Un’intervista a Rino Genovese

Intervista

[L’intervista è stata pubblicata il 25-11-2016 sul sito dell’Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani)]

Rino Genovese, che è ricercatore di Filosia alla Normale di Pisa,  partecipa  a un importante convegno  – curato da Alessandra Criconia  –  “Diritto alla città. Territori, spazi, flussi”,  (con interventi di Desideri, Cellamare, Donzelot, Ilardi, Aymonino, Careri, Villanim, Pezzella, Tursi, etc.)  e che continua oggi. Il convegno intende riunire architetti, urbanisti, sociologi, filosofi in un confronto sulle nuove condizioni, fisiche e sociali, dei territori urbani e sulle problematiche del progetto e del governo della città a partire dalle possibilità di uso da parte dei cittadini e della produzione dello spazio secondo le attese della collettività. Gli  abbiamo rivolto alcune domande

L’urbanizzazione. Il nostro pianeta sta sempre più urbanizzandosi: ormai, per la prima volta nella storia dell’umanità, il numero di chi vive nelle città ha superato quello della popolazione rurale. E, se l’attuale tendenza sarà confermata, alla metà del secolo corrente circa i due terzi della popolazione vivrà in ambito urbano. Come valuti il fenomeno?

È vero, alla fine degli anni cinquanta del secolo scorso, i quattro quinti dell’umanità vivevano ancora nelle campagne e nei villaggi. Negli ultimi decenni, invece, abbiamo assistito a un processo mondiale di urbanizzazione senza precedenti. Di per sé sarebbe una buona notizia, perché “l’aria delle città rende liberi”, come diceva un vecchio adagio. Però non c’è fenomeno sociale che non sia ambivalente e contraddittorio. Se l’aria delle città è irrespirabile – per i problemi dell’inquinamento e del sovraffollamento – diviene irrespirabile la stessa libertà. Si potrebbe allora rispondere che è necessaria una città a misura d’uomo. Tuttavia bisogna sapere che la cifra della città contemporanea – che non è neppure quella della metropoli europea o statunitense ma della megalopoli asiatica e latinoamericana – è proprio la dismisura. L’informe è la forma della città contemporanea. Ma informe è anche una libertà puramente individualistico-atomistica, priva di regole che non siano quella del proprio “particulare”. L’odierno processo di urbanizzazione su scala mondiale potrebbe essere considerato positivo, un aspetto del progresso, se solo si riuscisse a modificare di pari passo il modello di sviluppo globale nel senso di una prevalenza dei bisogni collettivi sui consumi privati.

La questione del limite.  Negli  anni ’20 Le Corbusier pensava la modernità come espansione, mezzo secolo dopo Insolera dice che la modernità è   darsi un limite.   Nella città   immaginaria di Zoe (nelle Città invisibili di Calvino) priva di qualsiasi confine, interno ed esterno, si finisce con lo smarrirsi. Insomma ci vogliono i limiti, i confini?

Non ci vogliono i confini. Il mondo del resto li ha già: sono quelli della circonferenza terrestre. Ma la questione dei limiti è un’altra cosa. Si tratterebbe di introdurre all’interno dello sviluppo e del suo “cattivo infinito” (usando, in altro contesto, un’espressione di Hegel), che è la logica dell’accumulazione illimitata secondo cui si aggiunge unità a unità senza mai arrivare a capo di un processo, qualcosa che ha a che fare con un principio di autoregolazione. Alcuni parlano, a questo proposito, di decrescita. È possibile arrestare, anzi invertire, la linea dello sviluppo? E sarebbe mai augurabile? Taluni preferirebbero i tempi del lume a petrolio a quelli dell’elettricità e dell’elettronica. A mio modo di vedere, non si tratta tanto di porre dei limiti allo sviluppo (anche perché questi limiti in fondo ci sono, e sono quelli delle risorse naturali), quanto piuttosto di sottoporre il movimento a una trasformazione di quei rapporti sociali prodotti e riprodotti dallo sviluppo indefinito. Anche questa trasformazione sarebbe a sua volta indefinita, nel senso che non può essere pre-orientata verso un esito certo, ma, accompagnando lo sviluppo, potrebbe controbilanciarlo. L’esigenza di un progresso civile sarebbe il limite da opporre a uno sviluppo in se stesso inarrestabile.

Il rapporto con il passato. Rapporto con il passato, con le opere architettoniche  del passato,  oscillante tra imbalsamazione e assenza di memoria: città come parco a tema per turisti, i Grandi Eventi come riverniciatura superficiale…Ad es. ritieni che il Comune dovrebbe salvare  negozi  e caffè di valore storico,  come del fanno a Parigi?

Come utente dei caffè mi piacerebbe che fossero preservati. Non sopporto che a Firenze  Giacosa, il locale in cui fu inventato il cocktail Negroni, sia oggi una volgare boutique con tappezzeria leopardata di Roberto Cavalli. Ciò è stato reso possibile da una legge di un governo di centrosinistra che puntò sulle liberalizzazioni: cosa giusta quando si parla di attività puramente commerciali, ma che diventa sbagliata se trascura di preservare la storia e l’identità di un luogo. D’altronde è anche vero che le città d’arte italiane sono diventate – almeno nei loro centri storici – dei parchi a tema. Allora che fare? Da una parte non esiste città se non in un’evoluzione continua, che sconfina nell’informe; dall’altra, gli spazi andrebbero preservati in un’ottica non puramente turistica, come qualcosa che dev’essere vissuto dagli abitanti nella memoria del passato ma anche qui e ora. Ci ritroviamo, su questo piano, a fronteggiare un’altra ambivalenza della città contemporanea.

La rappresentazione della città.  Oggi occorre   una  nuova rappresentazione e un altro racconto per tentare di costruire una qualche idea comune e adeguata del vivere  in città. Chi potrà costruirla? Urbanisti? Amministratori? Scrittori? Artisti? Sociologi?

Tutti questi che dici e gli abitanti nel loro insieme. Sono loro i protagonisti della città, quelli che la vivono, che prendono i mezzi pubblici spesso malfunzionanti, che ci lavorano o vanno a passeggio, che si muovono nelle strade o si stiracchiano sui divani delle loro case. Sono loro, soprattutto, i protagonisti del caos, gli inconsapevoli utenti quotidiani dell’ibridazione della modernità, che non significa soltanto impasse, tendenziale neutralizzazione reciproca di tradizione e innovazione, ma mescolanza di generi e possibilità di trovare combinazioni diverse e impensate. Mi piacerebbe che nel convegno che come Fondazione per la critica sociale stiamo facendo a Fontanella Borghese   sociologi, urbanisti, architetti e anche filosofi cominciassero a rompere gli steccati delle loro rispettive discipline, che cioè si ibridassero tra loro fuori dagli specialismi, per porre sul tappeto, almeno a livello delle antiche città europee, la questione di un nuovo progetto urbano non più appannaggio – come in una modernità un tempo pimpante e troppo sicura di sé – di un sapere calato illuministicamente dall’alto.

 

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