Gli errori di Marx

di Rino Genovese

Quando si parla degli errori di Marx, ci si riferisce per lo più alle sue previsioni sbagliate: alla teoria dell’impoverimento crescente (smentita dallo sviluppo dei ceti medi e dal relativo benessere che, fin dai primi del Novecento, coinvolse anche la classe operaia), oppure alla presunta legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, che avrebbe dovuto condurre il modo di produzione capitalistico verso la sua crisi risolutiva.

Ma questi “errori” fanno parte in effetti di un unico grande errore compiuto da Marx, quello di avere voluto conferire alla sua critica dell’economia politica lo statuto di una scienza “predittiva” sul modello delle scienze naturali. Al contrario la teoria di Marx s’inserisce, sia pure con un suo alto livello di complessità, in una tradizione che è quella del pensiero utopico. Si tratta allora di ritornare alla radice utopica del socialismo, anziché predicare un “socialismo scientifico”.

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Il marxismo spazzolato contropelo. La questione dei tempi multipli

di Vittorio Morfino

La teoria della temporalità marxista si basa su una concezione della storicità ereditata da Hegel e su una costellazione di concetti fondamentali sviluppati dalla grande tradizione illuministica: unicità, continuità, stadialità epocale. Non è difficile trovare questa problematica in testi come il Manifesto del Partito Comunista o la Prefazione del 1859, da cui si può tracciare una lunga serie di filiazioni che arrivano fino ai giorni nostri.

Tuttavia, tracciando i contorni della tradizione marxista, è possibile individuare una serie di concetti (che indico attraverso la categoria generale di “temporalità plurale”) che sembrerebbe segnalare l’inadeguatezza di una concezione lineare dello sviluppo storico. Nell’intervento saranno esaminati alcuni momenti salienti: dal Diciotto Brumaio alla Lettera a Vera Zasulič, dal Bloch di Eredità di questo tempo a quello di Sul progresso, fino all’Althusser della temporalità differenziale e oltre.

Note sulla formazione del valore

di Federica Giardini

È agli inizi del 2000 che la critica sociale comincia a registrare la perdita di efficacia della nozione di dominio – che individua la linea teorica che va da Hegel a Butler, passando per Simmel e Foucault – per riaprire all’uso degli strumenti marxiani (Fraser, Honneth, Redistribuzione o riconoscimento? 2003).

Se le nozioni marxiane di sfruttamento (E. Renault, Ressources, problèmes et actualité du concept d’exploitation, 2018) e di accumulazione (S. Mezzadra, La cosiddetta accumulazione originaria, 2008) sono state oggetto di riletture volte ad attualizzarne l’uso, va nondimeno registrato il recente ritorno di interesse – articolato, plurale e dunque meno definito – per il nesso marxiano tra sfruttamento e teoria del plusvalore, che si concentra sulle attuali dinamiche di attribuzione del valore.

C’è vita su Marx? Valore, denaro, capitale e crisi nella critica dell’economia politica

di Riccardo Bellofiore

La teoria economica di Marx deve essere ricostruita come teoria macrosociale e monetaria della produzione capitalistica. Sul terreno del metodo si suggerisce la necessità di comprendere in modo appropriato le distinzioni tra critica dell’economia politica e economia politica critica, e tra carattere di feticcio e feticismo.

La relazione si focalizzerà soprattutto sul primo libro del Capitale, tornando sulle controversie in merito a lavoro astratto, denaro, socializzazione, sfruttamento, concorrenza, salario e riproduzione. Non verrà trascurato, però, un accenno al cosiddetto problema della trasformazione e alla teoria della crisi. Ci si chiederà quale sia l’attualità del discorso marxiano nel mondo della sussunzione reale del lavoro alla finanza e della centralizzazione senza concentrazione.

Dominio e critica della società. Marx e la semantica del potere

di Maurizio Ricciardi

La relazione si concentra su alcuni aspetti della semantica del potere in Marx, per vedere se essa possa ancora stabilire la base per una analisi delle forme storiche e quindi anche contemporanee di subordinazione politica e sociale. L’intento è mostrare che esiste in Marx una specifica analisi del potere e della sua possibile dissoluzione, che mostra elementi di validità anche nell’epoca del neoliberalismo.

All’interno della distinzione tra potere e dominio che è già centrale nel Manifesto, Marx individua una specifica tensione tra il potere politico e quello sociale che mostra la sostanziale insufficienza del primo. Ciò coinvolge ovviamente il giudizio marxiano sullo Stato, sulla sua funzione storica e sulla sua possibilità concreta di modificare realmente il rapporto di capitale.

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Marx e i furti della legna: consuetudini, crimini e misfatti

di Jamila Mascat

Nell’autunno del 1842 Marx pubblica sulla Rheinische Zeitung una serie di cinque articoli che discutono le deliberazioni della Dieta renana in merito alla legge contro i furti della legna. In tale occasione Marx sviluppa una critica della nuova legislazione che, in nome della tutela legale della proprietà, sanziona e punisce la pratica consuetudinaria dei contadini d’Oltrereno di appropriarsi dei rami caduti nelle foreste demaniali.

L’intervento prende le mosse dalla ricostruzione dell’argomento elaborato da Marx in difesa dei “furti della legna” per indagare lo statuto e la funzione del diritto negli scritti del primo Marx. Analizzando la critica – eminentemente giuridica – del diritto positivo che egli elabora in queste pagine della Rheinische Zeitung, si procederà a situare la prospettiva marxiana rispetto alle sue fonti – Hegel e Gans, da un lato, e la scuola storica di Savigny, dall’altro – allo scopo di far luce sulle ambivalenze polisemiche del concetto di diritto e i suoi differenti usi nella teoria del giovane Marx.

Soggettività vs. soggetto automatico: il rapporto di capitale e i suoi antagonismi

di Giorgio Cesarale

Secondo la tesi di Ernesto Laclau, il rapporto fra capitale e forza-lavoro sarebbe oggettivamente non antagonistico. Se una contraddizione si viene a costituire tra capitale e forza-lavoro, questa dovrà la sua origine a rapporti sociali extra-produttivi e soprattutto a un investimento di carattere politico.

Ma il concetto di “forza-lavoro” è davvero così impotente socialmente e politicamente? Il ragionamento di Marx, nella sua critica dell’economia politica, si muove precisamente lungo la direzione opposta. La nostra tesi è che per comprenderlo occorra misurarsi attentamente con le articolazioni più fini del concetto di “forza-lavoro”, specie là dove, come nei Grundrisse, esso viene associato a quello di “soggettività”.

Dall’analisi di tali concetti risulterà che il rapporto fra capitale e forza-lavoro ha bisogno, per costituirsi, di separare le sue determinatezze: deve cioè ospitare il non-rapporto, generando le condizioni di possibilità del conflitto, o, nel linguaggio di Laclau, dell’antagonismo.

Il discorso del capitalista. Tra Marx e Lacan

di Mario Pezzella

Nel corso di scritti e seminari tenuti negli anni dal 1968 in poi, Lacan ha sempre più distinto un “discorso del capitalista” dal tradizionale “discorso del padrone”. Il primo sarebbe caratterizzato da una inedita “ingiunzione al godimento”, caratteristica del capitalismo nella sua fase di dominio della fantasmagoria consumista delle merci, mentre il secondo era ancora dominato dal rapporto servo-signore e dalla lotta per il riconoscimento.

Questa riflessione di Lacan è direttamente condizionata dagli eventi del Sessantotto e dal difficile dialogo con gli studenti in rivolta, i quali, secondo Lacan, avrebbero continuato a ragionare pensando a un “padrone repressivo” nei riguardi del desiderio, piuttosto che a un capitalista produttore di godimento consumistico. Oltre che essere direttamente ispirata dagli eventi degli anni in cui si svolgeva il seminario, tale riflessione permette di avviare una riflessione sulla categoria di “inconscio sociale” (distinguendolo da inconscio personale e collettivo) e del suo attuale rapporto con le forme del capitale.

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Decodificare il geroglifico. Marx e la letteratura come forma implicita dell’umano

di Daniele Balicco

Se fosse riuscito a finirlo, Marx avrebbe voluto scrivere, dopo il Capitale, un saggio sull’opera di Honoré de Balzac. Perfino nella sua opera principale, del resto, la letteratura non è solo archivio di citazioni con cui corrodere il senso comune borghese, ma un modello operativo di conoscenza e di espressione: il Capitale fu progettato e scritto per essere, nello stesso tempo, trattato scientifico e opera d’arte.

Scopo della relazione sarà di provare a verificare cosa interessi al Moro della letteratura, e per quale ragione l’interrogazione intorno al suo potere conoscitivo resti, fino alla fine, irrinunciabile.

La “Palmerstonite”: Marx e la personalizzazione del potere in Inghilterra

di Michele Prospero

In uno scritto del 1857, Marx (The English Election, in Collected Works, vol. 15, p. 226) osserva che “il futuro storico, che scriverà la storia dell’Europa dal 1848 al 1858, sarà colpito dalla somiglianza tra l’appello alla Francia fatto da Luigi Bonaparte nel 1851 e l’appello al Regno Unito fatto da Palmerston nel 1857”. Si intravede, nei sistemi politici europei più importanti, l’emergere di uno schema inedito con il capo che si rivolge direttamente al popolo scavalcando le mediazioni della rappresentanza.

Al di là delle rilevanti differenze storiche, che a metà del secolo hanno disegnato le specifiche istituzioni di governo operanti nei due regimi costituzionali, esiste un comune processo che caratterizza gli ordinamenti della Francia e dell’Inghilterra. Quando gli istituti politici si imbattono in una crisi funzionale, riconducibile agli effetti dirompenti dei processi di allargamento della partecipazione, le risposte secondo Marx tendono a restringere le eterogeneità riscontrabili tra i vari sistemi e talune somiglianze di fondo affiorano nei fenomeni di gestione del potere pur nella persistenza delle differenze ordinamentali. Dinanzi all’impatto di una stessa dinamica storica (l’allargamento delle basi di massa dello Stato), le risposte tendono a convergere in una assunzione di alcuni nodi (personalizzazione del comando e appello al popolo oltre le forme della mediazione).

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General intellect e individuo sociale

di Francesco Raparelli

Nel celebre Frammento sulle macchine dei Grundrisse, Marx presenta due concetti decisivi, di cui nel Capitale si perdono le tracce: il general intellect, utilizzando l’espressione inglese, e l’individuo sociale. Il primo indica lo sviluppo del capitale fisso, ovvero la trasformazione del sapere sociale generale in “forza produttiva immediata”: le macchine, “organi dell’intelligenza umana”. Il secondo concetto, dal primo conseguente, ha una doppia definizione: per un verso, col suo sviluppo, “grande pilastro della produzione e della ricchezza”; per l’altro, a partire dalla precedente qualificazione, esibisce il comunismo come “utopia concreta”.

Secondo un doppio movimento, la relazione presenta la genealogia (possibile) dei due concetti e, nello stesso tempo, la loro consistenza attuale. Da una parte, le premesse averroiste del general intellect, quelle spinoziane dell’individuo sociale; dall’altra, una diagnosi del capitalismo contemporaneo, sempre più innervato dalla nuova robotica, dall’intelligenza artificiale, dalla mente interconnessa.

Marxismo dell’astrazione e critica della cultura

di Marco Gatto

Nel contributo si sostiene che l’attualità del pensiero di Marx consista nel valore gnoseologico e politico attribuito alla nozione di “astrazione reale”, così come viene sviluppata nelle pagine del Capitale. Tale categoria permette di dar conto oggi del nesso inscindibile tra totalizzazione capitalistica e produzione di soggettività appunto astratta, svuotata delle sue determinazioni concrete e votata a un’esposizione fraudolenta del proprio Sé nelle forme nichilistiche del simulacro e della cultura distrattiva.

Incontrando così un nuovo ordine simbolico, costituito dall’estetizzazione del quotidiano, il capitale si presenta oggi come garante di un sistema culturale profondissimo, entro il quale viene a dissimularsi il suo dominio e, come ha scritto, István Mészáros, la sua ambizione metabolica. Il marxismo dell’astrazione rappresenta il contraltare dialettico di questa dimensione nuovamente alienante, un possibile arnese teorico per riabilitare un sapere critico realmente capace di opposizione che però non resti avvinghiato alle contraddizioni del passato e si presenti aperto alle sfide del presente.

Per un gruppo di ricerca sulla sindrome identitaria

Sindrome identitaria

Giuseppe Allegri, Manuel Anselmi, Alberto De Nicola, Renato Foschi, Rino Genovese, Mario Pezzella, Anna Simone

Dalla personalità autoritaria alla crisi dell’identità democratica

Circa settant’anni fa veniva pubblicata la celebre ricerca su La personalità autoritaria condotta tra il 1944 e il 1949 da T.W. Adorno, E. Frenkel-Brunswik, D.J. Levinson e R. Nevitt Sanford (uscita nel 1950 all’interno di una collana dedicata agli Studies in prejudice, a cura di M. Horkheimer e S.H. Flowerman), sostenuta dall’American Jewish Committe e frutto di una collaborazione tra l’impostazione della Scuola di Francoforte, quella della scuola psicoanalitica e ricercatori e ricercatrici di psicologia sociale. Il nostro gruppo intende partire dalla sedimentazione ormai storica di quegli studi per mettere alla prova, con una ricerca specifica, la diagnosi di ordine più generale circa la crisi dell’identità democratica nella sua tradizione liberale, pluralistica e sociale. Nell’ultimo decennio, poi, come conseguenza della grande recessione esplosa nel 2007-2008, si è assistito a una rapida accelerazione della crisi del modello liberale di democrazia fino alla presidenza Trump e al processo Brexit come macro-fenomeni. Il che significa sia la fine conclamata dell’egemonia del “modello atlantico” post-bellico, sia una tendenziale trasformazione della globalizzazione dell’ultimo quarantennio in una sorta di “deglobalizzazione” planetaria.

Siamo oggi alle prese con una riconfigurazione del rapporto governanti e governati, “alto” e “basso”, centro e periferie che, da un lato, sembra riproporre schematizzazioni quasi ottocentesche, visioni elitarie e dirigistiche – l’austerità ordo-liberista e il suo speculare “doppio” nazional-populistico –, mentre, dall’altro, evoca una possibile scomposizione e ricomposizione del demos in un’idea e pratica di cittadinanza attiva intesa come nuova politeia, in grado di aprire spazi di partecipazione verso un superamento dell’organicismo statual-nazionale.

Si tratta di ritornare a interrogare i soggetti, le forme e le sperimentazioni di azioni collettive per democratizzare la democrazia, con processi gius-generativi, capaci di affermare diritti d’inedita cittadinanza sociale, al di là del nesso sovranità-nazione-lavoro salariato, in sintonia con quella transizione che le innovazioni sociali e tecnologiche hanno indotto ormai da tempo, con vite messe al lavoro sulle piattaforme dell’economia digitale e masse di donne e uomini alla ricerca di una vita degna attraverso i flussi migratorî.

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La Germania deve pagare

Il 20 aprile 2018, alle ore 16, la Fondazione per la critica sociale promuove l’incontro

La Germania deve pagare per stragi e deportazioni: la memoria spesata non è risarcimento

Aula didattica del Museo storico della Liberazione, via Tasso 145, Roma.
Intervento introduttivo di saluto di Antonio Parisella, presidente del Museo.

Interverranno il magistrato Luca Baiada e l’avvocato Joachim Lau.

Sui crimini nazifascisti – stragi e deportazioni di italiani, civili e militari, dal 1943 al 1945 – si sono intrecciate fasi di oblio, ricerche serie, memorie accomodate. Dopo la riapertura dell’Armadio della vergogna, emerso anche per l’impegno del giornalista Franco Giustolisi, sono stati celebrati processi penali, conclusi con sentenze clamorose, ma non eseguite per la mancata collaborazione della Germania.
Al posto della giustizia concreta, adesso si notano commemorazioni, monumenti e prodotti culturali discutibili sul piano storiografico, come l’Atlante delle stragi, pagati prevalentemente dallo Stato tedesco, che ammette le sue colpe morali ma respinge le conseguenze pratiche. Queste iniziative riparazioniste non possono rimpiazzare il risarcimento economico, che resta dovuto.
Dopo una decisione del 2012 della Corte internazionale di giustizia, sfavorevole ai cittadini italiani, nel 2014 una sentenza della Corte costituzionale ha ristabilito che si può chiedere a un giudice italiano di condannare lo Stato tedesco ai risarcimenti, sia per stragi che per deportazioni.
Sono in pieno svolgimento da un lato l’impegno processuale per la giustizia, sostenuto da solidi principi giuridici, e dall’altro lo sforzo diplomatico tedesco, con silenzi o sostegni da parte dell’Italia, per non pagare i risarcimenti agli interessati.

Segreteria:
Fondazione per la critica sociale
c/o «Il Ponte»
via Manara 10-12 – 50135 Firenze
fondacritisoc@gmail

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Pasolini senza pasolinismi

Pier Paolo Pasolinidi Rino Genovese

[Questo breve saggio è tratto dal volume collettivo Lo scrittore al tempo di Pasolini e oggi. Tra società delle lettere e solitudine,, a cura di Angela Felice e Antonio Tricomi, Venezia, Marsilio, 2017.]

Certo, se si assimila il neoliberalismo, o la liberaldemocrazia in genere, a un capitalismo imperiale privo di attriti consistenti, a un impero del mercato, a una variante del totalitarismo, beh, allora ci sta che la cosiddetta globalizzazione altro non sia che l’intensificazione e lo sviluppo di ciò che Pasolini denunciava a suo tempo come omologazione culturale1. Ma i fatti, nei decenni trascorsi dalla morte del poeta corsaro a oggi, si sono incaricati di mostrare che la sua era una diagnosi sbagliata. Come inesatte si sono rivelate, in un senso più ampio, le teorie sociologiche circa la secolarizzazione e la modernizzazione incessanti a cui sarebbe stato destinato l’intero globo terrestre.

Si comincia già nel 1979, a soli quattro anni dalla scomparsa di Pasolini, con la rivoluzione iraniana che nacque senza dubbio da un sollevamento popolare antimperialista, ma quasi subito prese una piega imprevedibile stando al dogma di una modernizzazione planetaria. Fu infatti segnata da una svolta teocratica (su cui un osservatore come Foucault aveva inizialmente scommesso, parlando di una «spiritualità politica», salvo prenderne rapidamente le distanze), né marxista né liberale ma neotradizionale, nel senso di una tradizione culturale e religiosa reinventata in maniera immediatamente politica.

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Un convegno, un libro, un viaggio nella letteratura italiana della modernità

Pier Paolo Pasolinidi Angela Felice e Antonio Tricomi

[Esce in questi giorni il volume Lo scrittore al tempo di Pasolini e oggi. Tra società delle lettere e solitudine, a cura di Angela Felice e Antonio Tricomi, Marsilio, Venezia, 2017, pp. 269, € 25,00. Se ne riproduce qui la premessa.]

Per la gran parte, questo libro scaturisce dal convegno cui anche deve il titolo: “Lo scrittore al tempo di Pasolini e oggi, tra società delle lettere e solitudine”, tenutosi l’11 e 12 novembre 2016 e organizzato dal Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia [con il sostegno della Fondazione per la critica sociale]. Con l’aggiunta di qualche altro contributo richiesto dai curatori a saggisti in varia maniera interessati all’opera del poeta delle Ceneri, esso ospita infatti le relazioni dei critici intervenuti in quell’occasione e i lavori della tavola rotonda tra scrittori con cui le due giornate di studio si conclusero.

Le intenzioni del convegno erano perciò le stesse che animano il presente volume. Tentare, da un lato, una ricognizione della società letteraria italiana del secondo Novecento dalla quale potesse, e quindi possa, emergere la fitta rete di rapporti tessuta da Pasolini con molti tra i migliori autori del suo tempo. Chiedere, dall’altro lato, ad alcuni scrittori in attività, appartenenti a generazioni diverse, di confrontarsi con l’eredità del pedagogo “luterano”, per poi dire la loro sullo stato di salute e sul ruolo, oggi, della letteratura, come pure su quelle tendenze documentarie, o comunque ibride, che sembrano attualmente ispirare una quota assai significativa della produzione romanzesca non solo nazionale.

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Intorno alle Mura di Roma

Intorno alle Mura di RomaSi terrà DOMENICA I° Ottobre, alle ore 10:00, la prima camminata intorno alle Mura Aureliane per la riscoperta delle sue potenzialità, la promozione di un Parco Urbano e di un itinerario pedonale lungo il perimetro, e riprendere le proposte e le indicazioni dell’ambito di programmazione strategica Mura individuato dal Piano Regolatore Urbanistico di Roma.
Il progetto è realizzato con INARCH LAZIO e il Dipartimento di Architettura e Progetto della Univ. La Sapienza e si articola in 4 camminate e alcuni seminari di approfondimento e dibattito.
L’obiettivo è ripercorrere il perimetro murario (in origine di circa 19 Km), valutarne le condizioni, le relazioni funzionali, le criticità, le potenzialità, per definire in ultimo un progetto per un parco urbano ai piedi delle mura.

L’evento è patrocinato dal VII Municipio, dal Parco Regionale dell’Appia Antica, in attesa del Patrocinio del Comune di Roma e della Sovrintendenza Capitolina e della Regione Lazio. Richiesto anche al 1° Municipio

La prima camminata prevede il percorso da Santa Croce a Porta San Sebastiano (Museo delle Mura):
Appuntamento alle 10 a Santa Croce in Gerusalemme
Soste lungo il percorso nei punti ritenuti più strategici, es. Castrense, Metro C, Via Sannio, Impianti sportivi, Parco delle Mura, Porta Latina e Porta San Sebastiano (arrivo circa alle ore 13).

Per ogni sosta, metteremo in luce lo stato dell’arte e i progetti eventuali e possibili con intervento di esperti del settore e delle Istituzioni
Lungo il percorso i volontari RETAKE contribuiranno con un intervento di decoro urbano.

In collaborazione con:
URIA (Unione Romana Ing. e Arch.), Legambiente, GRAB+, Comunità Territoriale VII Municipio, Urbanita, Carteinregola, Laboratorio Progetto Celio, Retake VII Muncipio,, Ass. Amici del Parco Carlo Felice, Elebike, Visure Acatastali, Urban Experience, Openhouse, Booking.com, ISIPM (Ist. Italiano di Project Management), RomAltruista.

La Comune di Parigi, un urbanesimo rivoluzionario

Mario Pezzella

[Intervento al convegno “Diritto alla città”, Roma, 24-25 novembre 2016]

La Comune – il suo tentativo di rivoluzionare lo spazio urbano e sociale – rappresenta per Lefebvre un possibile sconfitto e represso nel passato, ma che pure può ripresentarsi attuale nel presente. Quest’idea è legata alla concezione filosofica generale di Lefebvre, secondo cui la realtà storica è una pluralità di possibili coesistenti, e non solo la linea maestra e univoca del progresso imposta dai vincitori del momento. In condizioni mutate, un possibile prima sconfitto può riattualizzarsi e modificare retrospettivamente la nostra percezione del passato nel suo insieme: d’altra parte il possibile nel senso in cui ne parla Lefebvre non è una fantasia arbitraria sostituibile con altre, ma possiede una sua oggettività storica documentabile e ricostruibile, benché dimenticata o posta fuori dall’ordine del discorso: “Il passato diviene o ridiviene presente in funzione della realizzazione dei possibili oggettivamente inclusi nel passato. Esso si svela e si attualizza con essi”1. La Comune è un possibile di questo tipo e in questo senso, anzi è un nesso di possibiltà che investe tutti i campi e i settori della vita associata. Ovviamente è qui impossibile considerare tutti gli aspetti politici, istituzionali, artistici, linguistici, giuridici, coinvolti dall’utopia rivoluzionaria della Comune secondo Lefebvre. Ci limiteremo a considerare alcune osservazioni che egli dedica al modo in cui la Comune ha considerato la città e il suo destino storico.

Tra gli obiettivi della Comune, c’era la riappropriazione della città, che le trasformazioni di Haussmann avevano iniziato a rendere estranea agli strati popolari della città. D’altra parte questa estraniazione non è in quell’epoca completa, gli spazi e gli edifici della città ancora si contrappongono secondo strutture simboliche distinte, sono ancora una proiezione spaziale delle separazioni sociali e lavorative: “La Parigi militare e la Parigi ufficiale (statuale e governamentale) con i loro palazzi, i loro monumenti e le loro strade, proiezione sul terreno della struttura sociale e politica, si sovrappongono senza soffocarla alla Parigi popolare”2. La città è trasfigurata da una estesa immaginazione mitica, che diviene essa stessa parte della lotta politica, appare come “Città santa”, Gerusalemme e Terra Promessa, dal cui possesso dipende per intero la salvezza degli abitanti: “Il popolo ha santificato la Babilonia moderna. La città dei re e degli imperatori diviene la Città santa “assisa ad Occidente” (Rimbaud), Gerusalemme e Roma del mondo moderno”3. La critica generale della separazione – degli spazi, dei lavori, degli universi simbolici – imposta dal capitale è l’intenzione generale della Comune, ed essa investe anche la città come luogo simbolico materiale: La Parigi insorta ha ancora la forza di voler combattere la sovrapposizione della città come luogo centralistico del potere statale alla dispersione e alla festa della vita popolare della città (di questa lotta è sintomo e simbolo l’abbattimento della colonna Vendôme ).

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Rimodulare il Diritto alla città. Tor Pignattara, una periferia romana multietnica

Alessandra Criconia

Con questo intervento ho intenzione di riprendere il confronto iniziato a novembre con il convegno sul Diritto alla città e di continuare i ragionamenti su come sia cambiato questo diritto e cosa significhi oggi, prendendo in considerazione delle situazioni concrete. Ho scelto di iniziare con Tor Pignattara, una delle periferie storiche di Roma descritta da Pasolini in Ragazzi di vita come «[…] una Shanghai di orticelli, strade, reti metalliche, villaggetti di tuguri, spiazzi, cantieri, gruppi di palazzoni, marane» perché questo quartiere sta vivendo un’importante mutazione antropologica, a fronte di un paesaggio urbano tendenzialmente stabile, come da periferia romana.

Tor Pignattara continua a essere il borgo delle vie dell’Acqua Bullicante, della Marranella, della stessa Tor Pignattara, schiacciato tra il Pigneto e il Casilino e diviso in un “nord” (più cittadino) e un “sud” (più paesano) dalla via Casilina (sede dello storico trenino giallo Termini-Giardinetti che collega con la stazione Termini) e suddiviso da un pettine di strade e stradine, ortogonali alle tre vie principali, che si infilano tra i caseggiati per addentrarsi nella campagna sopravvissuta all’espansione edilizia e ancora, in parte, coltivata a orti e giardini (si tratta degli ex terreni dello SDO, il Sistema Direzionale Orientale progettato negli anni Sessanta e, come in molti altri casi, naufragato già al momento della sua ideazione).

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