C’è ancora spazio, oggi, per un “discorso pubblico” sul socialismo?

di Antonio Floridia

[Intervento al seminario online sul socialismo, a cura del Crs Toscana e della Fondazione per la critica sociale, tenuto il 21 marzo 2022].

Una risposta alla domanda posta nel titolo di questo testo, presuppone due passaggi preliminari: in primo luogo, che senso ha, oggi, in generale, una riflessione sull’“attualità del socialismo”? E, in secondo luogo, c’è una specificità italiana, qualche elemento che permetta di articolare e sviluppare questa riflessione rispetto alla realtà del nostro paese? Alla prima domanda – anticipo subito le mie conclusioni – rispondo decisamente di sì: non solo è possibile, ma è necessaria, nel mondo di oggi, una ripresa dell’idea stessa di socialismo; ma, nello stesso tempo, ritengo che questa ripresa debba e possa essere caratterizzata da alcuni cruciali elementi di innovazione, se non vuole apparire una mera operazione di recupero del passato, e di fatto rivelarsi inefficace. Alla seconda questione, la specificità italiana, si può rispondere ponendo al centro dell’attenzione una ricerca sulle ragioni profonde della peculiare involuzione – fino a ciò che sembra oggi una sostanziale eclissi – della tradizione socialista e comunista del nostro paese, che pure nel corso del Novecento è stata una delle più significative nel panorama europeo e internazionale.

La nozione di “discorso pubblico”

Cosa intendiamo esattamente con la nozione di “discorso pubblico”? Si tratta certamente di un concetto dal significato intuitivo, ma appare opportuno anche un più preciso richiamo teorico, in particolare al concetto di “sfera pubblica” proposto da Habermas in anni lontani1, ma poi ripresa fino alla sua grande opera del 1994, Fatti e norme2.

Sfera pubblica è la complessa rete delle interazioni discorsive – dei “discorsi” – che attraversano la società e coinvolgono in varia misura gli individui. Attraverso i “discorsi pubblici” si forma e si costruisce una sorta di mappa cognitiva, un insieme di valori, ideali e aspettative che interpreta e guida il rapporto tra gli individui, la politica e le istituzioni. La sfera pubblica, nella visione di Habermas, è una dimensione largamente informale, non facilmente programmabile, ma è anche una sfera in cui agiscono una serie di attori individuali e collettivi, anche organizzati, che operano attraverso tutte le sedi e le occasioni in cui si produce uno scambio di giudizi e conoscenze sui problemi sociali e su quelli emergenti, in particolare. Si può anche dire che il “discorso pubblico” è il luogo in cui si forma e si trasforma la cultura politica diffusa di una società, assumendo qui la definizione di “cultura politica” proposta da Roberto Cartocci:

La cultura politica è costituita da un repertorio relativamente coerente di modelli cognitivi e valutativi che consentono ai membri di una comunità politica di dare un senso al loro ruolo come attori politici, a quello di altri attori politici, alla comunità cui appartengono e alla struttura istituzionale in cui vivono. Grazie a questo quadro, essi possono decidere quali obiettivi perseguire e modellare conseguentemente le loro azioni e i loro comportamenti3.

E dunque, attraverso i “discorsi pubblici” si costruisce un’egemonia, un quadro interpretativo – una visione e una concezione del mondo che prevale sulle altre, e che orienta l’azione individuale e collettiva: il “discorso pubblico”, nel suo insieme, è il luogo in cui si confrontano e si scontrano idee e immagini di una società e visioni diverse del suo possibile sviluppo. Attraverso i “discorsi pubblici”, insomma, si costruisce e si stratifica anche il gramsciano “senso comune”. E sappiamo come tutto ciò abbia una precisa connessione con le scelte politiche dei cittadini.

Il socialismo come grande “discorso pubblico”

Il movimento socialista è stato innanzi tutto questo: il progressivo coagularsi di una coscienza collettiva, di una consapevolezza critica sulle ragioni e le cause dell’ingiustizia nel mondo, l’aspirazione a costruire un ordinamento sociale più giusto. Ed è stato questo senso di “rivolta” verso le ingiustizie a costituire il primum movens di una coscienza socialista. L’idea di socialismo ha offerto uno schema ideale che teneva insieme la critica della società presente e le aspirazioni a una società futura.

Bisogna tornare ai “principi primi” di questo processo storico: il rifiuto di una società ingiusta, ma anche la costruzione di un’azione collettiva e solidale, di un movimento organizzato che cercasse di incidere sul presente e sulle condizioni dei lavoratori. Il socialismo è stato quindi una potente ideologia – uso esplicitamente questa parola, senza dare a essa alcuna connotazione negativa, anzi: “ideologia” è appunto un insieme di idee, di principi e di aspirazioni che cercano di connettere la lotta quotidiana per cambiare lo stato delle cose presenti e un orizzonte ideale, un’immagine della società che si potesse fondare sui principi della libertà e dell’uguaglianza. Ed era questa immagine che conferiva “senso” alla lotta quotidiana, la inscriveva entro i confini di un processo storico di cui si concepiva e idealizzava la pervasività e l’universalità.

E tuttavia, proprio qui troviamo la radice del progressivo indebolirsi, negli ultimi trent’anni, degli ideali del socialismo. Come sappiamo, si è prodotta storicamente una crescente compenetrazione tra il movimento socialista e la cultura politica che veniva prospettata dal marxismo: non tutto il pensiero e il movimento socialista sono stati e si sono detti marxisti, ma indubbiamente questo legame con l’eredità marxiana si è fatto sempre più stringente. Non a caso, peraltro, il pensiero di Marx si è conquistato questa posizione preminente: le idee vincono, per così dire, anche quando si rivelano efficaci, quando “funzionano” e riescono a spiegare e far comprendere quel che accade, a dare gli strumenti per capire il mondo che ci circonda. In questo senso, il pensiero di Marx è stata una potentissima arma della critica del presente, dei meccanismi e delle logiche che ispirano il modo di produzione capitalistico. Ma è stata anche – ecco il punto critico – una sorta di “filosofia della storia”: ed è qui che il “discorso pubblico” sul socialismo ha subito negli ultimi trent’anni una dura battuta d’arresto.

Il socialismo può essere una “filosofia della storia”?

Sarebbe ora troppo lungo e difficile risalire alle origini e alle cause di questo processo di oscuramento degli ideali socialisti. Ma possiamo provare a sintetizzare la questione. Il marxismo, nelle sue versioni ortodosse, quelle che si sono rivelate egemoni e prevalenti, già nella prima fase della storia della socialdemocrazia tedesca, ha finito per offrire uno schema interpretativo fondato su due aspetti. Da un lato, un’analisi realistica dei meccanismi dello sfruttamento capitalistico e delle contraddizioni oggettive (sottolineo: oggettive) che ne caratterizzano lo sviluppo. Dall’altro, l’idea che dal movimento di queste contraddizioni oggettive scaturisse “un senso della storia”, che queste contraddizioni implicassero, o mostrassero in modo immanente, una precisa direzione della storia. La chiave della soggettività politica (che si pensasse come “riformista” o come “rivoluzionaria”) stava perciò nel cogliere questo movimento oggettivo della storia, la sua intrinseca contraddittorietà, e il suo “necessario” superamento. L’azione politica del movimento operaio e socialista si poneva dunque essenzialmente come la levatrice della storia, come un intervento soggettivo che era dotato e fondato su una conoscenza “vera” della logica del capitalismo, e che fosse perciò stesso in grado di comprenderne, orientarne e guidarne l’evoluzione.

Uno schema, questo, che “salta” col 1917, con la “rivoluzione contro Il Capitale”, come scrisse il giovane Gramsci: ossia, una inaudita forzatura volontaristica, una straordinaria concentrazione di forza e capacità politica di una élite rivoluzionaria che riesce a conquistare il potere. Una rottura che sembra negare la visione precedente, di uno sviluppo del socialismo che nascesse dalla progressiva evoluzione-crisi-trasformazione del nesso tra i rapporti di produzione e lo sviluppo delle forze produttive.

Ma anche la rivoluzione russa diviene ben presto, specie nella lettura del movimento comunista internazionale, la riprova di un “senso della storia”, di un “sol dell’avvenire” che si avviava a sorgere. E quindi si esaltava, più che una società di liberi ed uguali che si auto-organizza, una visione che vede nella conquista dello Stato il punto archimedeo su cui far leva una trasformazione sociale. E anche per giustificare i sacrifici del presente in nome di un futuro migliore.

Dopo la seconda guerra mondiale, la creazione di un “campo socialista”, o anche le straordinarie esperienze rivoluzionarie di Cuba o del Vietnam, sono lette attraverso questa griglia: la storia si sviluppa attraverso lo scontro-confronto tra due grandi modelli alternativi di società. E il socialismo stesso, prima ancora che un ideale, diviene così un modello compiuto e sostanzialmente predefinito di società (con determinati assetti istituzionali, un certo modello produttivo e distributivo, ecc.).

Questa storia, evidentemente, finisce con l’Ottantanove: e finisce anche per una forza autonoma, originale e creativa come il Pci, per il quale era costitutivo della propria identità l’essere parte di un “campo”. Autonomi, radicati nella storia nazionale, i comunisti italiani, eppure una forza che traeva forza e autorevolezza dall’essere l’avamposto più robusto in un paese occidentale capitalistico di uno schieramento internazionale molto più ampio, dalla portata e dal respiro universali. Un legame che dava forza, ma che col passare degli anni, dopo l’Ungheria e, soprattutto, dopo la Cecoslovacchia nel 1968, diveniva sempre più un fardello, un fattore da cui, come disse (troppo tardi) Berlinguer, non derivava più alcuna “spinta” propulsiva. E l’idea stessa di socialismo non poteva non uscire fortemente segnata, da questo passaggio della storia. Presso certi popoli, come abbiamo visto, persino apertamente screditata, annichilita, dal peso soverchiante che aveva avuto il dominio sovietico. Anche quello che è accaduto e sta accadendo nei paesi dell’ex blocco sovietico porta i segni di questo tragico tornante della storia.

Il socialismo come “ideale regolativo”: una possibile via per il futuro

La storia del socialismo non è stata soltanto quella che si è incarnata in questa visione che, per brevità, ho definito come una filosofia della storia: ovvero, la pretesa di cogliere un “senso” inscritto nella storia, e la pretesa di afferrare la verità oggettiva dei processi storici per poterli meglio guidare e orientare. In effetti, “socialismo” è stato anche altro: è stato, ha continuato a essere, un ideale, assumendo questo termine in senso più ristretto e più proprio: un orizzonte, un insieme di principi e di valori che orientano l’azione politica individuale e collettiva, non solo e non tanto un modello sociale già in sé compiuto da “attuare”. Non tutte le varie correnti presenti nella storia del pensiero socialista hanno concepito nei modi sopra esposti il rapporto tra la teoria e la prassi.

Il socialismo ha vissuto sempre questa tensione tra una sua dimensione teorica e scientifica (il “socialismo scientifico”, appunto, contro le vacue idealizzazioni del socialismo utopistico pre-marxiano) e una dimensione propriamente definibile come etica e ideale. La massima espressione di questa tensione si ebbe nel dibattito sul cosiddetto “revisionismo” che attraversò la socialdemocrazia tedesca tra fine Ottocento e il primo decennio del Novecento e trovò forse la migliore espressione teorica nelle elaborazioni di un socialismo apertamente neokantiano, che furono soprattutto proposte da politici e teorici del socialismo di sinistra austriaco. Due nomi su tutti: Otto Bauer, tra i leader politici, Max Adler, tra i filosofi.

Il senso di questa “operazione” teorica – riassunto all’osso e un po’ banalizzato – era quello di mettere assieme il Kant della Critica della ragion pura e della Critica della ragion pratica: da un lato, dunque, la conoscenza teoretica e scientifica (con il marxismo concepito come una sociologia critica, che “smontava” – oggi si direbbe, decostruiva – i meccanismi d funzionamento di una società capitalistica e offriva potenti strumenti di analisi dei processi reali); dall’altro, come nel Kant della seconda “critica”, il socialismo agiva come ideale regolativo, come una “massima” che ispirava l’azione individuale e collettiva. Come si intitolava appunto il libro forse più importante di Adler (del 1905, Causalità e teleologia nella disputa sulla scienza), al pensiero sociale di Marx, e a chi lo sviluppava, toccava cogliere la dimensione scientifica del sapere, ma l’azione politica del movimento socialista non poteva che svolgersi all’interno e grazie a una ineliminabile dimensione etica e morale, che trovava la propria forza nell’aspirazione a un ideale di libertà e di uguaglianza, nell’approssimarsi a un fine, in una dimensione teleologica. Naturalmente, all’epoca, questa visione fu accusata di essere “dualista”, di ignorare la “forza oggettiva” che doveva venire dai movimenti interni, immanenti alle contraddizioni del capitalismo. Non ci si poteva affidare – era questa l’obiezione – ai buoni sentimenti…

Ma la storia, secondo me, ha dato ragione a queste correnti del pensiero socialista, a queste posizioni antideterministiche, non fondazionaliste, che puntano sulla forza produttiva e creatrice delle idee. La società futura, il “sol dell’avvenire”, non è già inscritto nel movimento e nella struttura oggettiva della storia: va costruito, pensato, conquistato giorno per giorno, attraverso un processo di trasformazione molecolare della società che nasca e si produca a ogni livello, e che non sia affidato e consegnato solo al momento titanico in cui si conquista il potere statale. E gli ideali del socialismo fanno da bussola, da criterio di orientamento e di valutazione, per questa azione di lotta e di trasformazione4.

Naturalmente, oggi, non si può riproporre in quanto tale questo richiamo a Kant: ma esistono, nella filosofia contemporanea, autori e correnti di pensiero che possono essere valorizzati come portatori di una visione normativa, nel senso che si propongono apertamente di costruire i paradigmi teorici che permettono di valutare insieme i processi sociali e la loro logica, ma trarre anche da essi i principi, le potenzialità positive per un cambiamento. Mi riferisco ad autori, che appartengono al campo del liberalismo democratico americano, come Rawls, che costruisce tutta la sua opera a partire da una domanda cruciale che non ha alcun timore a porsi: “Com’è possibile una società ‘giusta’? E cosa vuol dire una società ‘giusta’”? E mi riferisco a un autore come Habermas, da sempre collocato nel campo della sinistra socialdemocratica tedesca, che – nella sua teoria discorsiva del diritto e della democrazia – ha costruito la visione del progetto costituzionale come progetto essenzialmente incompiuto: un progetto, cioè, che si fonda sempre su una tensione costruttiva tra i principi inscritti nelle norme e la loro attuazione e legittimazione nei fatti.

Oggi, dunque, un discorso pubblico sul socialismo è possibile, ed è necessario, ma in queste forme: come affermazione di una serie di principi che possono guidare i processi di trasformazione di una storia che non sembra più avere un “senso”. Viviamo dentro l’orizzonte di un capitalismo (finanziario, globalizzato? le stesse definizioni sono incerte e discutibili) che muta continuamente: non è più possibile replicare lo schema del passato in cui l’obiettivo era, semplicemente, il “superamento” del capitalismo. Sappiamo quanto di ingiusto e sbagliato occorra “superare”, ma per andare verso dove?

E allora, in questa condizione di incertezza, acquista ancora più forza una visione del socialismo come ideale regolativo che ispiri la lotta e le trasformazioni quotidiane: se la storia non ha più un senso “oggettivo” – o se la storia, forse, un senso, ce l’ha, ma esso drammaticamente ci sfugge –, non per questo possiamo rinunciare all’idea di dare un senso alla storia, di costruire con le nostre idee un mondo più decente. Saranno poi i posteri, semmai, a dire se da questa indefinita e indefinibile fase di trasformazione storica è “fuoriuscito”, come si usava dire un tempo, qualcosa che non è più il capitalismo che abbiamo conosciuto, ma una società che non sappiamo ancora come potrà essere definita. E l’ideale regolativo del socialismo non ha bisogno di essere reinventato, non ha perso i suoi capisaldi:

– libertà e uguaglianza degli individui;

– la stretta connessione tra la libertà di ciascuno e la libertà di tutti, tra la libertà individuale e la libertà collettiva: una connessione che, ovviamente, incorpori pienamente tutti i principi di uno Stato costituzionale di diritto;

– la costruzione di condizioni economiche, sociali e culturali che costruiscano l’uguaglianza, o quanto meno favoriscano una drastica riduzione delle diseguaglianze.

E tuttavia, c’è anche un punto di novità, che oggi bisogna affermare con forza. Rispetto a questi principi, un punto di radicale rottura con l’idea e l’immagine dominante del socialismo, che ci viene dal passato, riguarda lo Stato e il ruolo dello Stato: bisogna mostrare e dimostrare la necessità e le virtù di una regolazione pubblica di fondamentali aspetti della vista sociale, affermare con forza l’esistenza di beni pubblici e di beni comuni; ma occorre anche affermare una visione non statalista del ruolo dello Stato, puntare su tutte le forme di auto-organizzazione sociale e solidale della vita collettiva che è possibile immaginare e costruire.

Un “discorso pubblico” sul socialismo, su questa idea di socialismo, è dunque necessario e appare oggi quanto mai plausibile, dotato di un’intrinseca, potenziale capacità di convinzione, capace di contrastare l’egemonia del modello neoliberista (neoliberista, mi raccomando, non “neo-liberale”: il liberalismo politico è altra cosa, e va tenuto caro…). Ma è anche possibile? E come?

Il “caso” italiano, il contesto europeo e quello internazionale

Un “discorso pubblico” sul socialismo, che sappia costruire una propria presenza egemonica, che quanto meno sia in grado di contrastare le ideologie dominanti, non può essere affidato solo alla buona intenzione dei singoli. Da questo punto di vista, anzi, il quadro non sarebbe affatto sconfortante: esistono intere librerie di studi e di testi che possono oggi rilanciare ed elaborare un rinnovato “discorso pubblico” sul socialismo. A mancare drammaticamente sono i soggetti collettivi che producano una nuova cultura politica diffusa, che sappiano proporla e diffonderla come chiave di interpretazione e di valutazione della società, agli occhi degli individui che in questa società vivono e lavorano, e che magari sono spinti dalle circostanze, dal “senso comune” in cui sono immersi, a pensare che non esistano alternative a un assetto sociale ed economico fondato su una inaccettabile livello di diseguaglianza.

La sfera pubblica, come abbiamo detto all’inizio, è percorsa da una pluralità di soggetti, formali e informali, che apportano il loro contributo di idee, che contrastano altre idee, che intessono una rete di interazioni discorsive, dove alcune idee si affermano e altre vengono contestate. Un’idea o un ideale di socialismo potrà ritornare a essere praticabile, ad avere un proprio spazio, se vi sono soggetti – dagli intellettuali fino alle strutture associative – in cui questa idea di socialismo torna ad avere una sua cittadinanza, riconquistandosi una sua credibilità e legittimazione. E naturalmente – avrete capito dove vado a parare – ci sarebbe bisogno di un partito, o di partiti, che al socialismo si ispirino.

Qui entrano in campo potentemente le specificità nazionali: dico subito che a me sembra impossibile in Italia, almeno nel medio termine, la ricostituzione di un vero partito che assuma il “socialismo” come propria identità politica: non si rimettono indietro le lancette della storia. Altrove è diverso: esistono partiti che continuano a richiamarsi, e con un certo successo, alla tradizione socialista (Spd in Germania, Psoe in Spagna, il Partito socialista portoghese, le socialdemocrazie scandinave); ma sono casi in cui c’è stata continuità anche organizzativa tra il passato e il presente. E pur negli alti e bassi, anche elettorali, la permanenza di un dato di identità ereditato dal passato, e anche coltivato e non rimosso, ha permesso di ripartire e ricostruire dopo i momenti di crisi.

Esistono casi, invece, in cui l’eredità socialista si è dispersa, ed è ormai difficile tornare a racchiuderla dentro una forma-partito definita: il caso francese, il caso del Pasok greco, e il caso italiano, naturalmente. Con una differenza: in Grecia, Syriza ha raccolto l’eredità della sinistra; in Francia, come mostra lo spettacolo penoso che sta dando la gauche in vista delle elezioni presidenziali, il fallimento appare totale5. E in Italia? Cosa si può fare? Come può esistere un “discorso pubblico” sul socialismo, che ha profonde ragioni d’essere e forti motivazioni ideali e politiche, in assenza di un soggetto politico che a questa identità si ispiri apertamente?

Una risposta possibile è quella di ricominciare a parlare e discutere di socialismo, delle “ragioni” del socialismo, in tutte le sedi possibili, naturalmente, e anche dentro le attuali formazioni politiche della sinistra.

Ma forse, con la dovuta cautela, qualche spunto ci può venire da quel che accade negli Stati Uniti, ed è singolare che si possa fare questo riferimento pensando proprio al paese a cui, nel 1906, il sociologo ed economista tedesco Werner Sombart dedicò un saggio che si intitolava, appunto, Perché non esiste il socialismo negli Stati Uniti? Nella politica americana vediamo all’opera, e molto attivo, un gruppo di giovani parlamentari democratici (soprattutto donne) che vengono definiti, e si autodefiniscono senza timori, apertamente “socialisti”, sulla scia del caposcuola, il vecchio senatore del Vermont, Bernie Sanders. C’è un riconoscersi, e un altrui riconoscimento, delle posizioni di questa ala del partito democratico americano come portatrice di idee “socialiste”. Certo, la destra americana continua a considerare “socialista” come un epiteto ingiurioso: ma la cosa singolare è che i destinatari di questa accusa accettano e rilanciano la sfida, non si mimetizzano.

Si può immaginare qualcosa del genere anche in Italia? Una corrente “socialista” dentro formazioni politiche che non hanno, e non possono più avere, una esclusiva o prevalente identità socialista? Negli Usa può accadere per il peculiare assetto istituzionale e per la storia e la struttura dei partiti. E in Italia? Si può pensare a una vera corrente “socialista” dentro una più ampia rete di forze e soggetti che, a sinistra del Pd, riescano finalmente a coagularsi e a darsi una forma più strutturata e credibile? E il Pd? Potrebbe essere uno dei luoghi in cui queste correnti possano trovare un qualche spazio di azione? Forse, potrebbe succedere; ma solo se il Pd si rivelasse un partito più “accogliente” e praticabile, e fosse capace di autoriformarsi almeno un po’, consentendo quella dialettica politica che invece è possibile nel Partito democratico americano. Una prospettiva, a dire il vero, che non sembra proprio alle viste, almeno fino a quando il Pd non si deciderà a fare un congresso degno di questo nome.

Conclusioni

Di socialismo si può e si deve continuare a parlare; e non solo parlare: bisogna aprire quella che un tempo si chiamava “una battaglia delle idee” per affermare una nuova cultura politica della sinistra, in cui sia ben presente e sia rivendicata la tradizione del pensiero socialista, senza timidezze, con tutte le necessarie innovazioni e diramazioni contemporanee, in particolare sul terreno della cultura ecologista.

È difficile, ma non bisogna rassegnarsi: sono tutt’altro che anacronistiche le ragioni che hanno determinato la genesi storica dei partiti che si sono ispirati al movimento operaio e socialista: il partito è una risorsa organizzativa che dà più forza e coesione alle classi sociali e agli individui che una società capitalistica – tanto più quella di oggi –, rende più “soli” e più “deboli”. Il partito è una risorsa dell’azione collettiva per tutti quegli attori che, individualmente, sarebbero più indifesi, esposti ai poteri economici che controllano i meccanismi sistemici del dominio sociale. Come in passato, al nascere delle prime associazioni operaie e socialiste, si diceva che “l’unione fa la forza”, così anche oggi – in condizioni storiche del tutto diverse – rimane sempre aperta la domanda sul modo in cui individui e gruppi sociali, umiliati o compressi nella loro capacità di sviluppo delle proprie potenzialità umane e della propria libertà di autodeterminazione, possano collettivamente agire per affermare i propri interessi e i propri valori. Il socialismo, in fondo, è questo.

1 Habermas, J., Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari, Laterza, 2002 (ed. or. 1962; traduzione italiana della nuova edizione 1990, con una nuova Prefazione dell’autore).

2 Habermas, J., Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, a cura di Leonardo Ceppa Laterza, Roma-Bari, nuova ed. 2013; ed. or. Faktizität und Geltung. Beiträge zur Diskurtheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaats, Surkhamp, Frankfurt a.M., 1992. La teoria habermasiana si fonda su una costitutiva dimensione intersoggettiva, che si esprime nella rete di interazioni discorsive che si producono sia nelle sfere pubbliche sia nelle procedure democratiche. È su questo punto che Habermas ricorre alle due note immagini, con cui spesso viene riassunta la sua posizione: il modello del “doppio binario” e quello delle “chiuse idrauliche”. “Doppio binario” richiama il duplice circuito di costruzione della legittimazione democratica, quello che passa attraverso le procedure di uno Stato costituzionale di diritto, e quella che si produce nella sfera pubblica, attraverso il consenso, il dialogo pubblico, lo scontro e il confronto delle idee. “Chiuse idrauliche”, perché il “flusso” dell’opinione pubblica non può mai essere incanalato, senza mediazioni, nelle procedure istituzionali che producono decisioni vincolanti per tutti. Secondo Habermas, tra le sfere pubbliche (e la “società civile” che ne costituisce la “base sociale”) e la sfera istituzionale che produce decisioni politiche, si instaurano flussi di comunicazione “senza soggetto”, che creano “arene in cui può aver luogo una formazione più o meno razionale dell’opinione e della volontà intorno a materie rilevanti per l’intera società e bisognose di essere regolate” (Fatti e norme, ed. cit. pp. 334-35).

3 Cartocci, R., Political Culture, in B. Badie, D. Berg-Schlosser e L. Morlino, a cura di, International Encyclopedia of Political Science, vol. VI, London, Sage, 2011, pp. 1949-1962.

4 Il socialismo di sinistra austriaco ha avuto i suoi estimatori in Italia: si vedano in particolare, le posizioni di Bruno Trentin, in uno dei suoi ultimi testi, La città del lavoro. Sinistra e crisi del fordismo, Firenze, University Press, 2014.

5 C’è poi la questione, che qui non possiamo affrontare, della cultura socialista in America latina: un continente in cui la battaglia politica è molto forte e anche promettente, con il ritorno negli ultimi anni di una sinistra in grado di vincere, come mostrano le recenti elezioni in Cile, in vista della cruciale battaglia che si preannuncia in Brasile, con la nuova candidatura di Lula. Ci sembra di poter dire che queste forze democratiche, in America latina, non siano riconducibili a una esclusiva identità “socialista”, eppure il “lievito” socialista è ben presente e agisce, all’interno di una cultura riformatrice molto avanzata, che attinge a una pluralità di fonti di ispirazione.

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