Un’intervista a Stefano Ciccone

di Manuela Bianchi

Il 25 novembre, Giornata mondiale della violenza contro le donne, funestata da altri due femminicidi, uno in Calabria e l’altro in Veneto, che si aggiungono agli ottantuno registrati dal VII Rapporto Eures (Rete di cooperazione Europea) sul femminicidio in Italia dall’inizio dell’anno, abbiamo voluto trattare l’argomento guardandolo dalla prospettiva di quegli uomini che si mettono in discussione e intraprendono un percorso di autocoscienza promuovendo una riflessione individuale e collettiva, partendo dal riconoscimento della propria parzialità e dalla valorizzazione delle differenze. Abbiamo quindi fatto una chiacchierata con Stefano Ciccone – autore di Il legame insospettabile tra amore e violenza (C&P Adver Effigi, 2008) scritto con Lea Melandri, di Essere maschi. Tra potere e libertà (Rosenberg & Sellier, 2009) e ancora di Maschi in crisi? Oltre la frustrazione e il rancore (Rosenberg & Sellier, 2019) – membro dell’Associazione nazionale Maschile Plurale, che ha contribuito a far nascere nel 2007.

Come si forma l’esperienza dei gruppi di autocoscienza maschile?

Da due percorsi, uno prettamente politico, come il movimento per la pace, partendo dalla critica alla violenza nella politica dopo il 1977; l’altro dal mondo religioso, in particolare dai gruppi maschili istituiti dalla comunità valdese, nati sul tema della violenza e poi caratterizzatisi per la messa in discussione della cultura maschile.

Oggi, in questa data simbolica che stigmatizza la violenza dell’uomo sulla donna, di fronte al bollettino che scandisce una donna uccisa ogni tre giorni in Italia, ci chiediamo ancora una volta da dove nasce questa violenza…

Il discorso pubblico sulla violenza rischia di proporre quest’ultima come disordine sociale, in cui gli uomini non sono capaci di accettare la frustrazione. In realtà la violenza sulle donne esisteva anche ai tempi dei nostri nonni, laddove le dinamiche familiari erano chiare, quando l’uomo portava i soldi a casa e la donna era accogliente e dedita alle cure familiari. Fino al 1975, con il vecchio diritto di famiglia, la violenza dell‘uomo (capofamiglia) verso la moglie era legittimata, la donna andava “educata”. Un aspetto questo che ritorna nella violenza attuale maschile, che ha anche una presunzione di ruolo educativo. Possiamo dire che la violenza maschile è frutto di una cultura strutturale millenaria. È il segno di come questi modelli tradizionali si riproducano in una società avanzata, in cui gli uomini continuano a riproporre quel riferimento culturale, anche in presenza dei cambiamenti epocali attuati dalle donne. Gli uomini vivono uno scollamento dalla realtà sociale, una realtà contraddittoria. I ruoli tradizionali che vedevano nel maschio chi portava i soldi a casa, chi seduceva, chi si aspettava un’accoglienza calorosa nel focolare domestico, si scontrano con una realtà femminile emancipata.

Va considerato anche come il maschile oggi abbia una centralità politica, le destre fanno leva sulla frustrazione maschile (vedi Trump, Bolsonaro, la destra italiana, il revanscismo islamista radicale) raccontando la caduta del mito del cittadino autosufficiente e produttivo, del neoliberismo. Quel mito che con la crisi del 2008 si è ribaltato nel suo opposto: se hai fallito è colpa tua. Così l’uomo licenziato, che non trova lavoro, va in crisi perché perde la propria identità, facendo sì che tutte le spinte revansciste maschili, oggi, si basino sul vittimismo. Ma la frustrazione maschile è data anche dalla colpevolizzazione che viene dalle donne e dal femminismo.

Parlando degli ultimi tempi, è cambiato qualcosa nelle relazioni uomo-donna con lo scoppio del coronavirus, che ha fatto registrare un innalzamento della percentuale di femminicidi entro le mura domestiche?

Il virus ci dimostra che siamo tutti vulnerabili, e con esso si rompe il mito maschile del “non ho bisogno di nessuno”. L’uomo è a casa, non si può realizzare socialmente, è sorpreso nel riconoscere la dimensione di cura nella quotidianità, appannaggio femminile, ed è costretto a fare i conti con la realtà che gli dimostra che da solo non può farcela, che non è padrone di se stesso.

Quindi cosa ha svelato la pandemia?

La non naturalità di ruoli e attitudini maschili e femminili. Quando rendiamo visibili le regole che abbiamo naturalizzato, andiamo verso l’aggressione delle dinamiche relazionali e psicologiche che portano l’uomo a fare violenza. Ma nel percorso verso la consapevolezza, mentre il mutamento femminile è stato determinato anche da una pratica politica, il modello maschile tradizionale, in mancanza di una riflessione politica, non riesce a evolversi. Chiedere solo un’assunzione di responsabilità non basta, serve costruire collettivamente, come uomini, parole socialmente riconosciute che diano voce al maschile, creando una consapevolezza e una narrazione diverse che scongiurino un ritorno al passato.

Da cosa dovrebbe scaturire questa costruzione collettiva di consapevolezza?

La pratica maschile dovrebbe nascere dai gruppi sparpagliati di uomini che fanno questo percorso, ma non è sufficiente. Oggi molti ragazzi partecipano alle manifestazioni delle donne, si dovrebbe chiedere loro perché ci vanno, ma non hanno riferimenti per provare a fare questo passaggio. La consapevolezza maschile andrebbe riconosciuta e valorizzata magari nel rapporto con il movimento delle donne, che è di massa, radicato e presente.

In attesa di tempi migliori, quali iniziative, a tuo avviso, dovrebbero venire prese per arginare la violenza sulle donne?

Gli uomini continuano a essere identificati come emergenza e patologia che richiede repressione, non discussione. Le campagne sulla violenza parlano delle donne seguendo un cliché: il problema riguarda esclusivamente le donne, l’immagine del femminile viene associata al bisogno di protezione secondo il modello paternalista maschile: tutto questo non decostruisce la violenza. Andrebbe invece valorizzata di più la soggettività delle donne che non vanno dipinte solo come vittime. Andrebbero coinvolti nelle campagne di sensibilizzazione i vicini, i parenti, i colleghi perché denuncino le violenze. Andrebbe chiesto agli uomini di fare una riflessione.

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.