di Rino Genovese
Quando l’eco mediatica e propagandistica intorno alla cattura di Cesare Battisti e al suo rientro in Italia si sarà spenta, si dovrà ritornare sulle ragioni che hanno spinto alcuni di noi a difenderlo in tutti questi lunghi anni. Il militante dei Pac (“Proletari armati per il comunismo”) avrà di sicuro la responsabilità politica e morale degli atti terroristici compiuti, degli omicidi, delle rapine e quant’altro, ma non si può proprio dire che abbia ricevuto un trattamento giudiziario equo. Condannato all’ergastolo in contumacia, cioè in un processo svoltosi in sua assenza – che, in alcuni ordinamenti, tra cui quello francese, dev’essere obbligatoriamente ripetuto quando poi si dia la presenza dell’imputato –, Battisti è stato giudicato in base a una legislazione di emergenza che ha consentito ai collaboratori di giustizia – i cosiddetti pentiti – di ottenere notevoli benefici e sconti di pena. È evidente che, se uno dei co-imputati è un fuggiasco evaso dal carcere, come nel caso di Battisti, si tenderà a scaricare su di lui gran parte delle responsabilità penali. E i riscontri, che i magistrati sono comunque tenuti a fare, sono pressoché impossibili in assenza delle dichiarazioni dell’imputato. Battisti è stato condannato per un insieme di reati gravissimi senza che vi sia stato alcun confronto con chi lo accusava. Ciò anche senza parlare di episodi di tortura, che in questa vicenda non sono documentati, mentre lo sono in parecchi altri casi, confermati da funzionari di polizia come il mio quasi omonimo Rino Genova e il tenebroso Nicola Ciocia, soprannominato professor De Tormentis dai suoi stessi colleghi.
La famosa “dottrina Mitterrand”, che in Francia ha a lungo protetto Battisti e altri rifugiati della “lotta armata”, si basava proprio su questo: in Italia era stata introdotta una legislazione speciale per contrastare il terrorismo che presentava palesi criticità sul piano delle garanzie processuali individuali. D’altronde lo stesso Craxi, da presidente del Consiglio, aveva tacitamente rinunciato a chiedere l’estradizione degli ex terroristi italiani. Ma a un certo punto, con Chirac, l’aria cambia e Battisti, per evitare l’estradizione, fugge in Brasile. Qua un governo come quello di Lula, in un paese in cui non esiste la pena dell’ergastolo, gli concede lo status di rifugiato politico.
Come si vede – e il recente mutamento di clima politico in Brasile, con l’elezione di Bolsonaro, lo testimonia in modo inoppugnabile – i destini di Battisti sono dipesi dai diversi contesti in cui si è trovato. La notizia perciò non è che Battisti sia stato infine acciuffato: piuttosto è quella che la Bolivia di Evo Morales, paese in cui da ultimo ha cercato rifugio, ha ritenuto di lavarsene le mani collaborando alla sua cattura. Poco male se oggi a Battisti, in Italia, sarà concessa la revisione del processo. Altrimenti dovremo prendere amaramente atto che, a distanza di tanti anni dalla vicenda terroristica del nostro paese, le considerazioni di ordine politico e propagandistico prevalgono su quelle del diritto di ciascuno ad avere un processo equo.