di Cristina Vincenzo
Possiamo considerare il razzismo una vecchia storia? È ormai largamente condiviso che i neri non siano meno intelligenti dei bianchi, ma non sembra esserci altrettanto accordo su questioni che restano controverse. Ci si imbatte spesso, per esempio, in pareri discordi sull’integrazione scolastica. I genitori italiani possono temere che l’educazione dei propri figli sia rallentata dalla presenza dei figli degli immigrati nella stessa classe. Il razzismo è oggi un concetto meno definito di un tempo, più sottile, contorto e in grado di penetrare perfino dentro culture che si autorappresentano come antirazziste e antifasciste. Entrambe queste affermazioni, tuttavia, fanno parte di reattivi psicologici in grado di riconoscere le nuove forme di razzismo[1]. Si deve tener conto della presenza di atteggiamenti e credenze intimamente razzisti in persone dotate delle migliori intenzioni, che aderiscono a valori egualitari, pronte ad autodescriversi come sostenitori dell’integrazione, e che rifiutano, almeno a un livello consapevole, qualsiasi ideologia discriminante.
Lo studio di questi fenomeni, da un punto di vista psicologico, è iniziato nella seconda metà del secolo scorso nel mondo anglosassone, trainato da una semplice osservazione: nonostante nell’arco di vent’anni la segregazione razziale sia passata dall’essere legalmente normata all’essere illegale e socialmente indesiderabile, il livello di affetto negativo nei confronti dei neri e di conflitto tra gruppi etnici non è cambiato[2]. Per esempio, la percentuale di americani bianchi che sostenevano l’integrazione scolastica salì dal 32% nel 1942 al 90% nel 1982; la percentuale di coloro che rifiutavano leggi contro i matrimoni misti passò dal 38% nel 1963 al 66% nel 1982; la percentuale di bianchi disposti a votare per un candidato presidenziale afroamericano passò dal 37% nel 1958 all’81% nel 1983[3]. Nonostante questo rapido e impressionante mutamento nelle convinzioni manifeste degli statunitensi, gli indicatori impliciti di atteggiamenti discriminatori nei confronti degli afroamericani rimasero intatti: messi in condizione di aiutare un bianco o un nero, i bianchi prestavano aiuto meno frequentemente o con azioni meno incisive se avevano davanti a sé un nero, ancor meno se non era fisicamente presente ai loro occhi[4]. Il razzismo non era sparito, aveva solo cambiato abito: era diventato più discreto.
Il razzismo fautore della segregazione razziale viene chiamato, attualmente, old fashioned: vecchia scuola, desueto, fuori moda. È il razzismo legato alle concezioni biologistiche, del tipo “i neri sono meno intelligenti dei bianchi”, e di tutta quella letteratura scientifica, divulgativa, che ha imperversato nell’Ottocento e per gran parte del secolo scorso, finendo poi nel cassetto della pseudoscienza per essere di tanto in tanto riesumata da qualche guardiano degli ossari. Quello stesso razzismo che era servito, in origine, a distinguere una “razza” di aristocratici da una “nazione” di cittadini contribuendo all’organizzazione dei popoli europei secondo i criteri dello Stato-nazione[5]. L’antisemitismo e gli orrori del Novecento sono stati poi largamente studiati, non senza qualche difficoltà, come figli di ideologie distorte. Da un punto di vista psicologico-psicoanalitico, questo razzismo è stato, secondo una prima tradizione, inquadrato come prodotto della mente individuale in una sorta di nevrosi plasmata dallo stile genitoriale: La personalità autoritaria di Theodor Adorno (e altri) è un’opera non solo d’impressionante impegno in termini psicometrici, ma è stata anche in grado di fondare una tradizione di ricerca volta a spiegare la vulnerabilità di alcuni individui all’ideologia fascista e al comportamento discriminatorio[6].
Lo studio del razzismo in quanto fenomeno psicologico e sociale rientra da circa quattro decadi nell’ambito della psicologia del pregiudizio. La definizione classica di razzismo – o meglio, di pregiudizio etnico – cui si fa riferimento è quella di Gordon Allport, uno dei fondatori della psicologia della personalità americana[7]: “il pregiudizio etnico è un atteggiamento di rifiuto o di ostilità basato su una generalizzazione errata e inflessibile, sentito o espresso nei confronti di un gruppo nella sua totalità o nei confronti di un individuo in quanto appartenente a quel gruppo”. Il pregiudizio non è dunque un fenomeno prettamente individuale: gli individui esprimono con esso una presa di posizione basata sull’appartenenza a un gruppo al fine di screditarne un altro. Le relazioni fra gruppi, intese in quest’ottica, sono figlie della categorizzazione sociale, e rispondono in primo luogo a una semplice legge: il sentimento di appartenenza a un gruppo porta gli individui a privilegiare coloro che ne fanno parte (ingroup) a discapito di coloro che non ne fanno parte, e che appartengono a un altro gruppo (outgroup)[8]. L’ipersensibilità e la tendenza a dare grande valore alle differenze tra i gruppi al fine di omogeneizzare e denigrare i gruppi esterni, e favorire così la coesione del gruppo di appartenenza, è un fenomeno già osservato e teorizzato da Freud: nel Disagio della civiltà [9] lo chiamò il narcisismo delle piccole differenze.
Il dilemma posto dallo studio del pregiudizio ha dato vita a una tradizione di ricerca interessata a smascherare ciò che oggi indaghiamo come razzismo implicito, neorazzismo, razzismo sottile, razzismo moderno. La prima teoria elaborata è anche quella più orientata a tener conto delle differenze individuali: il razzismo simbolico[10], studiato attraverso la Modern Racism Scale. Le concezioni del razzismo simbolico o moderno partono dall’ipotesi generale che la componente affettiva dell’assetto razzista sia acquisita precocemente durante lo sviluppo, e che sia più difficile da modificare delle componenti cognitive e motivazionali. Per questa ragione, sebbene le componenti cognitive si siano modificate piuttosto rapidamente con il ribaltamento dell’opinione pubblica e dell’assetto legislativo, le componenti affettive sono rimaste immutate o subiscono un mutamento ben più lento. L’affetto negativo nei confronti dei neri è rimasto tale ma sono diverse le dimensioni in cui si manifesta[11]. Sebbene questa considerazione sia comune a buona parte degli studiosi, sull’uso del termine “cognitivo” sono necessarie delle precisazioni: la componente cognitiva riguarda un insieme di informazioni didascaliche, da un lato — l’assenza di una base biologica nelle differenze tra le razze, per esempio —, e il mutamento della desiderabilità sociale di alcuni atteggiamenti, dall’altro — come nel caso di atteggiamenti francamente discriminatori. Esiste tuttavia un’ulteriore sottigliezza anche nel considerare gli aspetti cognitivi del razzismo che si intrecciano con quelli affettivo-motivazionali. Se per Appiah[12] le espressioni di razzismo esplicito erano da ricondursi a una “incapacità cognitiva”, già lo studio di Adorno aveva messo in luce alcune caratteristiche peculiari della personalità autoritaria, come l’intolleranza all’ambiguità e la tendenza a imporre categorie rigide nella comprensione dei fenomeni e nella risoluzione dei problemi.
È interessante, a tale proposito, il processo che ha portato alla costruzione del questionario per valutare il razzismo moderno. Con l’intento di costruire uno strumento in grado di spiegare le componenti cognitive di pregiudizio nelle scelte politiche degli americani, McConahay e colleghi hanno sottoposto un insieme di affermazioni – alcune apertamente razziste (“i bianchi non dovrebbero sposare i neri”) e altre formulate con toni più “morali”, e dunque legate anche alla sfera dell’affettività, o simboliche (“i neri stanno diventando troppo esigenti nella loro richiesta di parità di diritti”) – a un discreto campione di americani, chiedendo loro di esprimersi rispetto al grado di accordo o disaccordo con tali affermazioni. Furono svolte a distanza di tempo più somministrazioni agli stessi soggetti, modificando una variabile: il colore della pelle della persona che somministrava e ritirava i questionari. Dai risultati emerse che il grado di accordo con le affermazioni apertamente discriminatorie era significativamente più basso quando era presente un somministratore di colore — che portava dunque i partecipanti a volere esprimere un grado minore di pregiudizio — rispetto a quando il somministratore era bianco. Ma il risultato più interessante fu che le affermazioni razziste più sottili e simboliche non erano influenzate dall’etnia del somministratore. Gli autori raccontano di reazioni rabbiose da parte dei soggetti, sia nel rispondere alle affermazioni apertamente razziste, sia dopo aver ricevuto la comunicazione che anche le altre affermazioni erano, in effetti, indicatori di pregiudizio. In molti tentarono di contestare l’assunzione che tali affermazioni facessero davvero parte di un atteggiamento razzista, ma studi precedenti e analisi successive hanno confermato l’associazione tra le affermazioni di razzismo simbolico e altre dimensioni di pregiudizio etnico. Risultato ancor più interessante, emerso da ricerche successive[13]: alcune relazioni statistiche esistenti tra le diverse affermazioni di razzismo moderno sono mutate in modo significativo nel corso degli anni, soprattutto le convinzioni riguardanti il welfare nei confronti degli immigrati e rispetto alla sicurezza percepita nelle città. Le tematiche in gioco sono più che mai attuali, e riflettono l’ipotesi molto concreta che la comunicazione, i fatti di cronaca, i cambiamenti sociali e le strumentalizzazioni politiche influenzino il grado di espressione di comportamenti discriminatori.
Differenti contesti e differenti quesiti di partenza hanno portato a diversi punti di approdo: McConahay[14] ha osservato un razzismo della dissimulazione; Gaertner e Dovidio un razzismo riluttante[15], disposto a esprimere il proprio pregiudizio solo con la possibilità di razionalizzarlo in ragioni diverse dal razzismo stesso; Sears[16] ha approfondito il razzismo simbolico, curioso meticcio di affettività negativa nei confronti dei neri e richiamo ai valori tradizionali. Si potrebbe osservare che questa varietà di costrutti ne dimostri la fragilità, oppure è possibile sostenere che una tale diversità teorica rappresenti la reale complessità del fenomeno. Le manifestazioni di un razzismo esplicito e palesemente discriminatorio esistono ancora; ma ciò che rende un pregiudizio tale non è solo la possibile inesattezza del suo contenuto, quanto piuttosto la connotazione di valore — denigratorio — di cui riveste un intero gruppo sociale o etnico, e questa caratteristica distingue anche le forme implicite di razzismo.
Nel contesto attuale, in Italia, i fatti di cronaca, quelli politici, le scelte linguistiche nella comunicazione, mostrano come il timore dell’incontro con l’altro sia ancora vivo: mascherato, semmai, sotto una più ampia xenofobia per evitare comunque di essere tacciati di razzismo. Per comprendere le ragioni sottostanti all’endemico “non sono razzista, ma…” e ai vari “stiano a casa loro”, è necessario prendere in considerazione molti elementi. Se la consapevolezza di appartenere a un’etnia in un mondo multietnico può anche essere salutare, se sentirsi parte di un gruppo sociale è un tassello fondamentale e legittimo di qualsiasi identità individuale, è necessario soppesare queste variabili e vedere come operano nelle forme di mobilitazione civica e di aggregazione sociale. Ce ne stiamo occupando nel nostro progetto di ricerca sulle derive della “sindrome identitaria”, partendo dalla esperienza di Adorno arricchita dai contributi della più recente psicologia sociale.
[1] McConahay J. B., Hardee B. B., Batts V., Has Racism Declined in America? It Depends on Who Is Asking and What Is Asked, “The Journal of Conflict Resolution”, vol. 25, n. 4, 1981, pp. 563-579.
[2] McConahay J. B., Modern Racism, Ambivalence, and the Modern Racism Scale, in J.F. Dovidio, S. Gaertner (a cura di), Prejudice, Discrimination and Racism, New York, Academic Press, 1986, pp. 91-125;
Fiske S., Stereotyping, Prejudice, and Discrimination in D. T. Gilbert, S. Fiske, G. Lindzey (a cura di), Handbook of social psychology, vol. 2, New York, McGraw-Hill, 1998, pp. 357-411.
[3] Schuman H., Steeh C., Bobo L., Racial Attitudes in America: Trends and Interpretation, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1985.
[4] Crosby F., Bromley S., Saxe L., Recent Unobtrusive Studies of Black and White Discrimination and Prejudice: A Literature Review, “Psychological Bulletin”, n. 52, 1980, pp. 177-193.
[5] Arendt H., Le origini del totalitarismo (1948), Torino, Einaudi, 2004.
[6] Adorno T. W., Frenkel-Brunswick E., Levinson D.J., Sanford R. M., The Authoritarian Personality, New York, Harper, 1950; trad. it. La personalità autoritaria, Milano, Edizioni di Comunità, 1997.
[7] Allport G. W., The Nature of Prejudice, Reading, MA, Addison-Wesley, 1954; trad. it. La natura del pregiudizio, Firenze, La Nuova Italia, 1976.
[8] Brown R., Psicologia del pregiudizio, Bologna, il Mulino, 2013.
[9] Freud S., Das Unbehagen in der Kultur (1930); trad. it. Il disagio della civiltà, Torino, Einaudi, 2010.
[10] Sears D. O., Kinder D. R., Racial Tensions and Voting in Los Angeles, in W. Z. Hirsch (a cura di), Los Angeles: Viability and Prospects for Metropolitan Leadership, New York, Praeger, 1971.
[11] McConahay J. B., Hardee B. B., Batts V., Has Racism Declined in America? It Depends on Who Is Asking and What Is Asked, “Journal of Conflict Resolution”, cit.
[12] Appiah K. A., Racisms, in D. Th. Goldberg (a cura di), Anatomy of Racism, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1990, pp. 3-17.
[13] McConahay J. B., Self-interest versus Racial Attitudes as Correlates of Anti-busing Attitudes in Louisville: Is it the Buses or the Blacks, “Journal of Politics”, n. 44, 1982, pp. 692-720; McConahay J. B., It’s still the Blacks and not the Buses, unpublished paper, Duke University, 1984.
[14] McConahay J. B., Modern Racism, Ambivalence, and the Modern Racism Scale, in J.F. Dovidio, S. Gaertner (a cura di), Prejudice, Discrimination and Racism, New York, Academic Press, 1986, pp. 91-125;
[15] Arcuri L., Razzismo. Il pregiudizio automatico, “Psicologia Contemporanea”, n. 112, 1992, pp. 4-11.
[16] Sears D.D., Symbolic racism, in P.A. Katz, D.A. Taylor (a cura di), Eliminating Racism: Profiles in Controversy, New York, Plenum Press, 1988, pp. 53-84.