Vita tranquilla di Emanuele Castrucci

facebookdi Rino Genovese

Alla fine lo hanno semplicemente sospeso dall’insegnamento a Siena. Neppure il suo profilo Twitter è stato chiuso, perché, almeno secondo una certa interpretazione, la Costituzione italiana vieta la rifondazione del partito fascista ma non l’espressione di simpatie naziste e idee antisemite. Si chiama Emanuele Castrucci, professore di provincia già sconosciuto ai più, che ha avuto la sua ribalta nazionale, il suo quarto d’ora di celebrità, grazie ai nuovi media. Adesso avrà una sua piccola corte di supporters. E immagino che anche questo mio pezzo su di lui gli farà piacere.

Una ventina d’anni fa ebbi modo di andare a colazione con lui per iniziativa di un amico comune che volle metterci in contatto. Si mimetizzava ancora. Non lo si sarebbe detto proprio un seguace di Hitler ma uno che, interessato al pensiero di destra, poteva dialogare a sinistra: come molti di quelli che studiano il  giurista e filosofo nazista Carl Schmitt, o quegli altri che, abbagliati da Heidegger, evitano di misurarsi con il fatto che il suo profondo pensiero era in larga misura una trascrizione dell’ideologia nazionalsocialista. Non mi riuscì simpatico: lo presi come uno dei tanti personaggi universitari imbottiti di erudizione ma dalla testa confusa. Cercò di attirarmi un po’ sul suo terreno, perché aveva letto qualcosa di mio e sapeva che sono un critico dell’universalismo illuministico. Solo che io lo sono dall’interno, cioè nella forma di un’autocritica dell’illuminismo, non in quella di chi, buttando via il bambino con l’acqua sporca, vorrebbe ancorare l’intera vita sociale e politica alle tradizioni, alle radici, a un presunto ethnos dell’Occidente, che essi vedono di volta in volta minacciato dai complotti del cosmopolitismo ebraico e della massoneria, o più di recente dal fenomeno dell’immigrazione (che, nella mente di alcuni allucinati, sarebbe la conseguenza di una specie di macchinazione su scala mondiale).

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E se fosse l’Europa ad avere bisogno dei Balcani?

Balcanidi Stela Xhunga

L’Albania conta meno di tre milioni di abitanti, la Macedonia del Nord due milioni e qualche manciata. «Ci vuole più integrazione e più coerenza», ha detto il presidente francese Emmanuel Macron, l’unico ad avere posto il veto sull’ingresso dei due Paesi nell’Unione europea lo scorso ottobre. Se già oggi ci sono evidenti problemi di funzionamento a 27, ha aggiunto, «come possiamo pensare che andrà meglio a 28, 29, 30 o 32?». Una posizione che oltre a marcare la distanza dai valori liberali e solidali fondativi dell’Unione europea, denota non poca miopia rispetto agli scenari possibili. L’Unione dopotutto non si è spezzata davanti alla crisi finanziaria del 2008, alla crisi di solidarietà per la gestione di notevoli flussi migratori, e nemmeno alla Brexit. Che si spezzi cadendo sui principi di inclusione e federalismo da cui è nata sarebbe, francamente, uno smacco.

È vero, in Albania la riforma della giustizia promossa dal governo socialista di Edi Rama procede a rilento. Senza nemmeno una Corte costituzionale è difficile vincere la lotta alla corruzione e al crimine organizzato, forse è per questo che si cerca di osteggiare la riforma in tutti i modi. «Rama corrotto, rivogliamo elezioni anticipate, rivogliamo Berisha» hanno urlato per mesi, tra vetrine rotte e minacce di incendi, alcuni manifestanti del tutto dimentichi che fu proprio Sali Berisha, a capo del partito di centrodestra, a essere travolto dallo scandalo di corruzione nel 2013. Secondo i dati di Transparency International, l’organo che dal 1995 incrocia i dati ufficiali e pubblica annualmente gli indici di percezione della corruzione di ciascun Paese, l’Albania è il Paese più corrotto dell’intera regione dei Balcani. È anche uno dei maggiori produttori di marijuana al mondo, comprensibile che Francia e – vedi caso – Olanda esprimano il timore di «agevolare tanto l’infiltrazione mafiosa di questi gruppi nel contesto europeo quanto i loro affari, come il traffico di marijuana». Instillare disillusione e rancore nei confronti dell’Europa in una terra così cruciale come i Balcani, tuttavia, è un grave rischio. I motivi si possono riassumere in sole tre parole, per altro così connesse da essere potenzialmente intercambiabili: migranti, Turchia, armi.

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La lotta di classe non è finita. Per un discorso sull’ecologia politica

Ecologia

di Enzo Scandurra

In origine il termine “ecologia” (Haeckel, 1873) stava a indicare la relazione generale e al tempo stesso intima che lega il vivente al mondo del non vivente. Il termine “ecosistema” (coniato da Tansley nel 1935) si comprende nell’ambito dalla teoria generale dei sistemi di Ludwig von Bertalanffy, e può essere definito come un sistema (ecologico) composto di elementi biotici (tutti gli esseri viventi) e abiotici (rocce, oceani, catene montuose, fiumi) tra loro fortemente interconnessi tale che il tutto è maggiore della somma delle parti (a causa delle proprietà emergenti), attraversato da flussi di energia solare e finalizzato verso uno scopo (l’equilibrio della biosfera). Edgar Morin ha sostenuto che l’ecologia, all’origine, era una sorta di metadisciplina dal contenuto fortemente “trasgressivo” perché tendeva a mettere in discussione i saperi esistenti ingessati in discipline specialistiche e separate tra loro da steccati rigidi.

Con il tempo questa materia si è trasformata in disciplina, perdendo il carattere trasgressivo iniziale e costretta a confrontarsi con le altre discipline esistenti. Oggi è una delle tante materie di insegnamento universitario ed è entrata perfino nelle aule scolastiche al pari di altre discipline. Essa è stata poi riproposta con l’aggiunta di qualificativi, come deep ecology (Aerne Naesse, 1973), ecologia integrale (papa Francesco più di recente), per riacquistare e anzi estendere il proprio contenuto originario ad altre sfere non biologiche e per cercare di spiegare i conflitti in atto sul pianeta.

Le sempre più violente manifestazioni climatiche hanno messo in minoranza i negazionisti del riscaldamento del pianeta (ovvero della biosfera) e generato in tutto il mondo movimenti di giovani attorno al Friday for Future ed Extintion Rebellion. Il cambiamento climatico e l’estinzione rapida di specie animali e vegetali non sono ormai limitati a parti del pianeta ma hanno assunto un carattere planetario. Però l’indifferenza a tutto ciò non è solo dei negazionisti, dei politici cinici o indaffarati in ben altre cose, o degli scienziati pagati dai grandi gruppi che controllano le produzioni. Essa è anche il prodotto di una cultura diffusa basata sul falso presupposto che l’uomo potrà sempre superare ogni problema. La questione oggi, citando Roqueplo, non è più tanto quella di “dominare la natura” (il riduzionismo di Bacone e di molti altri scienziati del Seicento e Settecento), quanto quella di sopravvivere alle conseguenze di questo “dominio”, cioè “dominare” il nostro stesso “dominio”.

Tuttavia fenomeni come il cambiamento climatico e l’estinzione di massa non riescono a incidere sul comportamento dei governi planetari né quello dei poteri dominanti (agenzie transnazionali, ecc.) se non nel senso di tentare timidamente di orientare i prodotti e i consumi verso obiettivi di inefficace sostenibilità. Se anche oggi stesso (il che è del tutto irrealistico) le multinazionali che controllano la produzione, i grandi istituti finanziari e bancari, i gruppi di potere, i governi e i decisori politici, arrivassero a mutare rotta per tentare di ridurre gli effetti dei cambiamenti climatici e il degrado del pianeta, ne seguirebbe una crisi economica di enormi dimensioni che coinvolgerebbe l’intero pianeta. E ci vorrebbero decine di anni perché un’umanità ridimensionata e più allineata con la natura, riuscisse poi a trovare nuovi equilibri economici, sociali, politici.

Questo cambiamento (ammesso che si voglia veramente fare prima che l’apocalisse ambientale non finisca con il renderlo necessario) non può essere messo in moto da quegli stessi gruppi che per avidità e interessi ci hanno portato su questa strada. Lo stesso concetto di sviluppo sostenibile coniato nel 1987 dalla Commissione Brundtland (Our Common Future), è diventato uno slogan vuoto di senso: perfino le merendine per i bambini vengono definite sostenibili.

A ben vedere il conflitto scatenato contro la natura oggi può essere letto come un conflitto globale che sottende sempre più ogni conflitto economico, sociale, politico che attraversa il pianeta. Quali sono le ragioni che spingono i migranti dell’Africa (ipocritamente suddivisi in migranti economici e profughi di guerra) a rischiare la vita per approdare ai lidi dell’Occidente se non in primis la crisi climatica che desertifica le loro terre rendendole aride come un deserto? E perché la crisi economica innescata in tutto l’Occidente, trasformata in austerity, non accenna a essere superata come avveniva in passato ricorrendo a ricette classiche dell’economia? E quali sono le cause delle tante guerre sparse sul pianeta se non l’accaparramento delle risorse: acqua e petrolio. E quali le cause più vistose della crisi delle nostre grandi città se non quelle dei rifiuti, dell’inquinamento prodotti in parte dall’accoppiata petrolio/macchina, dal traffico caotico, ecc. E come spiegare il conflitto sempre più aspro tra produzione industriale e ambiente (si veda il caso di Taranto)?

Queste crisi non potranno mai essere superate se non si rivedono i modelli di produzione e consumo che hanno portato a tale disastro, il che cosa e il come produrre e consumare, e se non ci si allinea con la “produzione” della natura, rispettandone i cicli e le leggi.

I nuovi conflitti che sconvolgono tutte le categorie novecentesche note (lavoro, classe, produzione) devono essere letti alla luce della crisi ecologica che sconvolge il pianeta e che imporrà una revisione dell’economia. In tal senso dovremmo parlare di ecologia politica sia per indicare le necessarie misure da intraprendere a tempi medio-brevi per scongiurare la catastrofe climatica, sia per delineare nuovi orizzonti della politica non più ancella sottomessa all’economia. Presto o tardi gli indicatori economici con i quali misuriamo il benessere di una nazione (pil, debito sovrano, crescita) saranno delle scatole vuote, inefficaci per misurare la necessaria transizione alla riconversione dell’economia in direzione ecologica.

Carlo Bordini uomo dei bordi

Difesa berlinesedi Maria Borio

Difesa berlinese di Carlo Bordini, uscito per Sossella, è un libro che pone il lettore in una dimensione in cui tutto è inaspettato e che, senza voler trarre mai una morale, ci fa entrare in alcuni momenti cruciali della storia e della politica del Novecento. Siamo di fronte a un’autobiografia che ha anche il passo del romanzo e del saggio. Ci sono la vita e la psicologia di un uomo nato alle soglie dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale – Bordini è classe 1938 – e ci sono l’Italia e l’Europa degli anni Sessanta, degli anni Settanta, del Duemila. Il privato e il pubblico serpeggiano di pari passo, a volte si sovrappongono, a volte sono in contrasto. Una narrazione intima, subliminale si incastra sempre con una di superficie, collettiva. L’effetto è interessante. Il primo motivo è che la combinazione di queste due narrazioni rende Difesa berlinese anche un libro di poetica, in cui ci è consegnata una visione sulla vita e sul ruolo dell’intellettuale e del militante politico nel secondo Novecento. Questa visione è il risultato di un lavorio di diversi decenni. Come I costruttori di vulcani, la raccolta che racchiude le poesie di Bordini dal 1975 al 2010, anche Difesa berlinese riunisce prose precedenti: Memorie di un rivoluzionario timido (iniziato nel 1976 e pubblicato nel 2006), Gustavo. Una malattia mentale (prima versione scritta nella seconda metà degli anni Ottanta e pubblicato nel 2006) e Manuale di autodistruzione (scritto tra il 1993 e il 1994, pubblicato nel 1998) – il primo è un memoir in prima persona, il secondo potrebbe essere una sua versione narrativa per frammenti in terza persona, e il terzo è una specie di prontuario che, come un distillato sapienziale degli altri due, contiene delle massime di comportamento il cui tono può far pensare al libro dell’I-Ching.

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Vecchie convinzioni, nuovi razzismi: problemi di indagine e prospettive di sviluppo

Razzismodi Cristina Vincenzo

Possiamo considerare il razzismo una vecchia storia? È ormai largamente condiviso che i neri non siano meno intelligenti dei bianchi, ma non sembra esserci altrettanto accordo su questioni che restano controverse. Ci si imbatte spesso, per esempio, in pareri discordi sull’integrazione scolastica. I genitori italiani possono temere che l’educazione dei propri figli sia rallentata dalla presenza dei figli degli immigrati nella stessa classe.  Il razzismo è oggi un concetto meno definito di un tempo, più sottile, contorto e in grado di penetrare perfino dentro culture che si autorappresentano come antirazziste e antifasciste. Entrambe queste affermazioni, tuttavia, fanno parte di reattivi psicologici in grado di riconoscere le nuove forme di razzismo[1]. Si deve tener conto della presenza di atteggiamenti e credenze intimamente razzisti in persone dotate delle migliori intenzioni, che aderiscono a valori egualitari, pronte ad autodescriversi come sostenitori dell’integrazione, e che rifiutano, almeno a un livello consapevole, qualsiasi ideologia discriminante.

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Sulla sindrome identitaria. Una ricerca tra interviste in profondità e questionari online

Sulla sindrome identitariaL’analisi empirica che sta conducendo il gruppo di ricerca sulla sindrome identitaria si sta sviluppando lungo due assi principali. Il primo, è finalizzato a indagare le forme di organizzazione civica dei cittadini di Roma Capitale. Questo asse della ricerca proverà ad analizzare il modo in cui la destabilizzazione degli assetti regolativi tipici delle democrazie liberali trovi nello spazio urbano una sua significativa proiezione. Le esperienze di organizzazione civica che attraversano i territori delle città sembrano infatti essere strettamente correlate alla crisi della governance urbana così come al restringimento e alla segmentazione dell’offerta pubblica di servizi. Di fronte a questo scenario le forme della mobilitazione societaria si presentano però come segnate da una costitutiva ambivalenza: se da un lato queste sembrano alludere a una riappropriazione democratica dello spazio urbano e a una risposta collettiva ai bisogni sociali, dall’altro lato sembrano muoversi nella direzione di un’ulteriore privatizzazione e chiusura identitaria del territorio. Recenti fatti di cronaca hanno messo in luce come attorno alla lotta contro il degrado, così come alla rivendicazione di maggiore “decoro” e “sicurezza” nei quartieri, passi spesso una concezione del territorio urbano come proprietà privata dei cittadini residenti: la stessa carenza dei servizi pubblici viene risolta con l’invocazione di un accesso esclusivo ed escludente alla cittadinanza sociale basato sull’appartenenza a una comunità identitariamente fondata.

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Napoli è il mondo


di Antonio Tricomi

[Articolo uscito sulla rivista on-line Fatamorgana]

«Il caos della plebe – in cui precipitano i frantumi di classi decomposte, culture in declino, popoli vinti – è esso stesso un prodotto dello sviluppo del capitale. I senza voce hanno perso una parola che possedevano, sono stati espropriati della identità originaria, e non hanno accesso al linguaggio astratto della modernità del capitale».

Questa la tesi di fondo propostaci da Mario Pezzella in Altrenapoli (Rosenberg & Sellier). Libro che non ritrae il nostro tempo – una sorta di riaffiorato medioevo: in cima, una casta socialmente impune di signori e, alla loro mercé, un’indistinta massa di monadi vieppiù umiliate nella propria dignità – come un mero incidente di percorso sulla via della modernizzazione capitalistica. Invece, esso lo giudica l’esito naturale del plurisecolare dominio di un capitale che, «nella sua storia passata e presente», sempre si è confermato «un processo attivo di privazione di diritti, di soggettività e di parola», costringendo «interi ceti sociali che possedevano un “saper fare” specifico» a scivolare «nell’amorfia della plebe», a veder schiantato il proprio «statuto simbolico», a stiparsi in «un non essere di compattezza e mutismo». Gli attuali fenomeni di plebeizzazione patiti, nel mondo intero, dalle varie comunità nazionali discendono cioè, per Pezzella, dall’ormai incontrastato processo di accumulazione capitalistica, pronto altresì a convertire in «prodotto» ciascuna nostra città, se «lo spazio in cui si svolge la vita quotidiana è divenuto esso stesso merce in ogni sua piega». Se «l’urbano, che ha sostituito la città, non ha un nucleo unico e riconoscibile, ma si disperde poliedricamente in più centri commerciali». E se tale «processo di urbanizzazione è dunque al contempo di ruralizzazione: l’amorfa continuità dell’una nell’altra sostituisce l’antica dialettica di città e campagna». Continua a leggere “Napoli è il mondo”

Quale capitalismo per quale Europa: su Euro al capolinea?

di Nicolò Bellanca

Il senso di questa noterella consiste nel dialogare con Bellofiore, Garibaldo e Mortágua1. I temi che essi trattano sono della massima rilevanza e del massimo impegno. Non su tutti ritengo di avere, al momento, una posizione intellettualmente e politicamente definita2. Mi scuso, quindi, se tralascerò alcune parti del loro libro. Il punto di partenza del confronto è inevitabile: gli autori s’interrogano sulla natura del capitalismo contemporaneo. A loro avviso si tratta «di un money manager capitalism, un capitalismo dei gestori finanziari, che è stato costruito sulla centralizzazione senza concentrazione, su nuove forme di governo societario, sulla concorrenza distruttiva, sull’aumento dei prezzi delle attività finanziarie, e sul consumo a debito» (p.11); a questi tratti essi aggiungono, dal punto di vista delle classi subalterne, «la sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito, […] la ‘traumatizzazione’ del lavoro, la precarizzazione universale» (p.131)3. Ho sempre trovato poco sensato compilare una recensione elencando le cose che un certo libro non dice. Questo perché tali cose sono, ovviamente, in numero infinito, ma anche perché, così procedendo, si evita comodamente di entrare nel merito di ciò che il libro afferma e argomenta. Nel caso in oggetto, tuttavia, i caratteri del capitalismo che gli autori richiamano possono essere soppesati soltanto in base a una concezione alternativa. Devo dunque elencare quello che a mio avviso manca, affinché il lettore possa riflettere e valutare.

Con la sinteticità di una manciata di tweet, ecco la mia pista di ricerca. Per comprendere il capitalismo contemporaneo, occorre (sebbene non basti) mettere a fuoco sette categorie teoriche: il surplus potenziale, il modo di potere capitalista, gli investimenti intangibili, la classe dominante dei manager, l’imperialismo, la Grande accelerazione e la fine del lavoro4.

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Euro o non euro?

Eurodi Rino Genovese

Dopo le elezioni europee e il loro esito scontato rispetto alle aspettative (con la sola eccezione del crollo, ben al di là del previsto, del “populismo di centro” grillino), in un quadro generale caratterizzato dalla sostanziale tenuta dello status quo dell’Unione, non tarderanno a farsi di nuovo sentire i fautori di un’uscita dell’Italia dalla moneta unica. È ai loro supporters, spesso malamente informati o manipolati da abili demagoghi, che va consigliato il libro di Riccardo Bellofiore, Francesco Garibaldo e Mariana Mortágua, Euro al capolinea? (Rosenberg & Sellier), che, con il suo rigore critico e la radicalità delle argomentazioni, potrebbe far cambiare opinione a qualcuno di loro.

Anzitutto, qual era la caratteristica del capitalismo italiano dei bei tempi andati, quelli della liretta e delle sue “svalutazioni competitive”? Per rispondere basta ricordare ciò che diceva Augusto Graziani in una conferenza del 1994: “[…] questo ritorno a una politica della svalutazione come protezione delle esportazioni e della politica di sviluppo guidata dalle esportazioni è una politica che ha degli effetti diseguali dal punto di vista territoriale sullo sviluppo del nostro paese: perché avvantaggia largamente le regioni della piccola e media impresa esportatrici, mentre penalizza tutte le altre regioni che non sono in grado di trarre vantaggio dalla svalutazione. E poi è, ancora una volta, una politica di sostegno all’industria attraverso la svalutazione, e non attraverso l’avanzamento tecnologico” (citato a p. 102).

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Altrenapoli

AltrenapoliQuesto libro si interroga sul modo in cui alcuni scrittori e registi cinematografici hanno descritto il rapporto tra intellettuali e plebe a Napoli dal secondo dopoguerra a oggi e come esso si sia articolato in alcuni momenti decisivi della storia della città.
Il popolo o la «classe» dotati di soggettività e unità, sorta di aristocrazia degli oppressi, sono stati sovente opposti alla plebe, considerata con disprezzo come un sottoproletariato manipolabile dal fascismo e dal populismo. Questa distinzione è troppo rigida.

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La democrazia interna ai partiti: una chimera o una frontiera innovativa da esplorare?

Partiti e democraziadi Antonio Floridia

1. Negli ultimi anni la riflessione sui partiti, da sempre tema cruciale della scienza politica, ha visto una ripresa notevole e si sono moltiplicate, in particolare, le opere che hanno cercato di rispondere ad un quesito, variamente formulato, sulla corretta definizione da dare ai fenomeni che investono i partiti nelle democrazie contemporanee: “fine”, “crisi” e “declino”, o “trasformazione” e “adattamento”?[1]

La risposta più convincente ci sembra quella che distingue tra l’indebolirsi dei partiti nella loro capacità di esercitare alcune classiche funzioni di rappresentanza sociale e politica, e la conseguente crisi di legittimazione che ne deriva, da un lato; e dall’altro, la compenetrazione tra partiti e stato, con una crescente dipendenza dei partiti dalle risorse finanziarie e organizzative che da tale simbiosi si possono ottenere. Insomma, mentre le funzioni di “integrazione politica” si stanno erodendo, le funzioni “istituzionali” dei partiti risultano ancora più esaltate. Il partito in the public office appare ipertrofico, quello on the ground sempre più gracile. D’altra parte, sono state smentite dai fatti quelle tesi che preconizzavano, tout court, un esaurimento del ruolo stesso dei partiti, sia come vettore e luogo della partecipazione dei cittadini alla vita politica (sostituiti da nuove, molteplici e più accattivanti, forme di impegno civico), sia come strumento di aggregazione e articolazione degli interessi (sostituiti da gruppi di pressione o lobbies o esautorati dagli assetti neocorporativi di governo dell’economia). Insomma, per quanto oggetto di una diffusa “impopolarità”, i partiti non sembrano destinati ad eclissarsi dalla scena delle democrazie contemporanee: le loro funzioni, vecchie e nuove, semmai, trovano alcuni potenziali concorrenti, ma non vere e proprie alternative.

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A proposito di Brexit e altri mostri

brexitdi Luca Lenzini

C’è qualcosa di sinistro nel modo in cui il tema “Brexit” viene affrontato dai media, includendo in questa sfera non solo gli opinionisti più o meno di grido e i giornalisti di vario ordine e competenza, ma anche i politici, che ormai dai media sono generati, promossi e quando è il momento annientati. Nel caso dei politici continentali, a colpire è l’assoluta banalità delle dichiarazioni in merito, oppure il mutismo d’occasione: due manifestazioni con la stessa origine, ovvero il senso di profonda impotenza di chi, proprio mentre si propone come Decisore e Guida, è in realtà in balia di eventi che non è affatto in grado di controllare, così come non è in grado di capire né la propria futura rovina né quella del paese che dovrebbe governare.

La parabola di David Cameron, del resto, assomiglia non poco a quella di Matteo Renzi: l’aria disinvolta, disincantata e decisionista con cui, uscendo dalle brune limousine con le bandierine e i vetri fumée e abbottonandosi le giacchette, gli arditi giovinotti per un attimo si offrivano ai reporter assiepati sui marciapiedi prima dei grandi Vertici, non era che breve sogno, labile fumo senza arrosto; tutti quei brillanti ingressi erano soltanto il preludio della maldestra uscita di scena, tutta quella giovinezza mal spesa nient’altro che l’annuncio della precoce caduta.

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Il degrado come motore della “storia”

Roma

di Emiliano Ilardi

[Intervento al convegno “Roma città bipolare: tra vita quotidiana e immaginario”, organizzato dal dottorato di Ingegneria dell’architettura e dell’urbanistica dell’Università di Roma “La Sapienza” e dalla casa editrice manifestolibri, 9-10 aprile 2019].

Quando a Roma si prova a trovare un nesso tra immaginario e spazio urbano, bisogna tenere conto di alcuni suoi elementi caratteristici. Innanzitutto questa è una città che procede per accumulazione progressiva di simboli e metafore, senza trovarne mai nessuna che riesca a comprenderla tutta. A Roma si mescolano continuamente immaginari di lunga o lunghissima durata prodotti dalla sua storia millenaria, prodotti a partire dal Settecento e dall’Ottocento, diffusi poi da una potente industria culturale di massa (dai racconti dei “prototuristi” che facevano il grand tour fino al cinema di Hollywood e Cinecittà) e immaginari di breve o brevissima durata frutto dell’era digitale (web serie, videogame, etc.).

Roma è così, da almeno un paio di secoli, uno dei più potenti contesti narrativi che esistano al mondo. Uno spazio capace di produrre immaginari di ogni tipo, in cui si possono ambientare tutti i generi (dal realismo alla fantascienza passando per la commedia, il thriller e l’horror). Da questo punto di vista appare come una sorta di Los Angeles in miniatura: un contenitore elastico che si può riempire di ogni senso; un contesto in cui qualsiasi cosa accada diventa un evento narrativo credibile. E paradossalmente proprio negli ultimi dieci anni in cui, secondo la vulgata mediatica, Roma sarebbe entrata in una decadenza apparentemente irreversibile, essa ha visto aumentare il suo potenziale narrativo. Sia in Italia sia all’estero, Roma è sempre più scelta come quinta scenica per film, serie tv, romanzi, fumetti, videoclip musicali e perfino videogiochi (si pensi solo al bestseller Assassin’s Creed). Ciò non dipende solo dal fatto che Roma, a partire dagli anni trenta del Novecento (con la nascita di Cinecittà e successivamente della Rai) diventa un importante polo editoriale, soprattutto nell’ambito dell’audiovisivo; altrimenti anche Milano dovrebbe essere un fertile contesto narrativo, cosa che non è mai diventata rimanendo, nel corso degli anni e a dispetto dei suoi successi, una città pochissimo raccontata e di scarso interesse per scrittori, sceneggiatori e registi. D’altronde Milano, al contrario di Roma, è facilmente etichettabile e racchiudibile in un paio di metafore.

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Contro i fantasmi

di Luca Baiada

Gli interventi al convegno del 7 marzo scorso, Stragi e deportazioni nazifasciste: per la giustizia e contro l’ambiguità, sono tutti sul canale Youtube del Senato (https://www.youtube.com/watch?v=gpDYeJPX4gU). Ma qui è bene riprendere il discorso, con una premessa. È importante che la questione dei risarcimenti, e delle furberie tedesche per non pagarli, sia arrivata in parlamento. Fino a ora, la sede parlamentare col migliore approfondimento era stata il Bundestag, con un numero di interrogazioni triplo di quello nelle Camere italiane.

Centrale la questione dell’effettività della tutela legale. Esecrare i crimini nazifascisti non basta. Affermare la giurisdizione nei confronti degli Stati quando commettono gravi violazioni, neanche. Pronunciare condanne va un po’ meglio. Ma non ci si può fermare alle pronunce: occorre eseguirle.

Robusta la denuncia del formalismo giuridico, perché sorregge i tentativi di svuotare di contenuto l’ottima sentenza della Corte costituzionale del 2014, favorevole alle decisioni giudiziarie contro la Germania. Tullio Scovazzi: «Questi tecnicismi giuridici, queste sottigliezze giuridiche offendono la sofferenza delle vittime di gravi violazioni dei diritti umani. […] Se non c’è immunità degli Stati, anche uno Stato che sia soccombente in una sentenza deve essere obbligato a dare esecuzione alla sentenza stessa». E Giuseppe Tesauro: «Tutte queste tecnicalità che sono state opposte alle aspettative, alle speranze delle vittime – le formule giuridiche non danno nemmeno il senso di quanto siano gravi queste atrocità – non vorrei dire sviliscono, ma mettono una luce abbastanza fredda su tutte queste cose».

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La legge del mare

nave-mare-joniodi Enzo Scandurra

Tanti anni fa, di ritorno dalla Sardegna su uno di quei grossi traghetti di linea, mi capitò un episodio quanto mai “sorprendente”. Mentre ero in coperta seduto su una poltrona, il traghetto cominciò ad avere sbandamenti inquietanti. Stupito guardai gli altri passeggeri che, anche loro, erano rimasti meravigliati e preoccupati da quell’insolito procedere della nave. Tutti insieme salimmo sul ponte e ci si parò uno spettacolo curioso. Il traghetto aveva preso a fare dei cerchi concentrici intorno a una piccola imbarcazione a vela. Incuriositi chiedemmo a un marinaio che cosa stesse succedendo, e lui ci rispose che c’era una imbarcazione che era rimasta in panne e per la legge del mare il nostro traghetto doveva assicurare protezione fino a quando non fosse arrivata una motovedetta della guardia costiera.

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Autorizzare la speranza. Poesia e futuro radicale

di Italo Testa

[Questo testo è una forma rielaborata dell’intervento tenuto in occasione della sessione conclusiva dell’incontro “Lirica e società / Poesia e politica”, Casa della Cultura, Milano, 2 marzo 2019 (qui la registrazione della diretta streaming delle tre sessioni dell’incontro)].

È come se oggi la questione della verità tendesse a entrare di prepotenza nel discorso dei poeti. Il compito veritativo della poesia ne occupa la scena, assume un ruolo focale in molte delle prese di posizioni che abbiamo ascoltato anche in occasione di questo incontro. È una mossa non scontata, se teniamo conto che proprio con un conflitto tra poesia e filosofia sul nesso tra apparenza e verità si inaugura la tradizione occidentale di ordinamento dei discorsi. Occorrerebbe chiedersi di che cosa sia sintomo questa esigenza veritativa, se sia semplicemente un’altra reazione all’impero delle fake news, oppure se non riguardi uno spostamento in atto dell’ordine discorsivo. A cosa fa segno la fortuna di cui la figura foucaultiana del parresiasta sembra godere ai nostri giorni tra poeti di orientamenti tra loro molto differenti? Nel passato recente, anche poeti civilmente impegnati come Pasolini, che hanno fatto del loro corpo l’esibizione di una verità scandalosa, erano sicuramente più cauti in proposito, ritenendo che la poesia avrebbe semmai un rapporto obliquo al vero, una relazione non diretta, mediata dall’apparenza.

Ma di cosa parliamo, quando parliamo di verità in poesia? Non tanto di rispecchiamento di una verità di fatto, di un’evidenza cogente da salvaguardare, ma piuttosto di una verità a venire, non data. Si parla di ‘verità’, ma il discorso confina con il terreno su cui campeggia la parola ‘speranza’. Come se la poesia rinviasse a un’idea di mutamento, ma di un mutamento che non può essa stessa produrre. Il sogno di un mondo in cui le cose stiano altrimenti, di un mondo altro da quello che è, che nel Discorso su Lirica e società di Adorno costituirebbe l’aspetto critico del contenuto sociale della poesia, ripreso nella formula quasi incantatoria del “suono in cui dolore e sogno si congiungono”. Ciò non riguarda necessariamente un contenuto utopico determinato, ma investe l’aspetto controfattuale della forma poetica, quella possibilità di mettere a distanza il mondo che non dipende dal modello di soggettività che di volta in volta una certa concezione dell’io poetico sottoscrive. Al di là del legame, storicamente condizionato, che diversi modelli di poesia hanno intrattenuto con l’io trascendentale della greater romantic lyric, dell’individuo borghese e della sua soggettività monologica, o dell’io narcisista di massa che secondo le analisi ispirate a Lasch caratterizzerebbe l’espressivismo contemporaneo, permane il rinvio a un mutamento possibile che la poesia non può produrre – secondo l’adagio fortiniano per cui la ‘poesia non muta nulla’ di per sé – ma che necessariamente richiama.

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A proposito di Carlo Formenti “Il socialismo è morto. Viva il socialismo!” (Meltemi)

il socialismo è mortodi Rino Genovese

Ecco un libro di cui avremmo potuto facilmente sbarazzarci inserendolo tra quelli sconsigliati, “da non leggere”, come abbiamo fatto con Ernesto Laclau e Chantal Mouffe (che tuttavia abbiamo letto). Ne parliamo invece per due ragioni: la prima è data dal suo bel titolo (sebbene sia peggiorato dal sottotitolo, che suona “Dalla disfatta della sinistra al momento populista”), e la seconda è che questo libro offre – in una forma diretta, che utilizza anche il registro stilistico delle tesi – un compendio di tutti gli errori che funestano oggi quella parte della sinistra cosiddetta radicale ascrivibile al “populismo di sinistra”.

Sono esposte in modo così chiaro le idee di questo libro che ci sentiremmo di consigliarlo, ammesso che leggano ancora qualcosa, anzitutto ai nostri ex amici del Ponte (da cui la Fondazione per la critica sociale si è separata l’anno scorso), affinché ci dicano se è questo che essi pensano, se cioè condividono, e fino a che punto, le posizioni di Formenti. Che sono in sintesi le seguenti: 1) sono dei “cretini” quelli che non vogliono accorgersi che il cosmopolitismo “borghese” illuministico, basato sul mercato, ha cancellato un internazionalismo che potrebbe poggiare solo su una parità delle differenti comunità e dei diversi Stati nei loro rapporti reciproci; 2) di conseguenza un sovranismo statale neogiacobino (non etnico!) è l’unica risposta al capitalismo progressista liberal-liberista, cui non solo le socialdemocrazie si sono adeguate ma anche il pensiero post-operaista è subalterno; 3) non può più esserci un soggetto rivoluzionario all’interno del processo capitalistico (“dentro e contro”, secondo un vecchio slogan), però può esserci la costruzione di un “popolo”, a partire da varie forme di resilienza o resistenza esterne, capace di servirsi dello Stato in una prospettiva inizialmente democratica nazional-popolare e successivamente orientabile, almeno in linea di principio, verso il socialismo; 4) l’Europa non è stata altro che un esempio di “lotta di classe dall’alto” contro i ceti subalterni, e per questo la scelta politica, per i paesi del Sud del continente ridotti a subire una sorta di dominazione neocoloniale da parte della Germania, sarebbe quella di riprendersi la loro indipendenza uscendo dalla moneta unica e, più in generale, dalla Unione europea. Di qui l’attenzione, e anche qualcosa di più, che l’autore riserva al Movimento 5 Stelle e al suo esperimento di governo con la Lega – per non dire di tutto quanto, da Sanders a Corbyn e a Mélenchon, passando per Podemos, egli include, senza preoccuparsi troppo di distinguere, nel “populismo di sinistra”.

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Incontro intorno a lirica e società

2 marzo 2019

Casa della Cultura

Via Borgogna – Milano

A sessant’anni di distanza dal Discorso su lirica e società di Adorno, possiamo ancora affermare che “il prodotto lirico è sempre anche l’espressione soggettiva di un antagonismo sociale”? E che nella poesia più avvertita si esprimerebbe una “reazione alla reificazione del mondo”, se non “il sogno di un mondo in cui le cose stiano altrimenti”? Oppure la mutazione radicale del panorama sociale impone un ripensamento anche del ruolo della poesia e del suo legame con l’universale? E se potessimo ancora guardare alla “poesia come meridiana della filosofia della storia”, quali direzioni ci indicherebbero le scritture contemporanee?

Muovendo da queste domande, l’incontro “Lirica e società / Poesia e Politica”, promosso dalla rivista di poesia, arti e scritture “L’Ulisse”, con il sostegno della
Fondazione per la Critica Sociale, e organizzato da Paolo Giovannetti e Italo Testa, invita importanti poeti e critici attivi nel panorama contemporaneo a
riflettere in prima persona sui modi in cui, oggi, il linguaggio poetico si rapporta, direttamente o indirettamente, con il vivere sociale, attraverso lo stile e/o il contenuto, la postura autoriale ecc., instaurando un rapporto critico, magari contraddittorio, con le forme di vita del nostro tempo.