Contro Agamben e Cacciari a proposito di “green pass”

di Roberto Finelli e Tania Toffanin

Abbiamo pensato di scrivere insieme qualche riflessione su quanto Giorgio Agamben e Massimo Cacciari hanno pubblicato il 26 luglio scorso sul sito dell’Istituto italiano per gli studi filosofici (A proposito del decreto sul “green pass”). Ci sembra infatti utile fare chiarezza sullo spirito del tempo, di cui gli autori citati appaiono essere solo l’epifenomeno più vistoso e culturalmente accreditato. Vogliamo provare brevemente a comprendere cosa ci sia dietro una tale rivendicazione di libertà individuale, sottratta a ogni condizionamento e mediazione con la libertà collettiva, in questa richiesta verosimilmente dimentica della definizione data, ormai molto tempo fa, da Franco Fortini, secondo cui “la mia libertà inizia, non dove finisce, ma dove inizia la libertà dell’altro”.

Il dibattito che l’obbligatorietà della certificazione verde ha aperto si situa, peraltro, all’interno di uno scenario internazionale che impone alcune ulteriori riflessioni. Pensiamo che tale dibattito sia fondamentalmente centrato sui diritti individuali, all’interno di un contesto nel quale le libertà individuali sono pienamente garantite. Per contro, quanto sta succedendo in Afghanistan impone di riflettere, a partire proprio dalle libertà individuali, in termini non più strettamente eurocentrici. Sforzo questo che pensiamo sia necessario per uscire dal provincialismo del dibattito italiano ed europeo in tema di diritti fondamentali e libertà personali. Continua a leggere “Contro Agamben e Cacciari a proposito di “green pass””

Sentenze sul disastro

di Antonio Tricomi

Vale forse la pena partire dal fondo. È infatti nell’ultimo saggio incluso in Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura (Milano, Rizzoli, 2021) che Siti elenca “le caratteristiche”, per lui irrinunciabili, di un testo in grado di “sostenere cause etiche e/o politiche senza avvilire le potenzialità conoscitive della letteratura” (p. 254).

Intanto, si tratterebbe, per quel libro e per il suo autore, di conservare un’“assoluta onestà intellettuale ed emotiva”, dimostrando, sia l’uno sia l’altro, la propria “naturale incapacità di aderire agli stereotipi”. In secondo luogo, un’opera simile sarebbe chiamata a non tacere “il discorso dell’avversario”, stratificandosi “come una struttura dialettica perennemente aperta al dubbio”. Infine, gli scrittori che ambissero, come certi loro modelli, a battere la strada dell’engagement, dovrebbero regolarsi al pari dei maestri e “ammettere una subordinazione e una passività dell’impegno rispetto al farsi concavi per accogliere una Parola che non conosciamo ancora e non ci appartiene” (pp. 255, 257, 259).

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Contro Walter Siti, per l’impegno

di Rino Genovese

In un incontro online organizzato di recente dalla nostra amica Maria Borio, Dacia Maraini esprimeva la seguente opinione: non può esservi romanzo “impegnato” perché la letteratura è qualcosa che va “più in profondità” rispetto a un giudizio su questo o quel tema politicamente all’ordine del giorno: presa di posizione che, esulando dal campo letterario, il singolo scrittore affermato può però assumere pubblicamente come manifestazione di cittadinanza in virtù del prestigio acquisito con le proprie opere. Si può essere impegnati, insomma, in base alla fama raggiunta. Il che fu sostenuto una volta anche da Sartre – quando uno firma un appello o un manifesto, lo fa perché ha un nome che gli consente di avere una certa eco –, pur non esaurendo affatto la questione di un’arte e di una letteratura impegnate, nemmeno secondo Sartre, essendo in fondo un caso che si sia avuto o no quel successo indispensabile per essere ascoltati, cioè per stare nel circuito dei mass media. La questione dell’esercitare o no un’influenza è altra cosa da quella di una poetica dell’engagement, la cui efficacia, come accade per tutte le poetiche, andrebbe valutata piuttosto all’interno dell’opera.

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Seminari su disordine della natura e capitalismo

Interpretare le sfide della nostra epoca per andare oltre il modello capitalistico e immaginare un futuro più giusto e sostenibile

Il ciclo di seminari intende proporre alcune categorie di pensiero che si ritengono utili per comprendere la situazione di emergenza che stiamo vivendo. Punto di partenza della nostra riflessione sarà il concetto di apocalisse culturale, elaborato da Ernesto De Martino. Un’apocalisse culturale si verifica quando, in seguito a un trauma storico profondo (un’epidemia, una guerra, un’aggressione coloniale, una crisi economica sistemica, una catastrofe ecologica) l’ordine simbolico con cui abitualmente riusciamo a orientarci nella realtà ambiente e nella vita quotidiana viene a essere sospeso, diventa irriconoscibile e ci lascia esposti al caos politico e psichico. Si verifica allora quella che sempre Ernesto De Martino ha definito una crisi della presenza.
Siamo, infatti, di fronte a un dissesto e a un disordine reattivo della natura, provocato dalla crisi sistemica del capitale e della sua concezione della tecnica. Qualcosa dunque di così radicale e profondo da minacciare il nostro ordine simbolico nelle sue stesse fondamenta. Come ebbe a dire Walter Benjamin in uno dei momenti più drammatici della storia del Novecento, «prima che la scintilla raggiunga la dinamite, la miccia accesa va tagliata».
I vari interventi del seminario, di cui proponiamo di seguito gli abstract intendono analizzare da diverse prospettive, a nostro avviso complementari, il dissesto radicale della forma di vita e la crisi della presenza che stiamo vivendo, integrando e sviluppando l’intuizione di De Martino e cercando di prefigurare anche come superare questa crisi per una nuova dimensione della relazione fra natura e cultura come base di un nuovo modello di sviluppo.

Scarica gli abstract

 

Un nuovo piano per il centro storico di Genova?

Genovadi Agostino Petrillo

Il centro storico di Genova è una realtà estremamente complessa per un insieme di ragioni materiali e simboliche: non è mai stato veramente chiaro dove inizi e dove finisca la città antica, e i confini non ne sono nettamente delineati nemmeno nell’immaginario degli stessi genovesi. Le demolizioni che si sono succedute negli ultimi due secoli hanno complicato ulteriormente il quadro che propone una città cresciuta per strati, in cui le epoche si sono sovrapposte in spazi ristretti, e le architetture si sono sviluppate spesso inglobando e ricostruendo quanto già esisteva in precedenza. Una città incalcolabilmente antica ma anche “stratificata”, dunque: il che non ha certo aiutato a determinare quali siano le parti di città da considerarsi “storiche”.

Le distruzioni del tessuto urbano sono state notevoli già nell’Ottocento, quando una parte del centro è stata completamente abbattuta, riedificata e riorientata per l’apertura di nuovi assi viari e per permettere l’irruzione di sistemi di trasporto moderni, ma sono proseguite pervicacemente anche nel Novecento fino al crescendo rappresentato dal folle piano regolatore del 1959 che, oltre a prevedere per Genova uno sviluppo demografico fino a sei milioni di abitanti, provvide anche a liquidare completamente un esteso quartiere antico, quello di Portoria, in cui c’erano edifici quattro-cinquecenteschi Al suo posto sorse una fantastica speculazione edilizia (zona Piccapietra), inno a un modernismo vacuo caratterizzato da orrendi edifici “razionalisti” ancora oggi, a distanza di sessant’anni dall’operazione, in buona parte semivuoti. Nuovamente nei Settanta e all’inizio degli anni Ottanta, si è operato con la medesima logica, considerando la città antica “zona degradata”. Sventrata la storica zona di via Madre di Dio, si sono costruiti palazzi di una qualità così modesta da necessitare di continui interventi di manutenzione ancora in corso d’opera, precocemente decadenti, tali da apparire vere e proprie “rovine del moderno”. Continua a leggere “Un nuovo piano per il centro storico di Genova?”

Un’intervista a Stefano Ciccone

di Manuela Bianchi

Il 25 novembre, Giornata mondiale della violenza contro le donne, funestata da altri due femminicidi, uno in Calabria e l’altro in Veneto, che si aggiungono agli ottantuno registrati dal VII Rapporto Eures (Rete di cooperazione Europea) sul femminicidio in Italia dall’inizio dell’anno, abbiamo voluto trattare l’argomento guardandolo dalla prospettiva di quegli uomini che si mettono in discussione e intraprendono un percorso di autocoscienza promuovendo una riflessione individuale e collettiva, partendo dal riconoscimento della propria parzialità e dalla valorizzazione delle differenze. Abbiamo quindi fatto una chiacchierata con Stefano Ciccone – autore di Il legame insospettabile tra amore e violenza (C&P Adver Effigi, 2008) scritto con Lea Melandri, di Essere maschi. Tra potere e libertà (Rosenberg & Sellier, 2009) e ancora di Maschi in crisi? Oltre la frustrazione e il rancore (Rosenberg & Sellier, 2019) – membro dell’Associazione nazionale Maschile Plurale, che ha contribuito a far nascere nel 2007.

Come si forma l’esperienza dei gruppi di autocoscienza maschile?

Da due percorsi, uno prettamente politico, come il movimento per la pace, partendo dalla critica alla violenza nella politica dopo il 1977; l’altro dal mondo religioso, in particolare dai gruppi maschili istituiti dalla comunità valdese, nati sul tema della violenza e poi caratterizzatisi per la messa in discussione della cultura maschile. Continua a leggere “Un’intervista a Stefano Ciccone”

Rossanda eretica ortodossa

Rossana Rossandadi Rino Genovese

Scompare Rossana Rossanda, carica di anni e generosi errori, e con lei se ne va un pezzo della storia della sinistra italiana. Ma non si dica, come peraltro avrebbe detto lei stessa, che questa sinistra sia finita “da sconfitta”. Sconfitta da chi? In quale guerra non dichiarata? Durante quale insurrezione mai intrapresa? Rosa Luxemburg o Che Guevara sono stati vinti sul campo. La stragrande maggioranza della sinistra italiana nel dopoguerra, compresa la piccola parte rappresentata da Rossanda e dai suoi, fu invece riformista da cima a fondo, sia pure con varie gradazioni e sfumature all’interno del riformismo. Tutt’al più si potrebbe parlare, come fece una volta Lucio Magri in riferimento alla componente ingraiana del Pci, dalla quale il gruppo del manifesto era uscito, di un “riformismo rivoluzionario”, indicando con ciò che s’intendeva puntare a una trasformazione sociale profonda, a un superamento del capitalismo. Ma riformisti in questo senso furono anche non comunisti come Riccardo Lombardi o quel Vittorio Foa con cui il gruppo del manifesto tentò per un tratto di fare causa comune, fallendo poi a causa del solito settarismo.

“La rivoluzione non è la presa del palazzo d’Inverno” era uno degli slogan con cui Rossanda e i suoi si presentarono come dissidenti, e tuttavia a loro modo continuatori, del partito da cui vennero cacciati: con ciò esprimevano la lontananza dall’idea di una presa del potere mediante un colpo di mano di tipo bolscevico, sulla nozione di “dittatura del proletariato” preferendo sorvolare. Un altro slogan era “dallo stalinismo si esce da sinistra”, volendo significare che non ci si sarebbe dovuti adagiare in una pura e semplice pratica di cogestione del capitalismo, sostanzialmente socialdemocratica, come veniva facendo il Pci sulla base del modello emiliano. Tutto ciò veniva fuori comunque dall’alveo della tradizione comunista e del pensiero gramsciano, di cui si sottolineava il momento democratico consiliare (già criticato dall’ultrabolscevico Bordiga) e quello delle “casematte” del potere, che rinviavano appunto a un’idea di rivoluzione come lungo processo e non come “guerra di movimento”. Un gramscismo alla Togliatti – che per parte sua aveva tenuto fermo al mito dell’Unione Sovietica e, al tempo stesso, ne aveva negato il carattere universale con la ricerca di una via democratica al socialismo – era quello su cui Rossanda e i suoi purtuttavia non cessavano di appoggiarsi quando decisero di rompere gli indugi e dichiarare fallito il cosiddetto socialismo reale dei paesi dell’Est europeo, cominciando però a flirtare con l’altro modello che si delineava in quegli anni, quello della Cina maoista, di cui Rossanda, ancora in anni recenti, negava il carattere stalinista, oggi del tutto palese al retrospettivo sguardo storico.

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Il Mes, pregi, difetti, misteri

Mesdi Piero S. Graglia

Gli ultimi mesi sono stati dominati dalla questione se sia opportuno, conveniente, utile o dannoso ricorrere ai fondi disponibili nell’ambito del Mes. Contro di esso si sono levate voci che hanno usato termini roboanti sia contro (schiavitù, asservimento, danno irreparabile) sia a favore (grande occasione, opportunità da cogliere, salvagente risolutivo). Il tutto in un’accesa polarizzazione dei giudizi che ben presto si sono trasformati in manifestazioni di fede. Nel clima da tifo sportivo che si è creato intorno al Mes, riesce sempre più difficile depurare tale tifo dalle argomentazioni precise. Prima di tutto, quindi, conviene risalire alle fonti.

Il Mes, acronimo italiano dell’inglese European Stability Mechanism (Meccanismo europeo di stabilità), viene firmato come trattato intergovernativo il 2 febbraio 2012 tra i 17 Stati dell’eurozona ed è entrato in vigore dopo la fine del processo di ratifica nell’ottobre 2012. Successivamente alla firma, all’area euro si sono aggiunti altri due Stati, il che porta a 19 gli attuali firmatari. Esso, pur appoggiandosi per il suo funzionamento alle istituzioni dell’Unione europea (in particolare la Commissione europea), non fa parte del sistema normativo dell’Unione, ma si configura come un classico trattato internazionale stipulato da una parte consistente dei Paesi che fanno parte dell’Unione, in particolare quelli che aderiscono al sistema della moneta unica. Se si parla del Mes non si può però ignorare l’altro corno del problema, che è il Trattato sulla Stabilità, il Coordinamento e la Governance dell’Unione monetaria, chiamato spesso, per brevità, Fiscal compact. Anche quest’ultimo si pone alla nascita al di fuori del quadro normativo dell’Unione. In effetti solo presi insieme i due accordi riescono a restituire il pieno senso della loro esistenza: anche perché il Mes viene firmato il 2 febbraio del 2012, mentre il Fiscal compact appena un mese dopo, nel marzo dello stesso anno.

Sia il Fiscal compact sia il Mes rispondono a una logica ben precisa: garantire quella stabilità e coerenza di politiche economiche e fiscali che un sistema che vede coesistere una moneta unica in presenza di ben 17 (oggi 19) diverse politiche di bilancio e fiscali non può garantire. Infatti ciascuno dei 19 i Paesi della cosiddetta area euro presenta diverse politiche di spesa pubblica, di intervento nell’economia, diverse politiche di gestione del debito pubblico, diversa fiscalità. Il rompicapo al quale si voleva dare una soluzione era cercare di organizzare una gestione comune dell’economia interna, diversa da Stato a Stato, in assenza di meccanismi distributivi e soprattutto in assenza di un governo unico dell’economia dell’eurozona. Appare evidente che se si abbandona l’atteggiamento ottimista fondato sulla “buona volontà” dei diversi governi, la gestione di una moneta unica richiede strumenti unici di gestione della spesa pubblica e del debito, nonché di controllo del deficit e delle attività della Banca centrale; strumenti che non possono essere sostituiti da impegni verbali o promesse, ma richiedono, in mancanza di un sistema di tipo federale o comunque unitario, sistemi di controllo “forzoso”.

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Dopo il virus. Osservazioni critiche sull’odierna “critica critica”


di Rino Genovese

Si sente spesso ripetere che la recente pandemia avrebbe approfittato della globalizzazione per diffondersi nelle grandi aree metropolitane del mondo. Ciò non fa che registrare un dato: la velocità con cui si è propagato il virus è il frutto dell’intensificazione dei traffici commerciali, della delocalizzazione della produzione industriale, del turismo di massa, e così via. Ma tutto questo, pur vero, non mette a fuoco un aspetto essenziale. Che è il seguente: le epidemie hanno flagellato la storia dell’umanità nel corso dei secoli, magari con più lentezza ma inesorabilmente. Tuttavia da molti decenni non sembrava più possibile qualcosa di così devastante, almeno nello sviluppato mondo occidentale. A voler richiamare il concetto di “società del rischio”, introdotto da Ulrich Beck, ci troveremmo sfasati: perché quella nozione si riferiva piuttosto al rischio nucleare ed ecologico in senso lato, non alla ripresa di un tipo di devastazione che sembrava far parte del passato. Invece la sorprendente novità dell’epidemia consiste proprio nel suo carattere arcaico. Essa è una delle forme in cui il passato ritorna nel presente, mettendo una volta di più fuori causa, se ancora ve ne fosse bisogno, la nozione di un progresso univoco e lineare. Si potrebbe dire (al netto di ogni tesi insulsamente complottista), è la natura che si ripropone nella cultura in quanto suo ineliminabile retroterra. Si tratta di una natura che, mostrando la sua smorfia terribile, si fa beffe della cultura – ma così rientrando in essa come un aspetto ancora una volta proprio della cultura. E di conseguenza come un oggetto interno allo stesso dibattito politico.

Ha dunque pienamente ragione Aldo Garzia, nell’articolo pubblicato nella sezione “commenti” di questo stesso sito, a sostenere che il virus spinge a ripensare alcune delle nostre categorie politiche fondamentali, a cominciare dal nesso tra i diritti e la libertà. C’è un momento “libertario” nel liberalismo dominante che è del tutto vuoto, ed è altra cosa dalla “libertà sociale” propria del socialismo. Il primo si lascia riassumere nel diritto a una libertà di movimento astratta: un individuo non può essere trattenuto in alcun modo se non quando violi la libertà altrui: per esempio nel caso di un’aggressione fisica a un altro individuo, o anche quando metta in questione il “diritto soggettivo” di questi, come può essere il diritto di proprietà, entrando, poniamo, nel suo giardino senza permesso. Ma che questa libertà – detta “negativa” in quanto consiste nel non ledere il diritto altrui – possa essere limitata in senso “positivo”, come quando si tratti di salvaguardare la salute di una collettività colpita da un’epidemia, questa libertà sociale, orientata non a un diritto individuale astratto ma in questo caso a una più concreta “questione di vita o di morte” che riguarda tutti, è vista come qualcosa d’insopportabile dagli esponenti di un liberalismo estremo. E appare altrettanto insopportabile – occorre sottolinearlo – secondo la prospettiva anarco-individualista (neo-stirneriana, la si potrebbe definire) di una parte dell’odierno pensiero cosiddetto critico.

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Nota sulla pandemia

Branko Milanovicdi Nicolò Bellanca

In articolo esemplare per lucidità di pensiero e chiarezza espositiva, Branko Milanovic argomenta che l’attuale pandemia non consente di effettuare previsioni economiche. Oltre ad avere natura globale, la pandemia è un fenomeno indeterminato e incontrollabile.

“Nessuno sa quando la pandemia finirà, come influenzerà i diversi paesi, e persino se pensare a una fine chiara e improvvisa della pandemia abbia addirittura senso. Di fatto, potremmo vivere per anni con politiche di stop-and-go, dove i movimenti per aprire l’economia sono seguiti da riacutizzazioni dell’infezione e poi da nuove chiusure e blocchi. Non abbiamo idea non solo di quali paesi e continenti saranno prossimamente colpiti dalla pandemia e se ci sarà una seconda ondata, ma neanche possiamo prevedere con quale successo i singoli paesi la sapranno contenere. Nessuno avrebbe previsto che un paese con le più alte spese sanitarie procapite al mondo, e con centinaia di università che esibiscono dipartimenti di sanità pubblica e pubblicano probabilmente migliaia di ricerche scientifiche all’anno, avrebbe completamente fallito nel controllo della pandemia e realizzato il più alto numero dei casi e delle vittime. Similmente, molto pochi avrebbero previsto che il Regno Unito, con il suo leggendario Servizio Sanitario Nazionale, sarebbe stato il primo in Europa come numero di morti. O che il modestamente benestante Vietnam avrebbe avuto zero morti dalla pandemia”i.

Se riconosciamo i due caratteri appena menzionati – natura globale e incontrollabile – della pandemia, come possiamo spiegarne la genesi? Due mi sembrano gli schemi principali. Il primo la concepisce come una catastrofe ecologica, basata sull’intreccio tra depauperamento ambientale, globalizzazione capitalista e promiscuità di animali e umani. I virus causano malattie soltanto quando muta il loro rapporto con la popolazione ospite, animale o umana. Ebbene, il riscaldamento climatico rende più forti e persistenti alcuni agenti patogeni; l’urbanizzazione di zone selvagge, nonché la caccia e il consumo di fauna selvatica, avvicinano l’uomo ad animali portatori di potenziali infezioni; l’ammassarsi di grandi quantità di animali negli allevamenti di tipo iper-intensivo, con difese immunitarie indebolite dalle condizioni igieniche e alimentari, può incubare malattie; gli ecosistemi locali vengono spesso sconvolti dall’espansione dell’industria agroalimentare; le migrazioni e il turismo globale creano le condizioni ideali per la diffusione del contagio in ogni angolo del pianeta. Questi intrecci rendono plausibile l’idea di un’antropogenesi, ossia di una causazione umana, delle malattie provocate da zoonosi.

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Sul dibattito intorno a “Città fai-da-te”

Dibattitodi Carlo Cellamare

Gli interventi di Massimo Ilardi e Rino Genovese su questo sito, a partire dal mio libro Città fai-da-te, sollevano un dibattito molto interessante e mi sollecitano alcune considerazioni che vorrei condividere. Con prudenza e modestia, data la delicatezza delle questioni.

In primo luogo, non penso che la politica possa ridursi a un conflitto di interessi, a un rapporto di forze in campo. Il conflitto svolge un ruolo fondamentale nella vita politica e si radica nella diversità e nel confronto delle posizioni, a loro volta agganciate a interessi in campo, ma la politica ha anche la funzione di costruire una visione del futuro, un progetto di futuro. Quello che facevano nel passato le ideologie e che ora si è disperso. Il conflitto si aggancia a un sistema di interessi che si coagula in un’idea di società, in una prospettiva di convivenza che costituisce il riferimento per un insieme di forze politiche e sociali. Altrimenti, tra l’altro, non avremmo la possibilità di costruire proposte consistenti, ma soltanto una dispersione di posizioni. Le ideologie sono venute meno a questa funzione sia perché non rispondono più adeguatamente alle esigenze sociali in campo e alle prospettive di futuro, sia perché è cambiata la società cui si riferivano. Sempre più mi pare si richieda una politica che sia “significante”, ovvero che risponda in maniera più pertinente alle esigenze e ai vissuti delle persone. Per questo vi è spesso, in maniera diffusa, quello che a Ilardi non piace molto, cioè la ricerca di un riferimento (in maniera implicita o esplicita) a un sistema di valori (il termine può non piacere e possiamo cercarne un altro, ma il significato è quello), un insieme di elementi che vengono considerati importanti per la propria vita (e qui ci avviciniamo a un sistema di “interessi”) e che costituiscono la base di un progetto di futuro. Ne sono un esempio l’ambientalismo o meglio il tema dell’ecologia integrale, ma anche il valore delle differenze e dell’accoglienza (e quindi la lotta al razzismo), e anche la lotta alle disuguaglianze e alla precarietà urbane. Non si tratta solo di fattori ideali, ma di valori molto concreti in risposta a situazioni che minacciano da vicino la vita delle persone, sia direttamente sia attraverso il modello di sviluppo prevalente (e l’esperienza del coronavirus non ce lo potrebbe confermare meglio).

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Coronavirus, aspetti economici e sociali di una crisi

Coronavirusdi Riccardo Bellofiore

[Sbobinatura di un intervento orale, riveduta dall’autore]

1. La crisi non è esogena: natura e forma sociale

Quello che proverò a fornire è un inizio di scrematura dell’orizzonte problematico in cui leggo questa crisi. Vado per punti, in un discorso che si articola in diversi movimenti.

Primo movimento. Questa crisi non è, come spesso si legge, una crisi “esogena”, cioè qualcosa che da un esterno (la natura) investe la sfera economica. Se vogliamo, questa è una crisi “semi-esogena” perché in parte è indipendente dalla forma sociale, ma nella sostanza è invece legata a doppio filo all’organizzazione capitalistica della produzione, della circolazione delle merci, della distribuzione e dei modi di vita. Non è vero neanche che questa crisi sia giunta inaspettata. Una crisi del genere di quella che stiamo attraversando fu prevista, per esempio, nel 2005, sulla rivista Foreign Affairs, in un articolo preveggente sulla prossima pandemia.

Questa crisi mette in evidenza il rapporto perverso tra società e natura, che è peraltro già stato al centro della discussione, negli ultimi anni, in merito al cosiddetto cambiamento climatico, ma non è mai stato veramente preso sul serio dalla politica e dalla politica economica. Certo, si potrebbe dire che il problema non è il capitalismo ma la struttura industriale. Le cose però non stanno proprio così. Il primato di una produzione tesa all’estremo al fine di una estrazione di profitto si è andato ad accompagnare a un approfondimento della diseguaglianza globale, in alcuni casi in modo anch’esso estremo, dunque a malnutrizione, a forme di agricoltura e allevamento intensivi, al sovraffollamento abitativo, a una urbanizzazione eccessiva. Tutto ciò ha fatto sì che trasmissioni virali, che avrebbero altrimenti avuto un’evoluzione lenta, abbiano visto una drammatica accelerazione.

A una pretesa di crescita esponenziale del capitale ha risposto una crescita esponenziale nella diffusione dei virus. Questo è presumibilmente il futuro che abbiamo davanti. L’alternativa non è, ai miei occhi, una “decrescita” (che sta pur sempre nell’orizzonte della crescita, solo volta in negativo), semmai uno sviluppo qualitativo radicalmente differente. È stato proprio l’orizzonte di una crescita tutta interna alla forma sociale capitalistica che ha prodotto anche le politiche cosiddette neo-liberiste degli ultimi quarant’anni, a partire dalla privatizzazione della sanità.

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La città, l’autorganizzazione, il socialismo

di Rino Genovese

Nel suo intervento sul libro di Carlo Cellamare (Città fai-da-te. Tra antagonismo e cittadinanza), che si può leggere qui sotto, Massimo Ilardi compie una specie di operazione nostalgia, riportando il discorso di una critica dell’autorganizzazione e dell’autogestione odierna degli spazi urbani agli anni settanta del Novecento: in particolare alla tematica dell’“autonomia del politico”, introdotta nel dibattito da quella parte dell’operaismo italiano interna al Partito comunista con l’intenzione di orientare il movimento, dopo un decennio d’intensa conflittualità sociale, verso uno sbocco politico-istituzionale e, al tempo stesso, di fare del Pci il partito di un paradossale operaismo di governo. Il richiamo a una linea di pensiero Machiavelli-Hobbes-Carl Schmitt, con l’inserimento in essa più di Lenin che di Gramsci, apparve tuttavia a molti nient’altro che un tentativo di offrire una copertura a sinistra alla strategia berlingueriana del “compromesso storico”. Qualcosa di strumentale e di scarso respiro, entro cui la provocazione della ripresa della coppia schmittiana amico/nemico nella lotta politica, e della famosa definizione del sovrano come colui che decide intorno allo stato di eccezione, era meno qualcosa di fondato teoricamente che una strizzatina d’occhio a un’intellettualità di sinistra disposta ad applaudire ogniqualvolta fosse rotto il quadro monotono della tradizione comunista. Non era fondato, anzitutto, il paragone storico con la repubblica di Weimar (nella cui costituzione, sotto il nome di Diktaturparagraph, vigeva quel codicillo stregato riguardante lo stato di eccezione, che permise a Hitler di prendere il potere per vie legali, e attorno a cui Carl Schmitt costruì la sua teoria della sovranità) perché l’Italia degli anni settanta – pur percorsa da spinte autoritarie, dalla “strategia della tensione”, e anche da un estremismo disposto a cadere nella trappola terrorista – era una democrazia occidentale, in cui la strategia difensiva del “compromesso storico” non mirava a un’alternativa di sistema, ma a evitare una catastrofe come quella occorsa al Cile con il colpo di Stato del 1973. Neppure c’era il minimo fondamento teorico per un qualche rapporto tra l’intervento statale nell’economia, al tempo ancora in auge nella forma di un’economia mista di privato e pubblico, e l’“autonomia del politico” in quanto messa a punto di una cabina di regia tutta politica (o politico-burocratica) della società, caratteristica non delle democrazie ma dei totalitarismi.

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La città e la politica

case occupateA proposito di Carlo Cellamare, Città fai-da-te (Donzelli 2019)

di Massimo Ilardi

Al termine di un lungo percorso di ricerca che ha visto la pubblicazione di due volumi collettivi da lui curati, Roma. Città autoprodotta (manifestolibri 2014) e Fuori raccordo. Abitare l’altra Roma (Donzelli 2016), Carlo Cellamare tenta, con quest’ultimo libro, un’operazione complicata: dare veste teorica alle sue indagini sul campo intorno a quei fenomeni sociali di autorganizzazione, di occupazione di spazi, che costruiscono la città fuori dalla pianificazione e dalle politiche pubbliche, e che hanno nel territorio romano un laboratorio diffuso di sperimentazione. Un’operazione resa difficile dalla contraddittorietà, in certi casi dalla ambiguità, di tali fenomeni che non si fanno facilmente rinchiudere dentro categorie teoriche o forme politiche costituenti.

Cellamare ne è consapevole e, fin dall’inizio del suo lavoro, pur rimarcando la creatività e la capacità di azione che sono all’origine di questi processi, mette in guardia i suoi lettori: “La visione romantica di una città prodotta dall’azione dei suoi abitanti, in termini positivi e collaborativi, crolla miseramente nel confronto con la realtà” fatta anche di interessi privati ed economici che subordinano l’interesse pubblico (p. 5). Un ammonimento opportuno, ma che poi lui stesso in alcuni casi non segue proprio per le difficoltà prima indicate, e anche e soprattutto per le sue convinzioni che cercano di inserire questi fenomeni dentro una visione politica capace di mettere in discussione e superare il modello liberista di città. Obiettivo legittimo e condivisibile che, per essere praticabile, deve però necessariamente rispondere ad alcune domande: se, come afferma Braudel, “ogni realtà sociale è per prima cosa spazio”, pratiche come l’autoproduzione, l’autogestione e l’occupazione sono le più idonee a costruire una spazialità nuova e alternativa? Se sì, come riescono a entrare in sintonia con il resto del territorio? E ancora: perché non sembrano approdare ad alcuna soggettività antagonista e a nessuna forma politica che fuoriesca dalla pura e semplice amministrazione dei luoghi?

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Stragi e deportazioni nazifasciste: per la giustizia e contro l’ambiguità

Stragi e deportazioni nazifascistedi Fondazione per la critica sociale

Circolano fake news sul debito di guerra della Germania, mentre l’Italia ha bisogno di aiuti finanziari. Un convegno in Senato, con Liliana Segre, accademici e magistrati, ha spiegato che i debiti per i crimini di guerra tedeschi non sono mai stati pagati. Probabilmente anche fra i cittadini colpiti dal Covid-19 ci sono creditori di Berlino. Comunque l’Europa deve essere solidale.

L’emergenza da Covid-19, oltre ai lutti per le persone, ha gravi effetti economici.
Mentre si chiede che l’Europa venga incontro all’Italia con aperture finanziarie, e occorre il sostegno della Germania, organi d’informazione riprendono la questione del debito tedesco per i danni nella Seconda guerra mondiale.
Sul diritto dei cittadini italiani ai risarcimenti per quei danni, la Fondazione per la critica sociale ha promosso un convegno, svolto in Senato nel 2019, Stragi e deportazioni nazifasciste: per la giustizia e contro l’ambiguità, con la senatrice Liliana Segre, il presidente emerito della Corte costituzionale Giuseppe Tesauro, il presidente di sezione della Cassazione Domenico Gallo, il professor Tullio Scovazzi dell’Università Milano-Bicocca e il magistrato Luca Baiada. Il video è qui:

Il debito tedesco per i crimini in Italia (decine di migliaia di morti nelle stragi, deportazione di 650.000 militari, deportazione e lavoro forzato di civili) non è stato mai estinto né condonato. I commenti secondo cui le norme e i patti internazionali sarebbero definitivamente favorevoli alla Germania, e i crediti ormai sarebbero inesigibili, sono fake news. Con i patti postbellici fu concessa a Berlino una moratoria, non ci fu una rinuncia, e dopo la riunificazione tedesca quel beneficio non è più valido. La Germania è ancora debitrice.

Le famiglie colpite da stragi e deportazioni hanno diritto ai risarcimenti. Considerando l’ampiezza dei numeri, è probabile che anche fra i deceduti nella pandemia, e fra i malati più gravi, ci siano familiari di massacrati e deportati, cioè creditori della Germania. Non c’è stata giustizia penale su questi crimini, i tedeschi colpevoli non sono mai stati consegnati all’Italia; ma i risarcimenti restano dovuti. L’esistenza e la realizzabilità dei crediti è stata ribadita in Cassazione, ultimamente nel 2019. C’è una decisione della Corte internazionale di giustizia del 2012 favorevole alla Germania, ma è stata superata dalla Corte costituzionale nel 2014, e comunque anche la Corte dell’Aia ha riconosciuto il debito tedesco e ha suggerito nuove trattative.

Il credito delle famiglie colpite dai crimini fra il 1943 e il 1945 non può essere confuso con la questione delle aperture finanziarie in favore dell’Italia, che riguardano il sostegno sociale nell’emergenza e il futuro dell’Unione europea. Le autorità devono attivarsi per i diritti dei cittadini e per un’Europa fondata sulla giustizia, l’antifascismo e la solidarietà.

Biosfera, l’ambiente che abitiamo

biosferadi Enzo Scandurra, Ilaria Agostini, Giovanni Attili

[Pubblichiamo questa sintesi del pensiero dei tre autori che mercoledì 4 marzo alle ore 18, nella sede romana della Fondazione, in via Vespucci 38, autopresenteranno il loro lavoro in forma seminariale per la serie “i nostri libri”].

Il “sistema clima” è un sistema molto complesso, caratterizzato da notevoli processi di retroazione (feedback). Il che significa che mano a mano che si sale di livello compaiono delle proprietà che non sono riconducibili alle proprietà delle singole parti. E significa ancora che tale sistema non è affrontabile con metodi riduzionisti. Di seguito si descrivono brevemente alcune questioni importanti per affrontare i “cambiamenti climatici”.

Cos’è ambiente

Prima di inoltrarci nei meccanismi che degradano il nostro ambiente, è necessario chiarire cosa significa questo termine. Convenzionalmente usiamo i termini di ambiente e natura come quasi sinonimi per indicare ciò che ci circonda e che non è ancora stato manomesso dall’attività dell’uomo o, quantomeno, che è stato preservato nelle sue condizioni quasi originarie.

Sappiamo che l’ambiente e la natura vanno conservati e difesi dalle attività antropiche perché costituiscono la risorsa più preziosa per la nostra sopravvivenza: sono l’habitat nel quale viviamo e dove si sviluppano le varie forme del vivente in tutta la loro diversità (piante, animali, esseri umani); ed è qui che si svolgono gli eventi naturali come piogge, venti, maree, e l’opera incessante di trasformazione naturale del nostro pianeta.

La storia tra l’uomo e la natura è una lunga storia di co-evoluzione dei sistemi viventi e dei loro ambienti e, al tempo stesso, di una incredibile simbiosi organica. Perché, se le attività dell’uomo trasformano la natura, anche quest’ultima non è mai uguale a se stessa. Cambia; e cambiando manda flussi d’informazione continui agli esseri viventi che a loro volta tendono a modificarla. Le due entità, uomo e natura, sono state per lungo tempo in continua evoluzione e di apprendimento reciproco. Vale la considerazione di Edgar Morin: l’uomo è 100% natura e 100% cultura, un paradosso matematico che esprime bene ciò che siamo e da dove veniamo.

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Il degrado come motore della “storia”

Roma

di Emiliano Ilardi

[Intervento al convegno “Roma città bipolare: tra vita quotidiana e immaginario”, organizzato dal dottorato di Ingegneria dell’architettura e dell’urbanistica dell’Università di Roma “La Sapienza” e dalla casa editrice manifestolibri, 9-10 aprile 2019].

Quando a Roma si prova a trovare un nesso tra immaginario e spazio urbano, bisogna tenere conto di alcuni suoi elementi caratteristici. Innanzitutto questa è una città che procede per accumulazione progressiva di simboli e metafore, senza trovarne mai nessuna che riesca a comprenderla tutta. A Roma si mescolano continuamente immaginari di lunga o lunghissima durata prodotti dalla sua storia millenaria, prodotti a partire dal Settecento e dall’Ottocento, diffusi poi da una potente industria culturale di massa (dai racconti dei “prototuristi” che facevano il grand tour fino al cinema di Hollywood e Cinecittà) e immaginari di breve o brevissima durata frutto dell’era digitale (web serie, videogame, etc.).

Roma è così, da almeno un paio di secoli, uno dei più potenti contesti narrativi che esistano al mondo. Uno spazio capace di produrre immaginari di ogni tipo, in cui si possono ambientare tutti i generi (dal realismo alla fantascienza passando per la commedia, il thriller e l’horror). Da questo punto di vista appare come una sorta di Los Angeles in miniatura: un contenitore elastico che si può riempire di ogni senso; un contesto in cui qualsiasi cosa accada diventa un evento narrativo credibile. E paradossalmente proprio negli ultimi dieci anni in cui, secondo la vulgata mediatica, Roma sarebbe entrata in una decadenza apparentemente irreversibile, essa ha visto aumentare il suo potenziale narrativo. Sia in Italia sia all’estero, Roma è sempre più scelta come quinta scenica per film, serie tv, romanzi, fumetti, videoclip musicali e perfino videogiochi (si pensi solo al bestseller Assassin’s Creed). Ciò non dipende solo dal fatto che Roma, a partire dagli anni trenta del Novecento (con la nascita di Cinecittà e successivamente della Rai) diventa un importante polo editoriale, soprattutto nell’ambito dell’audiovisivo; altrimenti anche Milano dovrebbe essere un fertile contesto narrativo, cosa che non è mai diventata rimanendo, nel corso degli anni e a dispetto dei suoi successi, una città pochissimo raccontata e di scarso interesse per scrittori, sceneggiatori e registi. D’altronde Milano, al contrario di Roma, è facilmente etichettabile e racchiudibile in un paio di metafore.

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Contro i fantasmi

di Luca Baiada

Gli interventi al convegno del 7 marzo scorso, Stragi e deportazioni nazifasciste: per la giustizia e contro l’ambiguità, sono tutti sul canale Youtube del Senato (https://www.youtube.com/watch?v=gpDYeJPX4gU). Ma qui è bene riprendere il discorso, con una premessa. È importante che la questione dei risarcimenti, e delle furberie tedesche per non pagarli, sia arrivata in parlamento. Fino a ora, la sede parlamentare col migliore approfondimento era stata il Bundestag, con un numero di interrogazioni triplo di quello nelle Camere italiane.

Centrale la questione dell’effettività della tutela legale. Esecrare i crimini nazifascisti non basta. Affermare la giurisdizione nei confronti degli Stati quando commettono gravi violazioni, neanche. Pronunciare condanne va un po’ meglio. Ma non ci si può fermare alle pronunce: occorre eseguirle.

Robusta la denuncia del formalismo giuridico, perché sorregge i tentativi di svuotare di contenuto l’ottima sentenza della Corte costituzionale del 2014, favorevole alle decisioni giudiziarie contro la Germania. Tullio Scovazzi: «Questi tecnicismi giuridici, queste sottigliezze giuridiche offendono la sofferenza delle vittime di gravi violazioni dei diritti umani. […] Se non c’è immunità degli Stati, anche uno Stato che sia soccombente in una sentenza deve essere obbligato a dare esecuzione alla sentenza stessa». E Giuseppe Tesauro: «Tutte queste tecnicalità che sono state opposte alle aspettative, alle speranze delle vittime – le formule giuridiche non danno nemmeno il senso di quanto siano gravi queste atrocità – non vorrei dire sviliscono, ma mettono una luce abbastanza fredda su tutte queste cose».

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