Il degrado come motore della “storia”

Roma

di Emiliano Ilardi

[Intervento al convegno “Roma città bipolare: tra vita quotidiana e immaginario”, organizzato dal dottorato di Ingegneria dell’architettura e dell’urbanistica dell’Università di Roma “La Sapienza” e dalla casa editrice manifestolibri, 9-10 aprile 2019].

Quando a Roma si prova a trovare un nesso tra immaginario e spazio urbano, bisogna tenere conto di alcuni suoi elementi caratteristici. Innanzitutto questa è una città che procede per accumulazione progressiva di simboli e metafore, senza trovarne mai nessuna che riesca a comprenderla tutta. A Roma si mescolano continuamente immaginari di lunga o lunghissima durata prodotti dalla sua storia millenaria, prodotti a partire dal Settecento e dall’Ottocento, diffusi poi da una potente industria culturale di massa (dai racconti dei “prototuristi” che facevano il grand tour fino al cinema di Hollywood e Cinecittà) e immaginari di breve o brevissima durata frutto dell’era digitale (web serie, videogame, etc.).

Roma è così, da almeno un paio di secoli, uno dei più potenti contesti narrativi che esistano al mondo. Uno spazio capace di produrre immaginari di ogni tipo, in cui si possono ambientare tutti i generi (dal realismo alla fantascienza passando per la commedia, il thriller e l’horror). Da questo punto di vista appare come una sorta di Los Angeles in miniatura: un contenitore elastico che si può riempire di ogni senso; un contesto in cui qualsiasi cosa accada diventa un evento narrativo credibile. E paradossalmente proprio negli ultimi dieci anni in cui, secondo la vulgata mediatica, Roma sarebbe entrata in una decadenza apparentemente irreversibile, essa ha visto aumentare il suo potenziale narrativo. Sia in Italia sia all’estero, Roma è sempre più scelta come quinta scenica per film, serie tv, romanzi, fumetti, videoclip musicali e perfino videogiochi (si pensi solo al bestseller Assassin’s Creed). Ciò non dipende solo dal fatto che Roma, a partire dagli anni trenta del Novecento (con la nascita di Cinecittà e successivamente della Rai) diventa un importante polo editoriale, soprattutto nell’ambito dell’audiovisivo; altrimenti anche Milano dovrebbe essere un fertile contesto narrativo, cosa che non è mai diventata rimanendo, nel corso degli anni e a dispetto dei suoi successi, una città pochissimo raccontata e di scarso interesse per scrittori, sceneggiatori e registi. D’altronde Milano, al contrario di Roma, è facilmente etichettabile e racchiudibile in un paio di metafore.

I motivi per cui Roma è divenuta un contesto narrativo sono tanti e ci vorrebbe troppo tempo ad elencarli in questo breve intervento. Su uno però vale la pena soffermarsi sia perché è sempre presente sottotraccia nella storia millenaria della città, sia perché è divenuto centrale nello storytelling degli ultimi cinque anni. Si tratta dell’antinomia bellezza/degrado. A differenza delle altre città europee il degrado e la bellezza non sono circoscrivibili, non riescono a essere narrati singolarmente (come per esempio fa Zola con Parigi, che riesce a isolare nei suoi romanzi pezzi di città). Degrado e bellezza a Roma si mescolano dal centro alla periferia e viceversa. Nemmeno Pasolini, sebbene ci provi continuamente, riuscirà a isolare narrativamente le famose borgate: i suoi personaggi, infatti, sono sempre in movimento, non sono statici, inchiodati a un luogo come quelli di Zola.

Ma che cos’è questo immaginario del degrado a Roma? E perché da sempre ne rappresenta il suo motore narrativo? Si tratta solo di sporcizia, buche, caos circolatorio? Io credo che ci sia qualcosa di più profondo per cui alla fine, anche se Roma un giorno la vedessimo più pulita e organizzata, la percepiremmo comunque come degradata. La mia opinione è che l’eccesso di senso che produce lo spazio urbano romano impedisce che esso venga funzionalizzato, sia dal punto di vista capitalistico sia da quello amministrativo, urbanistico, turistico. A Roma tutti i grandi processi tipici della modernità: razionalizzazione, funzionalizzazione, messa in produzione capitalistica degli spazi non sono mai riusciti fino in fondo o, quando sono riusciti, lo hanno fatto in piccole porzioni di città e mai globalmente.

Le retoriche del moderno, con buona pace di tutte le teorie che dagli anni settanta predicano la fine della modernità, resistono ancora oggi (probabilmente il capitalismo non può farne a meno) e sono queste che ci fanno e ci faranno sempre percepire e raccontare Roma come spazio del degrado. Roma non è mai a diventata fino in fondo cristiana, non è diventata pienamente capitale, non riesce oggi a diventare un museo o un parco a tema per turisti. Nemmeno i processi di gentrificazione, che da alcuni anni caratterizzano le principali capitali europee, si realizzano qui completamente. Roma non è, né sarà mai, una città cool, à la page, allo stesso modo di Milano, Barcellona o Berlino. In qualche modo riesce sempre a insozzare tutte le quinte sceniche che si cerca di allestirle; c’è sempre un po’ di merda che alla fine entra nello spot pubblicitario e lo rovina.

Roma è un perfetto contesto narrativo solo se si accetta di rendere la sua sceneggiatura negoziabile; funziona bene per l’industria culturale (narrazioni più complesse) e molto meno per quella strettamente pubblicitaria (che infatti sceglie la ben più controllabile e funzionalizzabile Milano). La comunicazione pubblicitaria, infatti, per quanto usi linguaggi obliqui e polisemici, alla fine deve chiudere il senso sul prodotto – e il prodotto Roma è irriducibile alle chiusure semantiche. Anche perché l’eccesso di senso convive con l’apparente assenza di senso di alcuni suoi spazi, come le famose periferie, divenute non a caso fertilissimi contesti narrativi negli ultimi settant’anni. Si tratta di spazi, difficilmente interpretabili e isolabili, che incombono da sempre minacciosamente sul centro urbano che non è mai riuscito a contenerli completamente – e da ciò deriva anche la sua incapacità di musealizzarsi. Essi hanno prodotto un immaginario così potente da essere associati ormai quasi esclusivamente a Roma. È qui che si parla sempre di periferie, mentre per Milano, Torino o Napoli si preferiscono termini come “cinture” o “hinterland”.

Ed è proprio questa continua oscillazione tra eccesso e assenza di senso che fa di Roma un formidabile contesto narrativo. D’altronde l’immaginario si produce soprattutto in spazi o eccessivamente polisemici (per fare ordine), oppure in quelli poveri di senso (per costruirgliene uno). Ma questa oscillazione produce anche, agli occhi di uno spettatore ancora tarato sulle retoriche del moderno, una percezione continua di degrado e disordine. A sua volta, questa percezione ha reso Roma da qualche secolo uno straordinario laboratorio di progettazione nel significato più ampio della parola: architettonica, urbanistica, politica. Roma è stata anche luogo su cui proiettare progetti, ideali, desideri: Sisto V con il suo primo progetto moderno di riorganizzazione urbana, il barocco, i sabaudi che la vogliono “torinizzare” e trasformarla in una Parigi sul Tevere, e poi il fascismo che la vuole imperiale e ancora gli esperimenti di edilizia popolare comunista fino ad arrivare all’individualismo consumista di palazzinari e singoli cittadini, che produrrà la città abusiva e spontanea. Forse è proprio la Roma laboratorio che è andata in crisi negli ultimi anni.

Governare Roma vuol dire in qualche modo partire dal presupposto che degrado, disordine, contrasti possono essere un punto di forza che bisogna essere capaci di gestire e mettere a frutto; perché generano imprevedibilità e quindi narrazioni, immaginario, innovazione progettuale, che sono oggi tra i principali motori del successo di una città in un mondo ormai caratterizzato da paradigmi produttivi sempre più immateriali. È ovvio che le buche nelle strade vadano riparate e i trasporti migliorati, che chi orina per strada vada multato, che si debba trovare un freno alla corruzione, che l’amministrazione comunale dovrebbe essere più efficiente. Detto questo, a Roma non resta che rimanere semanticamente effimera: è questa la caratteristica che da sempre le ha permesso di adattarsi ai mutamenti senza identificarsi in uno specifico periodo storico, in un’identità rigida, in una funzione determinata. Roma muore veramente solo se non riesce più a funzionare come quinta scenica dell’immaginazione: di ogni potenziale contenuto dell’immaginazione.

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.