Un convegno, un libro, un viaggio nella letteratura italiana della modernità

Pier Paolo Pasolinidi Angela Felice e Antonio Tricomi

[Esce in questi giorni il volume Lo scrittore al tempo di Pasolini e oggi. Tra società delle lettere e solitudine, a cura di Angela Felice e Antonio Tricomi, Marsilio, Venezia, 2017, pp. 269, € 25,00. Se ne riproduce qui la premessa.]

Per la gran parte, questo libro scaturisce dal convegno cui anche deve il titolo: “Lo scrittore al tempo di Pasolini e oggi, tra società delle lettere e solitudine”, tenutosi l’11 e 12 novembre 2016 e organizzato dal Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia [con il sostegno della Fondazione per la critica sociale]. Con l’aggiunta di qualche altro contributo richiesto dai curatori a saggisti in varia maniera interessati all’opera del poeta delle Ceneri, esso ospita infatti le relazioni dei critici intervenuti in quell’occasione e i lavori della tavola rotonda tra scrittori con cui le due giornate di studio si conclusero.

Le intenzioni del convegno erano perciò le stesse che animano il presente volume. Tentare, da un lato, una ricognizione della società letteraria italiana del secondo Novecento dalla quale potesse, e quindi possa, emergere la fitta rete di rapporti tessuta da Pasolini con molti tra i migliori autori del suo tempo. Chiedere, dall’altro lato, ad alcuni scrittori in attività, appartenenti a generazioni diverse, di confrontarsi con l’eredità del pedagogo “luterano”, per poi dire la loro sullo stato di salute e sul ruolo, oggi, della letteratura, come pure su quelle tendenze documentarie, o comunque ibride, che sembrano attualmente ispirare una quota assai significativa della produzione romanzesca non solo nazionale.

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Seminario di filosofia politica e sociale

Università di Parma – Dipartimento DUSIC
Unità di Filosofia Aula di Presidenza
Via D’Azeglio 85

07-11-2017

h 14.00-19.00

SEMINARIO DI FILOSOFIA POLITICA E SOCIALE
La societa degli individui – Quadrimestrale di Filosofia e teoria sociale
PhD School in Philologico-Literary,
Historico-Philosophical and Artistic Sciences

Interverranno

Rosa M. Calcaterra (Università Roma 3)
Federica Gregoratto (Università di St. Gallen)
Roberto Gronda (Università di Pisa)
Corrado Piroddi (Università di Jyväskylä)
Matteo Saltarelli (Università del Molise)
Rino Genovese (Fondazione per la Critica Sociale)
Italo Testa (Università di Parma)

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Leggere Rahel Jaeggi in Italia

Rahel Jaeggidi Marco Solinas

[Intervento introduttivo alla giornata di studi con Rahel Jaeggi promossa dalla Fondazione per la critica sociale, Università di Parma, 20 febbraio 2017.]

I cinque saggi raccolti nel volume Forme di vita e capitalismo veicolano una serie di questioni, temi e istanze affrontati dalla nuova teoria critica nel quadro di un ampio dibattito internazionale, che qui da noi non sembrano essere stati ancora pienamente metabolizzati. La maniera in cui Rahel Jaeggi affronta questi snodi rilancia in modo innovativo alcune posture della tradizione della sinistra hegeliana, e credo che possa rivelarsi particolarmente feconda nel quadro delle attuali discussioni anche in Italia. Così come spero che dal processo di ricezione, discussione e ibridazione – di cui questa giornata di studi promossa dalla Fondazione per la critica sociale rappresenta un primo passo – la nuova teoria critica possa a sua volta trarre giovamento, anzitutto rispetto a quelli che potremmo considerare gli specifici deficit inerenti alla dimensione della teoria politica ad essa connaturati.

Vorrei qui delineare tre possibili piste interpretative: 1) la rielaborazione della critica immanente può condurre senza alcuna forzatura, ma anzi naturalmente, al tema del ruolo dell’intellettuale, e più in generale alla riflessione sulle diverse modalità e figure della critica sociale, incrociando la tradizione di matrice gramsciana; 2) l’analisi della forma di vita capitalistica proposta da Jaeggi può contribuire a spostare l’attenzione da un’analisi prevalentemente “biopolitica”, oggi predominante in Italia, al capitalismo quale oggetto teorico prioritario, riattivando così l’eredità della sinistra hegeliana; 3) infine, l’adesione di Jaeggi alla svolta neo-hegeliana può risultare di grande interesse anche rispetto alla problematizzazione dell’eredità del normativismo di orientamento kantiano di Habermas, ben recepito e assimilato negli anni scorsi in Italia, e ora messo in discussione nel profondo.

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In memoria di István Mészáros

Mészárosdi Marco Gatto

[István Mészáros è scomparso il 1° ottobre 2017. Per onorarne la memoria, ripubblico qui la mia recensione a Oltre il capitale, apparsa sul quotidiano “il manifesto” il 25 agosto 2017. – M. G.]

István Mészáros, classe 1930, è forse il solo allievo diretto di Lukács che non abbia ricusato la lezione del maestro, con l’ovvia ambizione di riformularla e renderla attuale. Oltre il capitale. Verso una teoria della transizione (Milano, Punto Rosso, pp. 908, euro 40) è un lavoro monumentale, una sorta di compendio sistematico per l’analisi del capitalismo contemporaneo, un’opera per certi aspetti straniante, perché legata a una tradizione di analisi e di proposta filosofico-politica distante dall’impressionismo teorico dei nostri tempi. Per questo la scelta coraggiosa dei curatori (Nunzia Augeri e Roberto Mapelli) di presentarla nella sua completezza marmorea dev’essere apprezzata e sottolineata: del resto, se il marxismo ha l’ambizione di porsi come visione alternativa al dominio del capitale, la sua validità, in un momento che sembra decretarne la scomparsa o l’integrazione, passa da una verifica concettuale permanente, che di certo costa tempo e fatica.

Mészáros è uno hegelo-marxista; da Lukács ha acquisito la necessità di un pensiero della totalità, e ha reso questo concetto più dinamico attraverso lo studio di Sartre. Ma, in ragione di un oltrepassamento di tali importanti riferimenti, è convinto che l’oggetto ultimo della riflessione debba essere il superamento del capitale e, in particolare, la forma assunta dalle sue crisi strutturali. L’offensiva socialista si gioca, per Mészáros, sul terreno di una politica radicale che pone il lavoro come premessa della transizione: proprio perché il capitale gioca la sua partita sulla divisione del lavoro (che perdura, sottolinea lo studioso, anche laddove il capitalismo non sembra sussistere, com’è accaduto in Unione Sovietica) e sul suo controllo, è l’occupazione a costituire il vero fattore della trasformazione sociale. La liberazione pertiene al lavoro e alle modalità con cui quest’ultimo viene strutturato in una società liberata: senza una politica in grado di accordare al lavoro le qualità determinanti che secondo Marx poneva in essere, senza una politica che trovi nel lavoro un esempio differente di socializzazione, non può darsi transizione al socialismo. La lezione dell’ultimo Lukács ridiventa qui centrale.

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Intorno alle Mura di Roma

Intorno alle Mura di RomaSi terrà DOMENICA I° Ottobre, alle ore 10:00, la prima camminata intorno alle Mura Aureliane per la riscoperta delle sue potenzialità, la promozione di un Parco Urbano e di un itinerario pedonale lungo il perimetro, e riprendere le proposte e le indicazioni dell’ambito di programmazione strategica Mura individuato dal Piano Regolatore Urbanistico di Roma.
Il progetto è realizzato con INARCH LAZIO e il Dipartimento di Architettura e Progetto della Univ. La Sapienza e si articola in 4 camminate e alcuni seminari di approfondimento e dibattito.
L’obiettivo è ripercorrere il perimetro murario (in origine di circa 19 Km), valutarne le condizioni, le relazioni funzionali, le criticità, le potenzialità, per definire in ultimo un progetto per un parco urbano ai piedi delle mura.

L’evento è patrocinato dal VII Municipio, dal Parco Regionale dell’Appia Antica, in attesa del Patrocinio del Comune di Roma e della Sovrintendenza Capitolina e della Regione Lazio. Richiesto anche al 1° Municipio

La prima camminata prevede il percorso da Santa Croce a Porta San Sebastiano (Museo delle Mura):
Appuntamento alle 10 a Santa Croce in Gerusalemme
Soste lungo il percorso nei punti ritenuti più strategici, es. Castrense, Metro C, Via Sannio, Impianti sportivi, Parco delle Mura, Porta Latina e Porta San Sebastiano (arrivo circa alle ore 13).

Per ogni sosta, metteremo in luce lo stato dell’arte e i progetti eventuali e possibili con intervento di esperti del settore e delle Istituzioni
Lungo il percorso i volontari RETAKE contribuiranno con un intervento di decoro urbano.

In collaborazione con:
URIA (Unione Romana Ing. e Arch.), Legambiente, GRAB+, Comunità Territoriale VII Municipio, Urbanita, Carteinregola, Laboratorio Progetto Celio, Retake VII Muncipio,, Ass. Amici del Parco Carlo Felice, Elebike, Visure Acatastali, Urban Experience, Openhouse, Booking.com, ISIPM (Ist. Italiano di Project Management), RomAltruista.

Consumare islam. Da Mecca-Cola a Dolce&Gabbana

Mecca-Coladi Enzo Pace

Da quando i grandi magazzini Harrods sono diventati proprietà della famiglia reale del Qatar1, nei diversi settori commerciali i clienti di religione musulmana possono acquistare prodotti in linea con i precetti della sharia. Dai cioccolatini che non contengono alcol o sostanze derivate dal maiale alle calzature griffate da Gina, Casadei e René Caovilla. Sono vendute all’ultimo piano e perciò il salone porta il nome di Shoes Heaven. Nel reparto dedicato al pubblico femminile musulmano, affluente e alla moda, si possono comprare sandali ricoperti di piccoli gioielli da mille sterline al paio da indossare sotto l’abaya o il niqab. Da Harrods, così come nei magazzini La Fayette di Parigi e in tutti i lussuosi malls dei Paesi del Golfo e del Medio Oriente, le donne musulmane possono ammirare dal 2016 la nuova linea di hijab e abaya disegnata da Dolce&Gabbana. La nota casa di moda non è certo la sola ad essersi accorta delle nuove opportunità di fare affari nel mercato del brand-islam2. Cresce il numero di persone, infatti, che nel vasto e variegato mondo musulmano si affida alle merci per sentirsi a posto con la propria coscienza e per segnalare la propria identità religiosa.

Il consumismo moderno ha piegato alle sue ragioni un complesso sistema di norme religiose che, per brevità, chiamiamo islam. I moderni stili di consumo, che si sono rapidamente affermati negli ultimi vent’anni nel mondo musulmano, sono caratterizzati da due decisivi elementi: da un lato, essi sono vissuti come espressione di una libera scelta individuale (ciò vale soprattutto per le donne che, sino a qualche decennio fa, erano conformisticamente condizionate da modi di vestire e di portamento modesti, da abiti poco appariscenti) e, dall’altro, le merci consumate sono cariche di segni religiosi, che consentono di conformare la propria fede mentre si consuma qualcosa o si acquista un oggetto. In tal senso il profilo di questo consumatore musulmano non è visto dai grandi marchi della moda o dalle grandi corporations che vendono prodotti halal (cioè leciti) come un consumatore passivo, ma come un soggetto consapevole della propria identità religiosa. Perciò la strategia del marketing è orientata a stimolare il consumo offrendo, allo stesso tempo, ampie possibilità di scelta individuale3, che possano apparire conformi ai principi e ai precetti della legge coranica.

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Nella fossa dei leoni. A proposito di intellettuali e destino

intellettuali

di Luca Lenzini

[Intervento all’incontro A cosa servono gli intellettuali oggi, Torino, 20 aprile 2017].

«You call it luck, I call it destiny»
Danny Dravot a Peachy Carnehan,
The Man who would be a King

1. «Ah elle est bonne

Negli anni Settanta Gilles Deleuze e Michel Foucault negavano apertamente agli intellettuali il diritto di “parlare per gli altri”, in coerenza con una contestazione altrettanto radicale del concetto di rappresentanza. Per questo un libretto che raccoglie le conversazioni di quel periodo tra Deleuze e altri (oltre a Foucault, Toni Negri, Félix Guattari, Guy Dumur), riproposto ora in Italia da Medusa, può legittimamente intitolarsi La fine degli intellettuali1. La prospettiva in cui s’inserivano quei discorsi, infatti, era in chiave con una idea di rivoluzione sociale – niente di meno – quale a partire dalla fine del decennio precedente aveva avuto corso non solo in Europa, ma anche negli U.S.A. e in America latina. Verso la fine degli anni Ottanta Zygmunt Bauman pubblicò poi un libro intitolato Legislators and Interpreters2, titolo che nell’edizione italiana passò a sottotitolo, mentre nel frontespizio ne campeggiava un altro, La decadenza degli intellettuali3. Potrebbe sembrare che vi sia continuità tra la fine auspicata da Deleuze e la decadenza annunciata da Bauman, ma le prospettive erano invece profondamente diverse e c’era di mezzo una svolta epocale. Non a caso, Bauman in chiusa al suo saggio affrontava di petto il tema del Post-moderno, e lo faceva riproponendo in positivo una tradizione coincidente con quella stessa della Modernità, ovvero il progetto di emancipazione e autonomia di cui la cultura neoliberista, presentandosi come continuatrice, si è in realtà bravamente sbarazzata. Chissà se il traduttore italiano (o l’editore stesso di Legislators, Alfredo Salsano, un intellettuale d’indubbio spessore), così interpretando il titolo del libro, abbia allora inteso connotare l’evoluzione (o involuzione) indicata da Bauman partendo dall’assunto che l’idea di decadenza, a quell’altezza, faceva ormai parte dei luoghi comuni, incluso quel tanto di ridicolo che dall’ultima fin de siècle accompagna la categoria, sia pure indistinta nei lineamenti sociali e ridotta a postura o stereotipo. Certo è che la revoca del “mandato”, per dirla con il Fortini dei Sixties, avveniva ora per opposte ragioni, non più “dal basso” e in vista del mutamento, ma dall’alto e per mantenere lo status quo di una società sì divisa, ma normalizzata e come tale regolata da saperi settoriali, specialistici. Del resto, Herbert Lottman in La rive gauche (1983) aveva pur dipinto la parabola di progressiva emarginazione del ruolo degli intellettuali francesi tra il “Fronte Popolare” e la “Guerra Fredda” chiudendo il suo ampio affresco con una battuta da Fin de partie di Samuel Beckett: «Significare? Noi, significare? Ah, questa è buona!»4.

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L’America e la secolarizzazione

L'America e la secolarizzazionedi Emiliano Ilardi

Ci sono sostanzialmente tre modi per intendere la secolarizzazione: come totale desacralizzazione della società; come riduzione del sacro alla dimensione privata; come assorbimento del sacro all’interno della sfera pubblica laica, per cui, come sosteneva Talcott Parsons (e in qualche modo anche Max Weber), la religione si integra nei simboli e nelle strutture della società moderna secolare (ad esempio in gran parte del diritto dei paesi occidentali, sono presenti valori cristiani). La potenza di tali derive aveva portato a credere che, prima o poi, le religioni avrebbero perso la loro dimensione autonoma, il loro spazio e, quindi, la loro capacità di influire e modellare la sfera pubblica. Se guardiamo a ciò che è accaduto negli ultimi trent’anni tale processo sembra lontano dal realizzarsi e anzi, come scrive Rino Genovese in un precedente intervento su questo sito, oggi siamo probabilmente di fronte a “una vera e propria inversione della secolarizzazione”, a una sacralizzazione del secolare. Alcune religioni (non tutte) dimostrano cioè una straordinaria capacità di sopravvivenza e adattamento alle derive di un mondo che si va facendo sempre più consumista e tecnologico in cui, come ha affermato Manuel Castells, ogni elemento immateriale (perfino Dio) si materializza, si reifica, occupa una spazio, si fa bit.

In realtà questi tentativi di negoziazione con il “progresso” non sono nuovi: è almeno dal XVI secolo (se non prima) che, ad esempio, la religione cristiana cerca di inglobare dentro la dimensione del sacro le derive della modernità e della secolarizzazione. E lo ha fatto in due modi distinti: il protestantesimo attraverso l’ascesi intramondana, ossia sacralizzando le capacità produttive dell’individuo (il lavoro); il cattolicesimo attraverso la spettacolarizzazione di stampo gesuita della Chiesa stessa intesa come istituzione multiuso, che deve essere capace di diventare un contenitore suscettibile di assorbire al suo interno tutte le possibili differenze culturali o di stili di vita (il consumo) e dare loro un senso (si pensi al barocco sincretico dell’America Latina). Entrambi i modelli hanno essenzialmente due punti deboli. Il primo non può reggere alle potenti spinte dell’ethos consumistico che nel corso dei secoli ha velocemente sostituito la produzione come fonte di identità individuale; esso, per la sua natura effimera, è difficilmente riconducibile a Dio e alla salvezza ultramondana, come invece avveniva per la semplice accumulazione di ricchezza. Il secondo è troppo legato all’istituzione ecclesiastica, per cui se questa va in crisi, rischia di crollare tutto l’impianto religioso su cui si appoggia; d’altronde, come ha fatto notare Fabio Tarzia in un suo recente commento alle Lettere Provinciali di Pascal (La morale dei gesuiti, Roma, Manifestolibri, 2016), l’elezione al soglio ponficio di un gesuita come Papa Francesco è proprio l’estremo tentativo della Chiesa di salvare se stessa e quindi l’intero cattolicesimo che, senza un istituzione centralizzata, semplicemente non ha più senso e non può che dissolversi. È su questi due punti deboli che è cresciuta la secolarizzazione europea, prima nei paesi protestanti e negli ultimi anni anche in quelli cattolici.

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Cultures in Movement: New Visions, New Conceptual Paradigms

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De capitalismo disputandum est

Rahel Jaeggidi Leonard Mazzone

[Questo articolo è apparso su “L’Indice”, 6, giugno 2017]

Dallo scoppio della crisi economico-finanziaria a oggi, la nozione di “critica” è tornata al centro del dibattito internazionale delle scienze umane e sociali. Paradossalmente, però, il sistema economico e sociale da cui è maturata quella crisi non è stato sottoposto a un’interrogazione altrettanto attenta e severa, soprattutto da parte degli specialisti di una disciplina a vocazione fortemente normativa come la filosofia politica. All’interno di questo campo disciplinare si è tornati a problematizzare la nozione di critica nella sua doppia veste di attività teorica e di prassi sociale, senza però annoverare fra i suoi oggetti di analisi e, quindi, fra i suoi bersagli polemici il capitalismo neoliberale.

La regolarità di una simile tendenza trova un’eccezione esemplare nel volume Forme di vita e capitalismo curato e tradotto da Marco Solinas, che raccoglie alcuni dei contributi più originali pubblicati in materia da Rahel Jaeggi. Prendendo le mosse da Theodor Adorno e dai suoi Minima Moralia, la titolare della cattedra di filosofia pratica e sociale all’Università di Berlino tenta di aggiornare uno degli obiettivi programmatici originari della Scuola di Francoforte – la critica del capitalismo – rinnovando gli strumenti concettuali adottati dai primi esponenti della teoria critica della società.

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La Comune di Parigi, un urbanesimo rivoluzionario

Mario Pezzella

[Intervento al convegno “Diritto alla città”, Roma, 24-25 novembre 2016]

La Comune – il suo tentativo di rivoluzionare lo spazio urbano e sociale – rappresenta per Lefebvre un possibile sconfitto e represso nel passato, ma che pure può ripresentarsi attuale nel presente. Quest’idea è legata alla concezione filosofica generale di Lefebvre, secondo cui la realtà storica è una pluralità di possibili coesistenti, e non solo la linea maestra e univoca del progresso imposta dai vincitori del momento. In condizioni mutate, un possibile prima sconfitto può riattualizzarsi e modificare retrospettivamente la nostra percezione del passato nel suo insieme: d’altra parte il possibile nel senso in cui ne parla Lefebvre non è una fantasia arbitraria sostituibile con altre, ma possiede una sua oggettività storica documentabile e ricostruibile, benché dimenticata o posta fuori dall’ordine del discorso: “Il passato diviene o ridiviene presente in funzione della realizzazione dei possibili oggettivamente inclusi nel passato. Esso si svela e si attualizza con essi”1. La Comune è un possibile di questo tipo e in questo senso, anzi è un nesso di possibiltà che investe tutti i campi e i settori della vita associata. Ovviamente è qui impossibile considerare tutti gli aspetti politici, istituzionali, artistici, linguistici, giuridici, coinvolti dall’utopia rivoluzionaria della Comune secondo Lefebvre. Ci limiteremo a considerare alcune osservazioni che egli dedica al modo in cui la Comune ha considerato la città e il suo destino storico.

Tra gli obiettivi della Comune, c’era la riappropriazione della città, che le trasformazioni di Haussmann avevano iniziato a rendere estranea agli strati popolari della città. D’altra parte questa estraniazione non è in quell’epoca completa, gli spazi e gli edifici della città ancora si contrappongono secondo strutture simboliche distinte, sono ancora una proiezione spaziale delle separazioni sociali e lavorative: “La Parigi militare e la Parigi ufficiale (statuale e governamentale) con i loro palazzi, i loro monumenti e le loro strade, proiezione sul terreno della struttura sociale e politica, si sovrappongono senza soffocarla alla Parigi popolare”2. La città è trasfigurata da una estesa immaginazione mitica, che diviene essa stessa parte della lotta politica, appare come “Città santa”, Gerusalemme e Terra Promessa, dal cui possesso dipende per intero la salvezza degli abitanti: “Il popolo ha santificato la Babilonia moderna. La città dei re e degli imperatori diviene la Città santa “assisa ad Occidente” (Rimbaud), Gerusalemme e Roma del mondo moderno”3. La critica generale della separazione – degli spazi, dei lavori, degli universi simbolici – imposta dal capitale è l’intenzione generale della Comune, ed essa investe anche la città come luogo simbolico materiale: La Parigi insorta ha ancora la forza di voler combattere la sovrapposizione della città come luogo centralistico del potere statale alla dispersione e alla festa della vita popolare della città (di questa lotta è sintomo e simbolo l’abbattimento della colonna Vendôme ).

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La secolarizzazione e il suo contrario

Monoteismi al biviodi Rino Genovese

Il mondo cosiddetto globalizzato è in realtà frammentato in un insieme di culture particolari che hanno in sé una notevole capacità di proiezione universalistica, ed è questo a distinguerle dalle forme di vita puramente locali che sono semplici comunità. Soltanto se si rifiuta una visione d’impronta pasoliniana – che vede nella globalizzazione un approfondimento della tendenza all’omologazione culturale, in continuità con una lettura diffusa negli anni sessanta e settanta del Novecento – ci si può fare un’idea chiara intorno al massiccio ritorno delle religioni sulla scena pubblica a partire dalla data simbolo del 1979, l’anno della rivoluzione iraniana con la sua imprevedibile (stando ai teorici di una modernizzazione ineluttabile) svolta teocratica. Il motivo di fondo di questo ritorno su scala planetaria è dato però più da una componente anticonsumistica, del tutto evidente nei fondamentalismi, che da una rassegnata sottomissione delle religioni al consumo – il quale poi altro non è che una sottosfera della più ampia sfera economica.

A una de-differenziazione delle funzioni sociali sotto il primato dell’economia (di un’economia finanziarizzata che tende a privare di autonomia la stessa politica, com’è stato possibile osservare negli ultimi decenni) fa da contraltare una tendenza de-differenziante incentrata sulla ripresa delle tradizioni culturali. Economia vs. cultura, dunque, o meglio vs. culture al plurale, considerando che la stessa sfera economica, in particolar modo attraverso la sottosfera del consumo, si fa cultura nel senso di una determinata versione dell’individualismo occidentale moderno nella modalità presentista dell’hic et nunc (meglio l’uovo oggi che la gallina domani, per dirla volgarmente). L’economia, con la prevalenza del momento del consumo su quello della produzione, ha così in larga misura capitalisticamente reincorporato il mercato nella più ampia comunicazione sociale (in maniera opposta alla diagnosi di Polanyi, quindi) grazie soprattutto alla fascinazione esercitata dallo sfolgorio delle merci estetizzate.

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Festival del pensiero ribelle

Festival del Pensiero ribelle

Nel tempo del conformismo planetario e delle coscienze postmodernizzate a globalizzazione avanzata, è bene tornare ad affilare le armi della critica.

È quanto si propone di fare il Festival del pensiero ribelle“, organizzato nel parmense il 9, 10 e 11 giugno nei comuni di Sissa-Trecasali, Polesine-Zibello, Roccabianca, in Emilia Romagna.

Si tratta di una iniziativa nata dalla necessità di riprendersi uno spazio, quello del “pensiero”, per azioni, dando voce a pensatori considerati talvolta scomodi e comunque fuori dal coro.

Di assoluto rilievo nella tre giorni saranno certamente la presenza del giornalista e saggista Massimo Fini (il 9 giugno a Sissa), gli interventi di Marco Travaglio e di Emanuele Severino (il 10 giugno a Zibello), la conferenza del giornalista e scrittore Marcello Veneziani (l’11 giugno a Roccabianca).

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Monoteismi al bivio?

Monoteismi al biviodi Fabio Tarzia

Il mondo globalizzato che oggi abitiamo, e che si definisce con termini ormai stereotipati quali individualista, digitalizzato, post-moderno, post-umano, ha lasciato sul campo di battaglia devastato un’unica, grande struttura ideologica e culturale in grado di costruire e mantenere identità collettive: quella religiosa. I grandi monoteismi appaiono ancora in piedi, mentre le possenti ideologie del passato, da quella umanistico-illuminista a quella marxista, sono entrate in crisi e in alcuni casi si sono praticamente dissolte.

La cosa non è irrilevante. I processi di globalizzazione, infatti, sin dai tempi dello spazio “omogeneizzato” dell’impero romano con cui ebbe a confrontarsi Paolo di Tarso, sono una decisiva opportunità per le religioni monoteiste in quanto ne favoriscono l’azione universalistica di diffusione ed espansione, azione che è il fulcro della loro esistenza e della loro tenuta identitaria.

In particolare per ciò che riguarda il cristianesimo, è durante la lunga fase che prende avvio nel Cinquecento e si concretizza con l’esplodere della rivoluzione industriale e la nascita del capitalismo e della modernità, che per la prima volta si affronta il nodo cruciale del rapporto con la materialità, con la “moneta”, con lo “sterco del demonio”, secondo la celebre definizione di Lutero. È in questi decenni ad esempio che il calvinismo sperimenta con successo la sublimazione del momento produttivo attraverso la sfera religiosa: il lavoro è reso finalmente “abitabile” a un numero relativamente diffuso di persone. Una volta predestinato l’uomo è lasciato libero di muoversi nel mondo, si mondanizza, avendone avuta legittimazione: non è più Dio che “lavora nel mondo” attraverso l’uomo “punito”, carcerato, ed espiante (come nel cattolicesimo), ma l’uomo che lavora liberamente per conto di Dio, avendone cioè ricevuto la delega, e presentando il libro dei conti alla fine del contratto.

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Filosofia sociale e politica. Lezioni in Cina (1919-1920)

Filosofia sociale e politicaLe lezioni tenute da John Dewey a Pechino nel 1919-1920, presentate qui per la prima volta in forma completa al pubblico italiano, costituiscono un documento prezioso per gettare luce su uno degli aspetti più intricati e intriganti, ma ancora meno discussi, dell’opera del filosofo americano, ovvero la sua filosofia sociale.

Nelle lezioni in Cina, Dewey delinea un nuovo tipo di filosofia (“terza filosofia”), in grado non solo di capire le trasformazioni del presente, ma anche e soprattutto di farvi fronte e provare a orientarle.

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Teoria critica ieri e oggi

Teoria critica ieri e oggi

 

10 maggio 2017
h. 10.00- 17.30

sala Consiliare complesso S. Lucia di Ferrara
via Ariosto 35

I. Mattina
presiede Matteo d’Alfonso (Ferrara)

10:15 Rino Genovese (Pisa)
Dalla teoria critica della società alla teoria sociale critica

11:00 Stefano Petrucciani (Roma)
Axel Honneth e l’idea del socialismo

11:45 Pausa caffè

12:00 Laura Bazzicalupo (Salerno)
Il pensiero concreto: la critica non normativa post-strutturalista

13:00 Pausa pranzo

II. Pomeriggio

presiede Marco Bertozzi (Ferrara)

14:30 Mario Pezzella (Pisa)
Immagine di sogno e immagine dialettica: il disaccordo tra Benjamin e Adorno

15:15 Barbara Carnevali (Parigi)
Una critica del riconoscimento

16:00 Pausa caffè

16:15 Filippo Domenicali (Ferrara)
Critica della ragione neoliberale: Foucault e Rosanvallon

Religioni nella metropoli. Tra consumo e fondamentalismo

MATTINA

Prima sezione: 09.30-10.40 (Introduzione)

09.30-09.50: Fabio Tarzia (Università “La Sapienza” Roma): Monoteismi al bivio?

09.50-10.10: Rino Genovese (Fondazione per la critica sociale): La secolarizzazione e il suo contrario

 10.10-10.40: discussione e interventi programmati

10.40-11.10: coffe break

Seconda sezione: 11.00-12.30 (Islam)

11.10-11.30: Vincenzo Pace (Università di Padova): Consumare Islam. Da Mecca-Cola a Dolce&Gabbana

 11.30-11.50: Roberto Gritti (Università “La Sapienza” Roma): Tra fede e mercato: l’economia globale islamica

11.50-12.30: Discussione e interventi programmati

POMERIGGIO

Terza sezione: 15.00-17.00 (Ebraismo e Cristianesimo)

15.00-15.20: Andrea Colombo (Il manifesto): Ebraismo e consumo: tra precetti e devianze

15.20-15.40: Padre Giulio Cesareo (Facoltà teologica “San Bonaventura” Roma): Il simbolo: le cose come “casa” delle relazioni interpersonali

 15.40-16.00: Fabio Di Pietro (Università di Sassari): La prospettiva della dottrina sociale della Chiesa cattolica

 16.00-16.20: Emiliano Ilardi (Università di Cagliari): Il puritano veste Prada. Gli evangelici alla conquista del mondo.

 16.20-17.00: discussione e interventi programmati

Discussant: Alberto Abruzzese, Giuseppe Anzera, Marco Bruno, Mattia Diletti, Massimo Ilardi, Emiliano Laurenzi, Giovanni Ragone

A cosa servono gli intellettuali oggi?

intellettualiUn ciclo di tre incontri

20 aprile, 23 maggio, 30 maggio 2017

ore 18,30

Unione culturale Franco Antonicelli

Via Cesare Battisti 4b Torino

 

Criticare il potere, smascherare gli inganni, rifiutare i ricatti, le alternative imposte, le verità assolute: questo il ruolo degli intellettuali da Platone a Foucault. Oggi, però, assistiamo a una crisi della loro funzione dovuta alla paralisi inflitta all’azione e all’immaginazione politica da una razionalità di mercato a cui non sembra esserci alternativa. Inoltre, le logiche spettacolari che oggi dominano l’industria culturale tendono a trasformare gli intellettuali in star mediatiche ad alto tasso di narcisismo, più funzionali alla creazione di consenso che suscitatori di pensiero critico. A ciò si aggiunge l’ostilità di chi identifica negli intellettuali uno degli obiettivi della militanza anti-casta e anti-sistema dimenticando che solo l’esercizio del libero pensiero può dar vita a forme nuove di solidarietà e spazi inediti d’azione.

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Gli anarchici e noi. A proposito del volume di Claudio De Boni “Liberi e uguali”

Liberi e uguali

di Rino Genovese

È una sorta di nemesi storica. La prosopopea, l’aria di sufficienza con cui i marxisti più o meno ortodossi guardavano un tempo al pensiero e all’esperienza degli anarchici come a degli arnesi da museo, oggi non hanno più ragion d’essere. Incredibilmente, l’anarchismo si è preso una sua rivincita – pur nella generale eclissi della ricerca intorno a un’alternativa sociale e politica al capitalismo nel mondo contemporaneo. Infatti, non appena ci si voglia allontanare dallo statalismo caratteristico sia della socialdemocrazia sia del comunismo storici, è a prospettive come quella associazionistica e mutualistica, quindi in particolar modo a Proudhon e agli anarchici, che bisogna rivolgersi. Il “socialismo scientifico” ha dimostrato di non essere affatto scientifico: è necessario rifarsi ai “sogni” di un socialismo utopico, dentro cui lo stesso pensiero di Marx, in ciò che contiene di valido, va ricompreso. Il pensiero socialista può ritrovare la strada solo sostituendo, alla pretesa di collocarsi sul fronte d’onda della storia universale, l’idea di una possibilità irrealizzabile, oggi priva di un retroterra in un movimento sociale specifico come fu il movimento operaio, e che però, proprio per questo, può incidere nel corso storico senza doversi piegare ad esso. Il socialismo ha da ereditare, certo con beneficio d’inventario, l’intera sua vicenda e ripensare tutta la tradizione dell’individualismo sociale – che è altra cosa rispetto al puro e semplice collettivismo e alle sue realizzazioni novecentesche.

Sono queste le considerazioni che vengono alla mente chiudendo il bel libro di Claudio De Boni, Liberi e uguali. Il pensiero anarchico in Francia dal 1840 al 1914 (Mimesis 2016). Un volume di 450 pagine, che non si potrebbe definire “agile”, ed è tuttavia molto scorrevole alla lettura. L’autore ricostruisce nel dettaglio lo svolgersi di un pensiero che dal Proudhon del 1840 pone capo a quel “circolo Proudhon” formato da anarco-sindacalisti, o sindacalisti rivoluzionari, e da nazionalisti cattolici e ultrarealisti che insieme, in un terribile connubio, daranno il loro contributo alla catastrofe europea della prima guerra mondiale e alla successiva affermazione dei fascismi. Strascichi di quella vicenda saranno operanti ancora nella Francia di Vichy. Intanto, però, tra la repressione sanguinosa della Comune di Parigi (al cinquanta per cento anarchico-proudhoniana e per l’altro cinquanta giacobino-blanquista) fino allo spartiacque del 1914 quante controversie interne (in particolare tra la corrente anarco-individualista e quella anarco-comunista), quante lotte sociali, quanti attentati terroristici!

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Seminario di filosofia politica e sociale

SEMINARIO DI FILOSOFIA POLITICA E SOCIALE
La società degli individui – Quadrimestrale di Filosofia e teoria sociale
PhD School in Philologico-Literary, Historico-Philosophical and Artistic Sciences

FORMS OF LIFE AND CAPITALISM

A One Day Workshop with Rahel Jaeggi

20th February, 2017, University of Parma, 10: 30 a.m. – 18:00 p.m.

Dipartimento DUSIC Unità di Filosofia

Aula di Presidenza – Via D’Azeglio 85

Speakers:

Rahel Jaeggi (Humboldt – Berlin)

Matteo Bianchin (Milano Bicocca); Paolo Costa (FBK Trento);

Giorgio Fazio (Roma/Berlino); Federica Gregoratto (St. Gallen);

Leonardo Marchettoni (Parma); Alessandro Pinzani (UFSC – Florianopolis)

Marco Solinas (Firenze); Italo Testa (Parma)

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Forme di vita e capitalismo

Forme di vita e capitalismoCome dovremmo vivere? Le odierne società capitalistiche permettono effettivamente alle nostre forme di vita di fiorire?
O invece, esponendole a condizioni di dominazione e sfruttamento, cooperano ad arrestarne e inibirne i processi di sviluppo?
Sono le domande di fondo a cui Rahel Jaeggi cerca di offrire una risposta in questo volume.

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Direi di no. Desideri di migliori libertà

Martedì 29 novembre – Ore 16.30
Aula H Via Fieravecchia 19 (2° piano)
Incontro con Enrico Donaggio a proposito del suo saggio:

Direi di no. Desideri di migliori libertà

Feltrinelli, 2016

Coordinano Rino Genovese e Luca Lenzini

Siamo diventati incapaci di un gesto elementare:
dire di no. L’arma più potente e carica
di speranza per chi desiderava libertà diverse da quelle
concesse dal presente. Libertà migliori di quelle proposte
oggi da un capitalismo che racconta di essere
l’orizzonte unico e privo di alternative.
Come è stato possibile fino a ieri dire di no?
In quale misura potrebbe tornare a esserlo?
Esistono gesti di libertà con cui incidere davvero sul reale?
Queste le domande che ci pone nel suo libro Enrico Donaggio,
al centro anche del nuovo incontro promosso dal Centro Studi Franco Fortini.

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Il nesso tra i totalitarismi e i populismi

di Marco Gatto

[Questo articolo è apparso su “il manifesto” del 17 ottobre 2016]

Totalitarismi e populismiCon Totalitarismi e populismi (manifestolibri, pp. 96, 8 euro) Rino Genovese ripropone una visione della storia come compresenza e ibridazione di tempi storici differenti, legandola all’analisi specifica dei due fenomeni menzionati nel titolo. Nel caso dei totalitarismi novecenteschi e delle loro conseguenze, si tratta di capire come essi siano la manifestazione di una modernità che non riesce mai perfettamente a compiersi, di un passato che non riesce mai a passare, generando così una coalescenza di tempi storici diversi che mette capo a un’impossibile realizzazione delle promesse del moderno. Ciò che appare imprevedibile, tuttavia, di contro all’apparente stasi cui la modernità si condannerebbe, è proprio il modo in cui il passato si miscela al presente, la combinazione in cui vecchio e nuovo si danno. La cultura occidentale moderna, sottolinea Genovese, vive alla luce di questo continuo confronto con l’alterità, che, per essere acquisita o superata, è sottoposta a un processo di ibridazione: l’Occidente da sempre si costituisce a partire dal suo “altro”, ma questo tentativo di assorbimento dell’alterità è costretto alla parzialità, secondo i termini di uno «sradicamento mai completamente portato a termine», che lo condanna alla presenza ossessiva di una non-contemporaneità.

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Lo scrittore al tempo di Pasolini

Pasolini

 

PASOLINI E LA PLEBE DI NAPOLI

di Mario Pezzella

[Traccia dell’intervento al convegno dell’11-12 novembre a Casarsa]

In una recente intervista (su “Tysm”) M. Hardt ha detto come Pasolini fosse costantemente alla ricerca di un fuori: fuori del neocapitalismo consumista, della modernità, della “informe accidia” della omologazione. Un fuori che Hardt contrappone all’antagonismo interno, che nasce cioè da un soggetto rivoluzionario all’interno stesso del capitale, così come il proletariato –secondo Marx – è generato da quelle stesse forze del capitale che è destinato a vincere e superare. Pasolini non credeva a questo antagonismo interno, di classe, e da questo punto di vista prendeva le distanze dal marxismo, pur condividendone molte istanze critiche. Questo fuori, che lui cercava, ha ricevuto diverse incarnazioni nelle sue opere, dai borgatari romani, ai popoli premoderni dello Yemen o dell’India: una di queste incarnazioni è la plebe di Napoli, una resilienza ostinata del premoderno – secondo lui – all’interno della modernità. Tracce consistenti di questa visione si trovano nel Decameron e poi in Lettere Luterane, nei paragrafi in cui dialoghi con un immaginario ragazzo napoletano, Gennariello: “Napoli è ancora l’ultima metropoli plebea, l’ultimo grande villaggio…Questo fatto generale e storico livella fisicamente e intellettualmente le classi sociali. La vitalità è sempre fonte di affetto e ingenuità. A Napoli sono pieni di vitalità sia il ragazzo povero che il ragazzo borghese”.

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Critica della trasparenza

Critica della trasparenzaCi sono miti culturali che consentono di riflettere sulla modernità a partire dalle sue radici, permettendo di indagarne gli sviluppi e le polarità fondamentali: tra questi, il mito della trasparenza che, nato in ambito architettonico con l’erezione del Crystal Palace di Londra nel 1851, da tempo non riguarda più soltanto la creazione di spazi caratterizzati da una totale reversibilità ottica di interno ed esterno, ma è ormai divenuto un concetto chiave del dibattito politico e sociale di tutto l’Occidente.
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