenteschi Al suo posto sorse una fantastica speculazione edilizia (zona Piccapietra), inno a un modernismo vacuo caratterizzato da orrendi edifici “razionalisti” ancora oggi, a distanza di sessant’anni dall’operazione, in buona parte semivuoti. Nuovamente nei Settanta e all’inizio degli anni Ottanta, si è operato con la medesima logica, considerando la città antica “zona degradata”. Sventrata la storica zona di via Madre di Dio, si sono costruiti palazzi di una qualità così modesta da necessitare di continui interventi di manutenzione ancora in corso d’opera, precocemente decadenti, tali da apparire vere e proprie “rovine del moderno”. Continua a leggere “Un nuovo piano per il centro storico di Genova?”

A una svolta le indagini sulla matrice fascio-piduista della strage di Bologna

Strage di Bolognadi Stefania Limiti

Non tutti i depistaggi sono uguali. Alcuni riescono bene, altri falliscono completamente, oppure svolgono solo in parte il loro sporco lavoro.

Quelli architettati per la strage alla stazione di Bologna, anche se apparentemente non sono serviti allo scopo di confondere gli investigatori – visto che gli esecutori materiali sono stati individuati – hanno funzionato abbastanza bene, purtroppo. Infatti, il cuore della faccenda, cioè il progetto stragista ordito dal sistema piduista e messo in pratica dai più efferati gruppi del terrore neofascista, è stato annacquato per molti anni, nonostante le dure condanne inflitte a Licio Gelli e compari per il tentativo di ingarbugliare tutta la trama delle indagini indirizzandole sulla pista internazionale. Se le indagini sull’attentato al treno Italicus (4 Agosto 1974, dodici morti e quaranta feriti) fossero andate per il verso giusto, tutto sarebbe stato chiaro. Forse (se avesse un senso l’avverbio a cose fatte…) Bologna non sarebbe mai stata ferita in quel modo barbaro. Infatti, la mano piduista lì è certissima (per l’Italicus è già stato accertato il diretto coinvolgimento della P2).

Ma il tempo, si sa, è galantuomo e anche dopo tanti anni dal quel tragico agosto del 1980, e dopo le condanne come esecutori della strage dei terroristi dei Nar Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini e in primo grado (lo scorso 9 gennaio 2020) di Gilberto Cavallini, siamo alla vigilia di un nuovo, promettente capitolo giudiziario. Dal 2017 ne è protagonista, insieme alla attivissima Associazione delle vittime e a un agguerrito collegio di parte civile, la procura generale della città – che ha incontrato nei mesi scorsi per due volte, fuori da ogni consuetudine, il presidente del Consiglio Conte, secondo fonti attendibili per discutere della de-secretazione di alcune carte. La scorsa settimana si è svolta l’udienza preliminare del processo che vede imputate diverse persone, tra cui l’avanguardista Paolo Bellini – alcune però non processabili perché morte (il capo dello P2 Licio Gelli, il suo braccio destra banchiere Umberto Ortolani, il potente capo della polizia politica Federico Umberto D’Amato e il giornalista piduista, senatore missino Mario Tedeschi) o perché già assolte in via definitiva (Picciafuoco). Continua a leggere “A una svolta le indagini sulla matrice fascio-piduista della strage di Bologna”

Un’intervista a Stefano Ciccone

di Manuela Bianchi

Il 25 novembre, Giornata mondiale della violenza contro le donne, funestata da altri due femminicidi, uno in Calabria e l’altro in Veneto, che si aggiungono agli ottantuno registrati dal VII Rapporto Eures (Rete di cooperazione Europea) sul femminicidio in Italia dall’inizio dell’anno, abbiamo voluto trattare l’argomento guardandolo dalla prospettiva di quegli uomini che si mettono in discussione e intraprendono un percorso di autocoscienza promuovendo una riflessione individuale e collettiva, partendo dal riconoscimento della propria parzialità e dalla valorizzazione delle differenze. Abbiamo quindi fatto una chiacchierata con Stefano Ciccone – autore di Il legame insospettabile tra amore e violenza (C&P Adver Effigi, 2008) scritto con Lea Melandri, di Essere maschi. Tra potere e libertà (Rosenberg & Sellier, 2009) e ancora di Maschi in crisi? Oltre la frustrazione e il rancore (Rosenberg & Sellier, 2019) – membro dell’Associazione nazionale Maschile Plurale, che ha contribuito a far nascere nel 2007.

Come si forma l’esperienza dei gruppi di autocoscienza maschile?

Da due percorsi, uno prettamente politico, come il movimento per la pace, partendo dalla critica alla violenza nella politica dopo il 1977; l’altro dal mondo religioso, in particolare dai gruppi maschili istituiti dalla comunità valdese, nati sul tema della violenza e poi caratterizzatisi per la messa in discussione della cultura maschile. Continua a leggere “Un’intervista a Stefano Ciccone”

Da Rousseau ad Amazon, la strana storia del signor Casaleggio

di Michele Mezza

Forse in uno dei suoi più complessi e preveggenti aforismi, già alla fine degli anni sessanta, Marshall McLuhan ammoniva che il messaggio di un medium o di una tecnologia è nel mutamento di proporzioni, di ritmo e di schemi che introduce nei rapporti umani. Un modo lucidissimo per avvertirci che quanto stava annunciandosi – siamo negli anni in cui il free speech di Berkley diventava free soft, con un’evoluzione del tutto sfuggita alla sinistra europea in tutt’altre faccende affaccendata – costituiva una vorticosa trasformazione sociale di cui la tecnologia era solo la forma e il linguaggio.

Sarebbe bene ricordare quella lezione leggendo le ultime uscite di Andrea Casaleggio, che in un’intervista apparsa su “Huffingtonpost” il 21 novembre scorso ha tessuto le lodi di Amazon e dell’e-commerce. Tornando sulle orme del padre, egli ci fa intendere quale doveva essere la vera missione dei 5 Stelle: veicolo di una innovazione passiva della società italiana. Dobbiamo fare come fanno quelli che vincono in rete – fu il messaggio del fondatore della Casaleggio S.p.A nel primo incontro di Ivrea. Nessuno colse l’implicazione sociale di tale impennata. In un momento in cui la Silicon Valley, da grande fornace della digitalizzazione del mondo, diventava matrice di una nuova gerarchia sociale fra calcolanti e calcolati, agganciare il progresso tecnologico del paese agli interessi dei grandi service provider significava fissare una disciplina sociale e una subordinazione politica ferrea. In miniatura il modello per subordinare la democrazia alla proprietà della tecnologia fu proprio Rousseau, la piattaforma che ha organizzato e performato il movimento grillino, legandone ogni sussulto a una dettagliata raccolta di dati che ha imbrigliato i 5 Stelle in tutta la fase propulsiva. Continua a leggere “Da Rousseau ad Amazon, la strana storia del signor Casaleggio”

Lusso Comune

Lusso comunePer quanto sconfitta e conclusasi in una triste tragedia, la Comune di Parigi del 1871 diede voce a un possibile che si è impresso per sempre nella ­memoria storica: è concepibile una vita senza rapporti di servitù e sfruttamento, senza il dominio esclusivo del denaro, senza Stato e senza capitale? Con tutti i limiti e le contraddizioni che hanno contribuito alla loro sconfitta, gli uomini e le donne della Comune tentarono di dissolvere le strutture burocratiche dello Stato-nazione centralizzato. Ciò che sembrava fantasma e immagine di sogno si mostrava invece come utopia concreta. La Comune realizzò una riorganizzazione della vita quotidiana, nella sua pratica sociale, molto più rilevante di qualsiasi atto di governo: in tal senso essa è l’indicazione di uno stile di vita: «Estendere la ­dimensione estetica alla vita quotidiana, come richiesto sotto la Comune dalla Federazione degli Artisti, non solo rende l’arte accessibile a tutti, ma la rende anche parte integrale di qualsiasi processo creativo. Si crea una nuova relazione sensibile con i materiali – la loro consistenza, densità, malleabilità, resistenza – e con i processi lavorativi propri di ciascuno, con le tappe necessarie per la loro realizzazione e, d’altro lato, con la nuova riproduzione delle abilità di chi vi ha partecipato» (Ross).
Il lusso comune è una riconfigurazione della vita quotidiana in cui – al di là di ogni separazione di classe – l’arte e la pratica del lavoro si fondono in una nuova unità vitale, in un gioco armonico.

Kristin Ross (1953) è professore emerito di Letterature comparate alla New York University. Esperta di cultura francese dei secoli XIX e XX, ha pubblicato numerosi libri, tra i quali:
The Emergence of Social Space: Rimbaud and the Paris Commune
(1988); Fast Cars, Clean Bodies: Decolonization and the Reordering of French Culture (1995); May ’68 and its Afterlives (2002).

A che punto siamo

di Aldo Garzia

Il silenzio sulla pandemia della politica è quasi totale. Si sta andando in questi giorni a piccoli passi verso un lockdown nazionale dopo la strategia “gialla”, “arancione” e “rossa” che forse sarebbe andata bene nei mesi scorsi. È un’ipotesi che appare inevitabile per salvare il Natale commerciale e famigliare. Poi seguiranno probabilmente altre chiusure e aperture in una fisarmonica di iniziative fino all’arrivo dei vaccini. Ipotesi quest’ultima non immediata e con problemi enormi di distribuzione. Gli altri paesi europei sono combinati più o meno nello stesso modo, con la solita eccezione di Germania e paesi del Nord che brillano per organizzazione, credibilità delle istituzioni e disciplina dei comportamenti individuali.

Bisognerebbe quindi abituarsi a convivere con tutto ciò che la pandemia significa nello stile di vita di ognuno, nei rapporti sociali mutilati e soprattutto nel dibattito pubblico. Non c’è ordine del discorso politico che non debba partire di qui. Niente è più come prima. Questa volta sul serio e non per modo di dire. E ci sono virologi ed epidemiologi che già avvertono come pure in caso di vaccino ravvicinato dovremo abituarci a distanziamento e mascherine per un periodo medio-lungo. Continua a leggere “A che punto siamo”

Fascisti su Marche

Fascidi Antonio Tricomi

Già sindaco leghista del comune di Gorle, in provincia di Bergamo, oggi Marco Ugo Filisetti occupa la carica di Direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale per le Marche. Lo scorso 14 settembre, per l’inizio del nuovo anno scolastico, egli ha sentito di dover rivolgere un caloroso messaggio di saluto agli studenti marchigiani. Un messaggio nel quale, tra l’altro, si legge:

A voi studenti ancora una volta ricordiamo, oltre all’impegno nello studio, l’esercizio dell’autocoscienza, che si interroga a partire dall’identità. Chi sono? chi sono i miei “padri”? quale passato? Perché è la memoria storica, la consapevolezza delle proprie radici che unisce una comunità, un popolo indicando il possibile futuro.
Il processo di crescita, nella scuola vi porti alla conoscenza di voi stessi, a essere persone autentiche che confessano e professano le proprie idee, le attestano, le provano e le realizzano, sino ad esserne “martiri”.
Per questo siate coraggiosi come solo la gioventù sa esserlo, guardando con occhi impassibili tutte le difficoltà che il futuro pone davanti. Non disperate, mai, perché la speranza è la radice di ogni progetto, la molla per comunicare con gli altri, la forza che sorregge ogni seminagione.
Senza speranza non vi può essere nessun progetto di vita, di crescita per voi e per la Comunità che è intorno a voi, cammina con voi e continuerà a camminare grazie a voi.
Il futuro che sognate per voi e per la Comunità a cui appartenete si realizza se diventa passione, se diventa fede, se diventa destino. E la storia assicura un destino solo quando la vita scorre impetuosa nelle vene della Comunità, quando è presente una gioventù consapevole che il domani le appartiene.

Una settimana più tardi, come si sa, le elezioni regionali hanno decretato, nelle Marche, la vittoria di Francesco Acquaroli. Già militante di Alleanza Nazionale e poi del Popolo delle Libertà, iscritto da otto anni a Fratelli d’Italia ed ex sindaco di Potenza Picena, comune della provincia di Macerata, costui è stato sostenuto, nella propria candidatura, da una coalizione di centro-destra composta da Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia e da alcune liste civiche. Grande estimatore – a suo stesso dire – del filosofo sovranista e opinion-maker telegenico Diego Fusaro, Acquaroli ha però potuto ovviamente contare, in campagna elettorale, soprattutto sull’appoggio incondizionato di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia. Non per nulla, lo scorso 20 agosto, i due erano assieme a San Benedetto del Tronto, in provincia di Ascoli Piceno, durante l’esibizione dei paracadutisti della Società Sportiva Lazio Paracadutismo capitanati da Lino Della Corte. Show che ha visto atleti e campioni variamente assortiti rendersi protagonisti di voli acrobatici in onore del partito guidato dall’onorevole Meloni. I paracadutisti, sulle note della celebre romanza Nessun Dorma inclusa nella Turandot di Giacomo Puccini, sono scesi dal cielo con due enormi drappi. Con un tricolore di cinquecento metri quadrati. Con una bandiera di centosettanta metri quadrati nel quale fiero campeggiava lo slogan elettorale di Fratelli d’Italia: “Vogliamo un’Italia libera, forte e coraggiosa”. Continua a leggere “Fascisti su Marche”

In rivolta senza un volto

di Stela Xhunga

Scontri, come non se ne vedevano da un po’. Prima a Napoli, poi Roma, Milano, Torino, Trieste, Cremona, Lecce, Verona, Cosenza, Ferrara, Salerno, Palermo e Siracusa. Mentre i media trasmettevano in diretta le cariche della polizia sotto il palazzo della Regione a Milano e le vetrine rotte di Gucci a Torino, quasi in contemporanea, in piazza Unità d’Italia, a Trieste, si assembravano migliaia di persone aizzate dal sindaco Roberto Dipiazza e dal governatore Massimiliano Fedriga, entrambi fisicamente presenti a una manifestazione che in teoria doveva essere contro il nuovo decreto varato dal governo ma che in pratica è stata salutata da molte braccia tese con la mano aperta.

Pensare che dietro ogni disordine al di sotto del Po ci siano solo camorristi e al di sopra il Po solo Black Bloc è operazione miope, che non fa bene a nessuno, men che meno oggi che l’identità dei manifestanti è frammentata, spuria. Fatta eccezione per coloro che un’identità la rivendicano con il braccio teso, è difficile, finanche impossibile catalogare le persone in rivolta. E poiché lo spettacolo andato in scena, con ogni evidenza, è solo l’inizio, tanto vale porsi interrogativi elementari, senza ambire a nessuna conclusione.

Chi sono i manifestanti oggi in Italia? Difficile dare loro un’identità nelle strade e nelle piazze, non potendolo fare nella società. La coscienza di classe, con lotte su obiettivi e temi comuni fu in grado di creare forme di aggregazione fino agli anni settanta, nell’attuale configurazione socioeconomica risulta oramai superata da meccanismi disgregativi quali individualismo, derisione per la marginalità sociale e corsa contro un potenziale nemico. Di fatto le classi continuano a esistere, ma manca la coscienza. Si è creduto che il consumismo fosse livellante, democratico, con l’operaio e il manager entrambi in fila al Mac drive, e invece il consumismo non ha cancellato le classi sociali, ha solo cancellato la percezione che le classi sociali hanno di se stesse, rendendole innocue rispetto ai dispositivi di potere. Né, d’altro canto, l’essere interconnessi e digitalizzati ci ha dato strumenti atti a sopperire alla mancanza di coscienza: non più gruppo, comunità, siamo “sciame”, per dirla con Byung Chul Han, intrappolati in un sempiterno presente, incapaci di praticare nella realtà un qualsiasi agglomerato che possa anche solo somigliare a un “noi”. E di fronte alle sparute categorie che ancora si riconoscono tali, come superare le forti implicazioni identitarie che ciascuna categoria inevitabilmente rivendica, come far confluire le rispettive minoranze in una maggioranza condivisa, come, in definitiva, trasformare le singole rivolte in una lotta sociale, dove non ci sia spazio per le infiltrazioni – che comunque, a onor del vero, sono sempre esistite e sempre esisteranno – ora che la pandemia ha fatto esplodere problemi latenti e riconducibili a cause assai precedenti al virus? Non potendo dare loro un volto uniforme, occorre analizzare le loro volontà, chiedersi cosa vogliono. Continua a leggere “In rivolta senza un volto”

Trump e Biden, due signori con i capelli tinti che si zittiscono a vicenda. (Mentre tutt’intorno, noi, assistiamo come le foglie d’erba di Whitman)

Trump e Biden
di Stela Xhunga
Il 30 settembre, alle 3 ora italiana, si è tenuto il primo confronto tv tra Donald Trump e Joe Biden. Comunque vada sarà un disastro. Uno ha 77 anni e raccoglie le speranze della massa in attesa del prossimo scandalo da sbandierare. L’altro ne ha 74 e colleziona scandali senza battere ciglio. Biden vincerebbe se lasciasse parlare solo l’altro, invece stanotte ha parlato, interrotto continuamente dall’avversario, tanto da perdere la pazienza e sbottare: “Will you shut up, man?”.

Intendiamoci, in un Paese come gli Stati Uniti, dove basta un niente per venire bollati come comunisti, e dove storicamente sono sempre esistiti due partiti, entrambi moderati, la destra liberista, e il centro liberale, che di tanto in tanto è colto da improvvisa pruderie sociale, il primo scontro tra Trump e Biden non poteva che ridursi a questo, a una prova muscolare intrisa di linguaggio bellico, dove l’altro è un nemico da zittire, screditare, ricorrendo a una retorica votata al pathos anziché al logos. Come dicono negli ambienti della finanza di New York, it’s an old boys club, un circolino dove ricchi e attempati signori bianchi giocano a farsi la guerra. Un’ora e mezzo di dibattito, diviso in sei temi – Corte Suprema, pandemia, economia, ambiente, sicurezza e tensioni razziali, regolarità del voto –, che secondo il sondaggio CNN hanno valso per lo sfidante democratico il favore di sei americani su dieci, con enorme sollievo di tutti noi, che sappiamo quanto le scelte di Trump si ripercuotano in Europa, in Italia, ovunque nel mondo. “Tutti sanno che il presidente Donald Trump è un bugiardo e un clown” ha detto Biden in riferimento all’Obamacare, la riforma sanitaria firmata il 25 marzo 2010 dall’allora presidente Barack Obama. Appena eletto, nel maggio 2017, Trump fece approvare dalla Camera dei Rappresentanti la richiesta di abrogazione totale dell’Obamacare, che passò con 217 sì e 213 no, e tuttavia non passò al Senato, nonostante questo sia a maggioranza repubblicana. Trump allora propose un’abrogazione parziale, ma nemmeno questa piacque al Senato, che declinò ancora, sia pure sul filo del rasoio, con 51 no e 49 sì. Con l’entrata in vigore della riforma, si stima che circa 32 milioni di americani indigenti, attualmente scoperti dall’assicurazione sanitaria, potrebbero accedere a cure mediche.

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Rossanda eretica ortodossa

Rossana Rossandadi Rino Genovese

Scompare Rossana Rossanda, carica di anni e generosi errori, e con lei se ne va un pezzo della storia della sinistra italiana. Ma non si dica, come peraltro avrebbe detto lei stessa, che questa sinistra sia finita “da sconfitta”. Sconfitta da chi? In quale guerra non dichiarata? Durante quale insurrezione mai intrapresa? Rosa Luxemburg o Che Guevara sono stati vinti sul campo. La stragrande maggioranza della sinistra italiana nel dopoguerra, compresa la piccola parte rappresentata da Rossanda e dai suoi, fu invece riformista da cima a fondo, sia pure con varie gradazioni e sfumature all’interno del riformismo. Tutt’al più si potrebbe parlare, come fece una volta Lucio Magri in riferimento alla componente ingraiana del Pci, dalla quale il gruppo del manifesto era uscito, di un “riformismo rivoluzionario”, indicando con ciò che s’intendeva puntare a una trasformazione sociale profonda, a un superamento del capitalismo. Ma riformisti in questo senso furono anche non comunisti come Riccardo Lombardi o quel Vittorio Foa con cui il gruppo del manifesto tentò per un tratto di fare causa comune, fallendo poi a causa del solito settarismo.

“La rivoluzione non è la presa del palazzo d’Inverno” era uno degli slogan con cui Rossanda e i suoi si presentarono come dissidenti, e tuttavia a loro modo continuatori, del partito da cui vennero cacciati: con ciò esprimevano la lontananza dall’idea di una presa del potere mediante un colpo di mano di tipo bolscevico, sulla nozione di “dittatura del proletariato” preferendo sorvolare. Un altro slogan era “dallo stalinismo si esce da sinistra”, volendo significare che non ci si sarebbe dovuti adagiare in una pura e semplice pratica di cogestione del capitalismo, sostanzialmente socialdemocratica, come veniva facendo il Pci sulla base del modello emiliano. Tutto ciò veniva fuori comunque dall’alveo della tradizione comunista e del pensiero gramsciano, di cui si sottolineava il momento democratico consiliare (già criticato dall’ultrabolscevico Bordiga) e quello delle “casematte” del potere, che rinviavano appunto a un’idea di rivoluzione come lungo processo e non come “guerra di movimento”. Un gramscismo alla Togliatti – che per parte sua aveva tenuto fermo al mito dell’Unione Sovietica e, al tempo stesso, ne aveva negato il carattere universale con la ricerca di una via democratica al socialismo – era quello su cui Rossanda e i suoi purtuttavia non cessavano di appoggiarsi quando decisero di rompere gli indugi e dichiarare fallito il cosiddetto socialismo reale dei paesi dell’Est europeo, cominciando però a flirtare con l’altro modello che si delineava in quegli anni, quello della Cina maoista, di cui Rossanda, ancora in anni recenti, negava il carattere stalinista, oggi del tutto palese al retrospettivo sguardo storico.

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In morte di Rossana Rossanda

Rossana Rossandadi Stela Xhunga

La ragazza del secolo scorso si è spenta nella propria abitazione a Roma, aveva 96 anni. Una perdita non solo per i lettori del manifesto. Non solo per i comunisti, per chi lo è stato, per chi lo è ancora, nonostante tutto. Stavolta la faziosità, la retorica, non c’entrano, non c’è spazio per la bagarre politica. Il primo tributo in rete, via Twitter, lo ha scritto l’onorevole Guido Crosetto, attuale coordinatore nazionale di Fratelli d’Italia: “È morta Rossana Rossanda, comunista vera, con cui ho avuto il piacere di parlare alcune volte. Ero affascinato dai racconti sulla discussione interna al Pci in merito all’Urss. Era una donna affascinante perché durissima e rigorosa, ma con rispetto.”

Del resto è difficile anche solo ipotizzare faziosità nei riguardi di una figura capace di radicale dissenso al punto da farsi radiare dal Pci nel 1969. Con Lucio Magri, Luigi Pintor e Valentino Parlato aveva fondato il manifesto, prima rivista, poi quotidiano. C’è chi l’ha chiamata eretica. Criticò le leggi speciali antiterrorismo, difese Adriano Sofri, firmò il manifesto a sostegno di Enzo Tortora. Sua l’impresa, fino ad allora fallita dai suoi colleghi uomini, di far parlare il capo delle Brigate Rosse, Mario Moretti, sul caso Moro in un’intervista. Il 28 marzo 1978, in pieno sequestro, Rossana Rossanda ebbe l’ardire di scrivere: “Chiunque sia stato comunista negli anni cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia”. Non era certo un giudizio positivo sulle Br, era la restituzione, in piena onestà intellettuale, dei fatti alla realtà storica. Calare i fatti nella storia richiede uno sforzo notevole, e lei fu in grado molte volte di compierlo. Non conformista, non scontata, rigorosissima, incuriosita dai suoi interlocutori ma mai fino in fondo persuasa. Chi l’ha conosciuta giura che bastava un aggettivo mal posto per farla intervenire a correggerlo. Perché dire una cosa in un’altra maniera equivale a dire un’altra cosa, e con le parole, come con la politica, ci vuole rigore. Un rigore che applicava con piglio cartesiano, firmando editoriali sferzanti, limpidi, mai compromissori, in un’Italia ancora oggi troppo presa dall’idolatria per Montanelli per meritarsi una Rossanda.

La ragazza del secolo scorso lascia un vuoto che riguarda il campo individuale, civile, prima ancora che politico. Un vuoto tanto più impossibile da colmare con gli attuali figuranti da quattro soldi che abbiamo in parlamento. Lei stessa, due anni fa, riguardo alla decisione di tornare a vivere in Italia, disse: “Ho deciso di tornare in Italia, assalita dal bisogno di capire. Da Parigi, dove vivevo da dodici anni, seguivo Salvini in tv e mi prendeva vergogna per quel che vedevo. ‘È anche colpa mia, colpa della nostra parte’, mi ripetevo. Avevo passato la vita a fare politica e reputavo la mia lontananza come un abbandono del campo”.

Questo l’incipit dell’autobiografia La ragazza del secolo scorso che pubblicò con Einaudi nel 2005: “Non ho trovato il comunismo in casa, questo è certo. E neanche la politica. E poi dell’infanzia non ricordo quasi niente, e poco dei primi sette anni nei quali – secondo Marina Cvetaeva – tutto sarebbe già compiuto. Non ho nostalgie di un’età felice né risentimenti per lacrime versate nella notte. Dev’essere stata un’infanzia comune, affettuosa, un’anticamera, una crisalide dalla quale avevo fretta di uscire per svolazzare a mo’ di farfalla”.

Bella ciao, compagna, eretica, irreprensibile farfalla.

Tolleranza religiosa e legame nazionale in Albania

di Stela Xhunga

In Albania si beve molto caffè. Lo si fa tendenzialmente al bar, a qualsiasi ora. Accade di bere un caffè con una persona e scoprire che è di religione musulmana perché a un certo punto si alza e se ne va, deve andare a pregare. Poi magari la si rincontra al fianco del consorte, e sempre casualmente si scopre che l’altro è di religione ortodossa, o cattolica. Accade allora che il forestiero rimanga sorpreso, e chieda loro come abbiano fatto a sposarsi, a quel punto seguono l’occhiata divertita da parte dei due e una risposta, che solitamente suona così: “Che domanda! facendo festa per tre giorni, come tutti”. La coabitazione religiosa e la sostanziale assenza di conflitti tra cattolici, ortodossi, musulmani e bektashi in Albania è qualcosa di sorprendente, specie se raffrontato ai conflitti etnico-religiosi nel resto della regione balcanica, ma rappresenta un’eccezione anche rispetto a buona parte dei cosiddetti paesi progressisti dell’Europa. Durante la seconda guerra mondiale, le istituzioni albanesi rifiutarono le leggi razziali e non consegnarono nessuno degli ebrei presenti sul territorio, né ai fascisti italiani né ai nazisti tedeschi. Non solo, molti cittadini albanesi offrirono identità false e nascosero gli ebrei provenienti dai paesi dove erano invece perseguitati.

In Albania la nazionalità prevale sulla religione, e non da oggi: già nel 1909, il giornalista francese Gabriel Louis-Jaray osservava come “il legame nazionale, in Albania, è assai più forte delle divisioni religiose”. Un legame che nel 1878 il poeta risorgimentale Pashko Vasa, in un passaggio della sua poesia O moi Shypni, cantava così: “O albanesi, vi state uccidendo tra fratelli / vi siete divisi tra cento gruppi armati / alcuni dicono io ho la fede / altri dicono io ho la religione / uno dice sono turco, l’altro sono latino / io dico sono greco, alcuni altri io sono serbo / ma voi siete tutti fratelli, o sventurati!”. Un legame propiziato da Giorgio Castriota, detto Scanderbeg, Gjergj Kastrioti Skënderbeu in albanese. Figlio di Giovanni Castriota, principe di Croia, ribelle agli ottomani, che perciò catturarono e tennero in ostaggio ad Adrianopoli i quattro figli Stanisha, Reposh, Costandin e lui, Giorgio, che prima di diventare eroe nazionale e guadagnarsi i titoli di “difensore impavido della civiltà occidentale” e “atleta di Cristo” per avere difeso l’Europa dall’avanzata ottomana, si formò presso la corte del sultano, guadagnandosi per altro la sua amicizia. Continua a leggere “Tolleranza religiosa e legame nazionale in Albania”

Il Mes, pregi, difetti, misteri

Mesdi Piero S. Graglia

Gli ultimi mesi sono stati dominati dalla questione se sia opportuno, conveniente, utile o dannoso ricorrere ai fondi disponibili nell’ambito del Mes. Contro di esso si sono levate voci che hanno usato termini roboanti sia contro (schiavitù, asservimento, danno irreparabile) sia a favore (grande occasione, opportunità da cogliere, salvagente risolutivo). Il tutto in un’accesa polarizzazione dei giudizi che ben presto si sono trasformati in manifestazioni di fede. Nel clima da tifo sportivo che si è creato intorno al Mes, riesce sempre più difficile depurare tale tifo dalle argomentazioni precise. Prima di tutto, quindi, conviene risalire alle fonti.

Il Mes, acronimo italiano dell’inglese European Stability Mechanism (Meccanismo europeo di stabilità), viene firmato come trattato intergovernativo il 2 febbraio 2012 tra i 17 Stati dell’eurozona ed è entrato in vigore dopo la fine del processo di ratifica nell’ottobre 2012. Successivamente alla firma, all’area euro si sono aggiunti altri due Stati, il che porta a 19 gli attuali firmatari. Esso, pur appoggiandosi per il suo funzionamento alle istituzioni dell’Unione europea (in particolare la Commissione europea), non fa parte del sistema normativo dell’Unione, ma si configura come un classico trattato internazionale stipulato da una parte consistente dei Paesi che fanno parte dell’Unione, in particolare quelli che aderiscono al sistema della moneta unica. Se si parla del Mes non si può però ignorare l’altro corno del problema, che è il Trattato sulla Stabilità, il Coordinamento e la Governance dell’Unione monetaria, chiamato spesso, per brevità, Fiscal compact. Anche quest’ultimo si pone alla nascita al di fuori del quadro normativo dell’Unione. In effetti solo presi insieme i due accordi riescono a restituire il pieno senso della loro esistenza: anche perché il Mes viene firmato il 2 febbraio del 2012, mentre il Fiscal compact appena un mese dopo, nel marzo dello stesso anno.

Sia il Fiscal compact sia il Mes rispondono a una logica ben precisa: garantire quella stabilità e coerenza di politiche economiche e fiscali che un sistema che vede coesistere una moneta unica in presenza di ben 17 (oggi 19) diverse politiche di bilancio e fiscali non può garantire. Infatti ciascuno dei 19 i Paesi della cosiddetta area euro presenta diverse politiche di spesa pubblica, di intervento nell’economia, diverse politiche di gestione del debito pubblico, diversa fiscalità. Il rompicapo al quale si voleva dare una soluzione era cercare di organizzare una gestione comune dell’economia interna, diversa da Stato a Stato, in assenza di meccanismi distributivi e soprattutto in assenza di un governo unico dell’economia dell’eurozona. Appare evidente che se si abbandona l’atteggiamento ottimista fondato sulla “buona volontà” dei diversi governi, la gestione di una moneta unica richiede strumenti unici di gestione della spesa pubblica e del debito, nonché di controllo del deficit e delle attività della Banca centrale; strumenti che non possono essere sostituiti da impegni verbali o promesse, ma richiedono, in mancanza di un sistema di tipo federale o comunque unitario, sistemi di controllo “forzoso”.

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Si può dire no alla riduzione del numero dei parlamentari ma sì all’“election day”?

election daydi Roberta Calvano

Si può essere nettamente contrari alla proposta di legge di revisione costituzionale di riduzione del numero dei parlamentari ed essere tuttavia favorevoli all’accorpamento della votazione sul referendum costituzionale ad essa relativo con le elezioni amministrative del 2020? A mio avviso sì, e dico subito che reputo tale posizione la più compatibile con il dettato costituzionale, per le ragioni che cercherò di spiegare brevemente.

Il presidente della Repubblica e il ministro dell’Interno hanno firmato nei giorni scorsi i decreti1 con cui si indicono – accorpandole – le votazioni per il referendum costituzionale, le suppletive in due collegi uninominali per il Senato, le elezioni dei consigli regionali e dei presidenti di sette regioni (Campania, Veneto, Puglia, Toscana, Liguria, Marche, Valle d’Aosta) e le amministrative (comunali e circoscrizionali) in più di mille comuni, tra cui quattordici capoluoghi di provincia e quattro di regione. Si ricorderà che il referendum costituzionale avrebbe dovuto svolgersi già nel marzo scorso e che la legge di revisione, che attende l’esito del referendum per essere promulgata – o finire nel cassetto delle tante iniziative di revisione costituzionale non andate in porto –, è stata approvata in via definitiva l’8 ottobre 2019.

Nelle ultime settimane si sono levate critiche contro questa scelta di accorpamento delle date delle tornate elettorali con quella del referendum. Le obiezioni mosse fanno leva principalmente sulla peculiare rilevanza del referendum costituzionale, che richiederebbe quindi una data a sé, sottolineando la necessità che l’elettore non sia portato a compiere una scelta non pienamente consapevole, data la difformità/disomogeneità delle scelte affidate alle urne in quella data. Si è poi lamentata la diversa potenziale distribuzione dell’affluenza sul territorio nazionale in ragione dell’indizione delle elezioni regionali solo in una parte del territorio nazionale, e infine l’inadeguatezza dei tempi a disposizione dell’informazione sul referendum costituzionale per produrre un’adeguata consapevolezza nell’elettore sulla questione, se uniti a quelli della propaganda sulle altre scadenze elettorali.

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Dopo il virus. Osservazioni critiche sull’odierna “critica critica”


di Rino Genovese

Si sente spesso ripetere che la recente pandemia avrebbe approfittato della globalizzazione per diffondersi nelle grandi aree metropolitane del mondo. Ciò non fa che registrare un dato: la velocità con cui si è propagato il virus è il frutto dell’intensificazione dei traffici commerciali, della delocalizzazione della produzione industriale, del turismo di massa, e così via. Ma tutto questo, pur vero, non mette a fuoco un aspetto essenziale. Che è il seguente: le epidemie hanno flagellato la storia dell’umanità nel corso dei secoli, magari con più lentezza ma inesorabilmente. Tuttavia da molti decenni non sembrava più possibile qualcosa di così devastante, almeno nello sviluppato mondo occidentale. A voler richiamare il concetto di “società del rischio”, introdotto da Ulrich Beck, ci troveremmo sfasati: perché quella nozione si riferiva piuttosto al rischio nucleare ed ecologico in senso lato, non alla ripresa di un tipo di devastazione che sembrava far parte del passato. Invece la sorprendente novità dell’epidemia consiste proprio nel suo carattere arcaico. Essa è una delle forme in cui il passato ritorna nel presente, mettendo una volta di più fuori causa, se ancora ve ne fosse bisogno, la nozione di un progresso univoco e lineare. Si potrebbe dire (al netto di ogni tesi insulsamente complottista), è la natura che si ripropone nella cultura in quanto suo ineliminabile retroterra. Si tratta di una natura che, mostrando la sua smorfia terribile, si fa beffe della cultura – ma così rientrando in essa come un aspetto ancora una volta proprio della cultura. E di conseguenza come un oggetto interno allo stesso dibattito politico.

Ha dunque pienamente ragione Aldo Garzia, nell’articolo pubblicato nella sezione “commenti” di questo stesso sito, a sostenere che il virus spinge a ripensare alcune delle nostre categorie politiche fondamentali, a cominciare dal nesso tra i diritti e la libertà. C’è un momento “libertario” nel liberalismo dominante che è del tutto vuoto, ed è altra cosa dalla “libertà sociale” propria del socialismo. Il primo si lascia riassumere nel diritto a una libertà di movimento astratta: un individuo non può essere trattenuto in alcun modo se non quando violi la libertà altrui: per esempio nel caso di un’aggressione fisica a un altro individuo, o anche quando metta in questione il “diritto soggettivo” di questi, come può essere il diritto di proprietà, entrando, poniamo, nel suo giardino senza permesso. Ma che questa libertà – detta “negativa” in quanto consiste nel non ledere il diritto altrui – possa essere limitata in senso “positivo”, come quando si tratti di salvaguardare la salute di una collettività colpita da un’epidemia, questa libertà sociale, orientata non a un diritto individuale astratto ma in questo caso a una più concreta “questione di vita o di morte” che riguarda tutti, è vista come qualcosa d’insopportabile dagli esponenti di un liberalismo estremo. E appare altrettanto insopportabile – occorre sottolinearlo – secondo la prospettiva anarco-individualista (neo-stirneriana, la si potrebbe definire) di una parte dell’odierno pensiero cosiddetto critico.

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Nota sulla pandemia

Branko Milanovicdi Nicolò Bellanca

In articolo esemplare per lucidità di pensiero e chiarezza espositiva, Branko Milanovic argomenta che l’attuale pandemia non consente di effettuare previsioni economiche. Oltre ad avere natura globale, la pandemia è un fenomeno indeterminato e incontrollabile.

“Nessuno sa quando la pandemia finirà, come influenzerà i diversi paesi, e persino se pensare a una fine chiara e improvvisa della pandemia abbia addirittura senso. Di fatto, potremmo vivere per anni con politiche di stop-and-go, dove i movimenti per aprire l’economia sono seguiti da riacutizzazioni dell’infezione e poi da nuove chiusure e blocchi. Non abbiamo idea non solo di quali paesi e continenti saranno prossimamente colpiti dalla pandemia e se ci sarà una seconda ondata, ma neanche possiamo prevedere con quale successo i singoli paesi la sapranno contenere. Nessuno avrebbe previsto che un paese con le più alte spese sanitarie procapite al mondo, e con centinaia di università che esibiscono dipartimenti di sanità pubblica e pubblicano probabilmente migliaia di ricerche scientifiche all’anno, avrebbe completamente fallito nel controllo della pandemia e realizzato il più alto numero dei casi e delle vittime. Similmente, molto pochi avrebbero previsto che il Regno Unito, con il suo leggendario Servizio Sanitario Nazionale, sarebbe stato il primo in Europa come numero di morti. O che il modestamente benestante Vietnam avrebbe avuto zero morti dalla pandemia”i.

Se riconosciamo i due caratteri appena menzionati – natura globale e incontrollabile – della pandemia, come possiamo spiegarne la genesi? Due mi sembrano gli schemi principali. Il primo la concepisce come una catastrofe ecologica, basata sull’intreccio tra depauperamento ambientale, globalizzazione capitalista e promiscuità di animali e umani. I virus causano malattie soltanto quando muta il loro rapporto con la popolazione ospite, animale o umana. Ebbene, il riscaldamento climatico rende più forti e persistenti alcuni agenti patogeni; l’urbanizzazione di zone selvagge, nonché la caccia e il consumo di fauna selvatica, avvicinano l’uomo ad animali portatori di potenziali infezioni; l’ammassarsi di grandi quantità di animali negli allevamenti di tipo iper-intensivo, con difese immunitarie indebolite dalle condizioni igieniche e alimentari, può incubare malattie; gli ecosistemi locali vengono spesso sconvolti dall’espansione dell’industria agroalimentare; le migrazioni e il turismo globale creano le condizioni ideali per la diffusione del contagio in ogni angolo del pianeta. Questi intrecci rendono plausibile l’idea di un’antropogenesi, ossia di una causazione umana, delle malattie provocate da zoonosi.

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Diritti, welfare e socialismo al tempo del coronavirus

di Aldo Garzia

Resta rischiosa la totale riapertura delle attività economiche e della mobilità. Bisogna provare a convivere con il Covid 19 perché l’economia e l’Italia non ce la fanno più, è stata l’obiezione a chi dubitava. Molto di quello che accadrà nei prossimi mesi sarà dunque affidato ai comportamenti individuali e collettivi, oltre che alle normative che si adotteranno. Sapremo autodisciplinarci seguendo le norme semplici di prudenza della convivenza con il Coronavirus?

L’alternativa sicurezza/libertà è particolarmente bruciante. Sapendo che in questa fase “più libertà” vuol dire “meno sicurezza” e “meno salute”. Non si scappa. Dovremo abituarci a convivere perciò con il Covid 19 e con questa contraddizione che impone inevitabilmente un ripensamento della coppia diritti/libertà. C’è tuttavia da fare i conti con la diffusa insofferenza verso le norme che consigliano il divieto di assembramento, per non parlare di quelle dei mesi scorsi: limitazioni alla libertà di movimento, distanziamento sociale, quarantena obbligatoria, lockdown. Si trattava di misure eccezionali motivate dal Covid 19 e dalla ricerca di un difficile equilibrio tra diritti individuali e diritto alla salute. Forse sarebbe meglio parlare però di “diritto alla vita” tout court. L’insofferenza verso la compressione delle libertà si spiega con la diffusa introiezione della categoria di “libertà” intesa quasi esclusivamente come problema individuale al di fuori del contesto in cui si esercita (questa volta eccezionale). È il singolo che fa problema, non la collettività, in questa nostra società dell’individuo consumatore.

Anche nel dibattito italiano ha fatto presa una concezione anglosassone delle libertà come tema che riguarda essenzialmente i singoli. Ci siamo “americanizzati” teoricamente.

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L’Italia s’è Destà?

di Stela Xhunga

La statua di Indro Montanelli è lì, ripulita dalla vernice e dalla scritta “razzista stupratore”, un telo di cellophane tutt’intorno e del guano sopra. Un buon compromesso da cui partire per abbozzare un ragionamento che superi le pose da bodybuilders degli intellettuali in scena da settimane. Da una parte, quelli di destra, per lo più nipotini spuntati dalla manica di Montanelli, forti di quel tanto al chilo di tirocinio nei giornali “quando c’era lui” a dirigerli, il giusto per dire “sono della scuola di Montanelli”, posizionarsi, e vivere di rendita; dall’altra, quelli di sinistra, incapaci di qualsiasi tipo di azione incisiva contro, uno a caso, il Decreto Sicurezza ancora in vigore. Tutti parimenti iperproiettivi, accaloratissimi, famelici intorno a una statua. Deve stare lì dove sta, scandiscono con tono fintamente blasé i cosiddetti liberal. Va abbattuta, dicono gli altri. E come biasimarli. Mentre si trovava in Etiopia in veste di militare e colonizzatore fascista, Montanelli ha stuprato una bambina eritrea dodicenne venduta dalla famiglia, sposandola secondo la pratica del “madamato” che permetteva ai cittadini italiani nelle colonie di accompagnarsi temporaneamente con donne native, facendo attenzione affinché dall’unione non ne nascesse un figlio. (Solo con la promulgazione delle leggi razziali e del RdL n. 880 del 19 aprile 1937, con le “Sanzioni per i rapporti di indole coniugale tra cittadini e sudditi in virtù della protezione della razza italiana”, il fenomeno del madamato si arrestò). Il modo in cui Montanelli parlava di Destà, non su un bollettino fascista nel 1930, ma sul Corriere della sera nel 2000, solo vent’anni fa, è semplicemente aberrante:

Faticai molto a superare il suo odore, dovuto al sego di capra di cui erano intrisi i suoi capelli, e ancor di più a stabilire con lei un rapporto sessuale perché era fin dalla nascita infibulata: il che, oltre a opporre ai miei desideri una barriera pressoché insormontabile (ci volle, per demolirla, il brutale intervento della madre), la rendeva del tutto insensibile.

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