Quale capitalismo per quale Europa: su Euro al capolinea?

di Nicolò Bellanca

Il senso di questa noterella consiste nel dialogare con Bellofiore, Garibaldo e Mortágua1. I temi che essi trattano sono della massima rilevanza e del massimo impegno. Non su tutti ritengo di avere, al momento, una posizione intellettualmente e politicamente definita2. Mi scuso, quindi, se tralascerò alcune parti del loro libro. Il punto di partenza del confronto è inevitabile: gli autori s’interrogano sulla natura del capitalismo contemporaneo. A loro avviso si tratta «di un money manager capitalism, un capitalismo dei gestori finanziari, che è stato costruito sulla centralizzazione senza concentrazione, su nuove forme di governo societario, sulla concorrenza distruttiva, sull’aumento dei prezzi delle attività finanziarie, e sul consumo a debito» (p.11); a questi tratti essi aggiungono, dal punto di vista delle classi subalterne, «la sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito, […] la ‘traumatizzazione’ del lavoro, la precarizzazione universale» (p.131)3. Ho sempre trovato poco sensato compilare una recensione elencando le cose che un certo libro non dice. Questo perché tali cose sono, ovviamente, in numero infinito, ma anche perché, così procedendo, si evita comodamente di entrare nel merito di ciò che il libro afferma e argomenta. Nel caso in oggetto, tuttavia, i caratteri del capitalismo che gli autori richiamano possono essere soppesati soltanto in base a una concezione alternativa. Devo dunque elencare quello che a mio avviso manca, affinché il lettore possa riflettere e valutare.

Con la sinteticità di una manciata di tweet, ecco la mia pista di ricerca. Per comprendere il capitalismo contemporaneo, occorre (sebbene non basti) mettere a fuoco sette categorie teoriche: il surplus potenziale, il modo di potere capitalista, gli investimenti intangibili, la classe dominante dei manager, l’imperialismo, la Grande accelerazione e la fine del lavoro4.

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Per un’Europa sociale e politica

Europadi Rino Genovese

[Testo dell’intervento al convegno “Quale Europa?”, Firenze, 27/10/2018]

Se si va a vedere, non ci sono mai state le forze soggettive per realizzare l’unità europea, meglio ancora un federalismo europeo. Non c’è mai stato un blocco sociale che ha sostenuto questa prospettiva. Neppure i sindacati hanno mai realmente svolto un ruolo in questo senso. Ci sono state nella storia delle élite tutt’al più che ne hanno parlato, o ne hanno vagheggiato. È il caso, ancora nel pieno della seconda guerra mondiale, del famoso Manifesto di Ventotene. Ma se si va a rileggere questo testo non si trova alcuna indicazione utilizzabile oggi, neppure nel senso di una sua possibile rivisitazione. I suoi estensori sono critici della sovranità statale (che ritengono foriera di imperialismo e di guerre), sono contrari al collettivismo marxista, sono antiprotezionisti e libero-scambisti in economia e giacobini in politica, prendendo anche in considerazione un periodo di dittatura rivoluzionaria al momento della caduta del fascismo, che per loro, quando scrivono, è ancora lontana. Sono coerentemente elitisti, parlano di minoranze rivoluzionarie (e nel testo, pur nella critica del comunismo, c’è un apprezzamento per Lenin che avrebbe saputo imporre l’azione di un’avanguardia rivoluzionaria).

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