Vittorio Sereni, o dell’utopia

Vittorio Serenidi Maria Borio

[Il 25 aprile 2020 avrebbe dovuto tenersi il secondo incontro intorno a “Lirica e società / Poesia e politica” nella sede romana della Fondazione per la critica sociale, rinviato sine die a causa dell’emergenza sanitaria. Pubblichiamo qui il contributo di Maria Borio].

1. Nel 1971 esce il poemetto Un posto di vacanza di Vittorio Sereni. Viene pubblicato nel primo numero dell’«Almanacco dello Specchio», poi nel 1973 in una plaquette da Scheiwiller, per essere infine incluso nella raccolta Stella variabile del 19811. Un posto di vacanza è diviso in cinque parti, con una serie di scene che si incastrano l’una con l’altra e mescolano il racconto oggettivo della realtà con la sua percezione interiore, intrecciando l’epifania lirica, la narrazione, il dialogo. Nella quinta parte leggiamo (vv. 8-17):

Pensavo, niente di peggio di una cosa
scritta che abbia lo scrivente per eroe, dico lo scrivente come tale,
e i fatti suoi le cose sue di scrivente come azione.
Non c’è indizio più chiaro di prossima vergogna:
uno osservante sé mentre si scrive
e poi scrivente di questo suo osservarsi.
Sempre l’ho detto e qualche volta scritto:
segno, mi domandavo, che la riserva è agli ultimi,
che non resta, o non c’era, proprio altro?
Che fosse e sia un passaggio obbligato? Mi darebbe coraggio.

Sono parole che potrebbero far pensare a una crisi irrimediabile della lirica. Se ci atteniamo all’idea di lirica ereditata dal romanticismo, sicuramente segnano una crisi del genere lirico, persino la necessità di dismetterlo. Ma con una lettura diversa di quei versi dalla quinta parte di Un posto di vacanza, fino a che punto troviamo confermati una crisi e uno svuotamento della lirica? Ciò sembrerebbe valere solo per la lirica moderna come stereotipo.

2. La lirica è il genere che ha prodotto la forma simbolica con cui è stata letta più frequentemente la poesia italiana del Novecento. Tuttavia, soprattutto da un certo momento in poi, diventa uno stereotipo, che ingabbia non solo la scrittura in versi, ma anche la presenza della soggettività in scrittura. La forma simbolica cristallizza l’idea del soggetto romantico, quella di un individuo capace di intuizioni e riflessioni universali, assolute, unico, separato e ribelle rispetto alla società. Le riflessioni sulla soggettività, però, hanno seguito uno sviluppo articolato e differenziato. Così come la filosofia del soggetto ha attraversato molte trasformazioni, è cambiata la funzione della lirica e della soggettività nella scrittura. Anche se, nella percezione più diffusa, almeno in Italia, l’influenza della lirica come stereotipo ha pesato al punto da irretire l’uso della soggettività in uno schema che sembra ripetersi da due secoli. Che cosa è accaduto?

Lirica e società, dal romanticismo in avanti, sono messe in rapporto mediante la cultura morale dell’autenticità. Caratteristica cruciale di questa cultura è quella di esprimere il legame tra il pensiero moderno e la soggettività in quanto capacità di essere se stessi. In questo legame c’è l’origine della lirica moderna: l’Erlebnislirik, la lirica dell’esperienza, fondata sul vissuto personale di un soggetto e sulla coincidenza tra un io e il racconto della sua esperienza, che si oppone alla lirica formalistica delle epoche precedenti, plasmata invece su luoghi comuni rinnovabili2.

Il nesso tra Erlebnislirik e autenticità è alla base della poesia moderna. Ed è anche dalla loro interazione che nasce l’abitudine di guardare la lirica come un cliché della poesia moderna. Infatti, da un lato si cristallizza l’idea che la poesia debba esprimere il momento soggettivo dell’esperienza di un vissuto personale; dall’altro, che questo vissuto personale sia un momento assoluto che compare con il pathos della grandezza incompresa e con uno strappo tra sé e la società. Il genio romantico è isolato, ma considerato capace di un sentire universale, e questo resta tale anche quando, dalla seconda metà dell’Ottocento, la sensibilità romantica entra in crisi. Il genio è sostituito da un io disforico, concentrato nella percezione di epifanie di cui riconosce il limite, ma a cui attribuisce la capacità di una individuazione di senso che trascende il suo vissuto. Il suo atteggiamento è anonimo, decentrato e – con Ortega y Gasset – disumanizzato3. Quando, soprattutto dagli anni Sessanta e Settanta del Novecento, ogni idea di sistema sovrastrutturale viene messa in discussione e per gli individui inizia ad andare in crisi il senso di una ricerca di un orizzonte collettivo, il rapporto tra lirica e autenticità si riversa nell’espressione di una soggettività inghiottita – come dice Lasch – dall’affermazione narcisistica del sé4. Questo itinerario sembrerebbe indicare che la cultura dell’autenticità abbia portato a un paradigma degenerativo della lirica. Ma proviamo a osservare l’evoluzione del discorso dell’autenticità in altri termini.

Nell’ambito della cultura dell’autenticità, il significato di esperienza è diventato a mano a mano più complesso rispetto al vissuto personale di un io. Per Husserl l’esperienza comprende tutti i processi di coscienza, fino a coincidere con la coscienza stessa. C’è una intenzionalità della coscienza determinata dal fatto che questa, per definizione, è sempre coscienza di qualcosa. L’esperienza è il vissuto intenzionale di un soggetto che non si limita a esprimere se stesso: essa acquista un significato gnoseologico e fenomenologico più ampio rispetto a quello che ha nell’Erlebnislirik. Si danno dei campi di esperienza (Erlebnisfelder) in cui il vissuto personale diventa vissuto intenzionale, anche nel senso di un confronto dell’io con altre vite, nella varietà delle relazioni tra l’io e il mondo5.

Gli Erlebnisfelder sono campi relazionali di conoscenza, che ampliano sia il modo in cui l’autenticità fa interagire l’io e la realtà, sia il concetto di soggettività in scrittura. Diventa così cruciale il momento intersoggettivo. Quest’ultimo può essere visto in vari modi. Lo si può considerare come l’aspetto socioculturale di un universale negativo imposto all’io, che può ancora esprimere la propria individualità soltanto per sottrazione, come in Adorno6. E può esserci anche una soggettività relazionale riflessiva, per la quale la società e la cultura non sono necessariamente costrittive e repressive, ma lo spazio di un materiale simbolico fondamentale per costruire una condotta di vita autentica7. L’io non si lacera o decentra, prova a tenere uniti i vari livelli di esperienza e i momenti della vita individuale nell’orizzonte di un progetto – che esprime anche una pragmatica dell’utopia.

L’etimologia stessa di autenticità rimanda a una dimensione relazionale. “Autentico” viene dal greco authentikos, che significa “originario, genuino”, e rimanda a quella condizione essenziale, fondamentale, fondante il nostro essere e la nostra individualità. A sua volta, authentikos deriva da authentes, “colui che agisce secondo una ragione e un’autorità che è propria di se stesso”, composto da autos – “se stesso” – e hentes – “colui che fa, agisce”8. Autentico è chi “fa agire il proprio sé”, chi agisce in accordo con la natura originaria, genuina del proprio essere. L’esperienza è la conoscenza che il soggetto, a partire da se stesso, sviluppa nella relazione tra se stesso e la realtà. Attraverso l’autenticità si può portare alla luce una visione che lega molta poesia del Novecento, tradizionalmente considerata lirica, a una condizione relazionale, etica e politica, della soggettività.

3. Una funzione rinnovata della lirica può essere individuata già in Un posto di vacanza di Sereni. Come abbiamo detto, è un poemetto diviso in cinque parti. Ogni parte è composta da un intreccio tra più scene, ognuna articola più dati e più registri. Al centro c’è un’interrogazione su come la poesia possa allacciare l’esperienza di un individuo agli eventi della storia («Anno: il ’51. Tempo del mondo: la Corea», I, v. 38) e raccontare la verità del vissuto individuale in rapporto con una dimensione collettiva. Per Sereni – legato alla lettura fenomenologica dell’esperienza di Antonio Banfi, ma anche di Luciano Anceschi – l’unico modo per tenere insieme questi due piani è cercare di rappresentare in poesia l’esperienza come Erlebnisfeld. I campi di esperienza assomigliano al mare, quello del posto di vacanza (Bocca di Magra, tra la Toscana e la Liguria), che nel suo perpetuo moto e divenire è un’allegoria dell’esistenza, riassumendo in sé la sostanza dei più livelli di cui è fatta l’esperienza.

Ogni situazione – quella del posto di vacanza diventa esemplare – è il risultato della dinamica tra l’evidente e il possibile, il vero e il falso, la certezza e la domanda. C’è sempre un «lato comune» e «il suo rovescio» (per riprendere due parole chiave della poesia Situazione, vv. 15-16, da Gli strumenti umani, 1965): apre lo spazio del vuoto tra l’evidente e il possibile – che risalta metaforicamente nel richiamo allitterativo tra il mare, il colore amaranto e l’aggettivo amaro (attorno a cui gravita tutta la quarta parte di Un posto di vacanza; è il «colore del vuoto» che torna in Autostrada della Cisa, v. 31). Ma questa idea di vuoto non ha nulla di nichilistico, come potrebbe sembrare; indica una presa di coscienza: non si può credere ingenuamente di interpretare l’esperienza avendo fiducia nel vissuto personale di un io che si esprime in una lirica ideale («la cosa scritta che abbia lo scrivente per eroe, dico lo scrivente come tale», V, v. 9); ma nemmeno riporre la fiducia nelle ideologie che indicherebbero con sicurezza un senso e una conoscenza condivisibili (a un certo punto viene evocato Vittorini, come un personaggio fantasma che simboleggia l’ideologia comunista, ma l’apparizione si dissolve velocemente risucchiata dall’aria marina: V, vv. 26-46).

Per rappresentare autenticamente l’esperienza, la soggettività non dev’essere più quella di un io personale, ma lo spazio di una dialettica: tra un piano retrospettivo, esclusivo dell’io, e un piano prospettivo, in cui l’io partecipa e al tempo stesso si lascia partecipare dalla fenomenologia dell’esperienza. La rappresentazione dell’esperienza come Erlebnisfeld rende la soggettività uno spazio di relazione dinamica tra io e mondo. Il vissuto e la realtà esterna diventano campi di senso che la soggettività cerca di mettere in relazione. L’esperienza di Un posto di vacanza è una relazione di campi di senso:

Si convive per anni con sensazioni, impressioni, sentimenti, intuizioni, ricordi. […] Sapere sempre che l’angolo utile, il rapporto illuminante non è mai dato, ma è da trovare; e al tempo stesso mettersi in grado di aderire meglio a quanto ha di vario il moto dell’esistenza. E questo è il prezzo della comunicazione.

In questo stralcio dalla prosa Il silenzio creativo (1962) sono contenute le linee guida della poetica che si è formata nella composizione degli Strumenti umani, durata circa vent’anni9. Sereni ci dice che, partendo da un momento in cui l’esistenza è percepita solo in modo intuitivo – simile a quello della «quota Elpenore» per Seferis («la piattaforma esistenziale dell’ancora indifferenziato, del non percepito appieno, o dell’appena percepito per via sensoria» di fronte a cui il poeta si pone in ascolto «finché non comincia a dilatarsi e arricchirsi di nuove esperienze e riflessioni, a interferire con altri elementi, a produrre una lunga serie di reazioni a catena […] fino a staccarsi dal fondo opaco e acquisire una vita autonoma»10) –, l’io deve arrivare a conoscere l’esperienza per saperla comunicare: deve far diventare il vissuto personale uno spazio di relazione e un’ipotesi di conoscenza.

Leggiamo un frammento dalla prosa Morlotti e un viaggio (1982):

L’oblio di sé della cosa di cui parlava De Sanctis trova sviluppi impensati nel nostro secolo. […] Crediamo di prestare alla cosa i nostri sentimenti, sussulti, pensieri, di investirla col nostro sguardo, mentre è lei, la cosa, a determinarlo, a imporci la sua presenza a prima vista insondabile e via via più chiara, fino a un ribaltamento dell’effusione romantica. Alle estreme conseguenze dell’oblio di sé c’è la tensione della domanda dalla cosa a noi11.

La pittura di Morlotti fa un uso del colore e del tratto in modo plastico, sembra che fluidifichi la grana reale dei paesaggi in una stratificazione di segni e cromie. Osservare i quadri non dà l’impressione di un guardare, ma di un respirare12. Sembra veramente che l’io partecipi alla realtà e sia partecipato dalla realtà, e non le imponga mai se stesso. Anche la fantasia non è più orientata sull’io, ma viene legata in modo profondo a un «mondo a portata di sensi», alla fenomenologia, come dice Sereni per Montale: «finché durano sensi e memoria, si sforza di essere percezione di realtà che fermenta e prolifera» (Dovuto a Montale, 1983)13.

Nello stile, questo porta a una forma plastica e fluida – come un caleidoscopio dove si intrecciano varie scene, temi, spazi e tempi, insieme a una testualità vibratile ricca di parentetiche, incidentali, discorso diretto, ellissi, uso del corsivo, citazioni da lingue straniere – che sembra crescere come una «fluidità sostanziosa, disponibile a tutte le assimilazioni organiche»14. Assomiglia a un «organismo vivente» che riflette il moto dell’esistenza – immagine che arriva a Sereni da W. C. Williams15. Considerare la soggettività come uno spazio di relazione ha un risvolto etico che va oltre sia il punto di vista dell’io lirico romantico, isolato, egocentrico e assoluto, sia oltre la sua declinazione critica, alienata o decentrata. Sereni rifiuta l’io romantico:

Sempre meno il poeta si compiace della propria solitudine, sempre meno ne tesse l’elogio. Con Pavese (vedi in Lavorare stanca la poesia omonima) siamo addirittura alla sconfessione di essa come di una stortura sociale. Al punto che lo sviluppo della lirica contemporanea parrebbe svolgersi secondo una progressiva tendenza a rompere, della solitudine, i confini e ad affermare, se non il contrario, il bisogno, la sete del contrario.

In queste frasi di commento a una sua traduzione del Pont Mirabeau di Apollinaire (Da Apollinaire, 1957)16, afferma chiaramente che la forma simbolica egocentrica della lirica non vale più. È accaduto qualcosa. La poesia ha iniziato a far parlare un’individualità cosciente di avere «conti da saldare con l’esperienza»: per conoscerla e comunicarla non può prescindere dal considerarsi parte di una relazione. Tutto questo si condensa in Stella variabile, l’ultimo libro di Sereni, alla fine di un percorso, sia anagrafico sia di ricerca, che testimonia – come ha scritto Luca Lenzini – che il «lavoro» della poesia porta «con sé gli attimi e i miraggi che si depositano sul fondo per poi riapparire, grondanti di tempo, interrogandoci, nella trasparenza»: il lavoro cognitivo di un poeta come Sereni intreccia un piano esistenziale e un piano storico, crea una relazione tra di essi in una trasparenza dialettica tra l’uno e l’altro, per rappresentare una visione e un progetto, consegnati a chi viene dopo – perché «non è forse per il suo dono immaginativo, metamorfico, che la poesia si offre a chi viene dopo, si proietta sul futuro?»17. In tal senso, l’utopia può essere considerata una parte intrinseca del lavoro cognitivo della poesia.

La rappresentazione dell’esperienza può diventare un modo attraverso cui la lirica trova una nuova prospettiva umanistica? Come abbiamo già detto, a partire dagli anni Sessanta e Settanta, quando ogni idea di sistema sovrastrutturale o che può trascendere l’individuo va in crisi, l’io lirico tradizionale, che si considera la voce di un orizzonte di senso, resta in trappola. Il quadro forse potrebbe cambiare se l’io iniziasse a pensarsi non isolato, assoluto, e a vedere il mondo non più come riflesso di una separazione negativa tra se stesso e gli altri, tra se stesso e un sistema. Se l’io non facesse di ciò che è una verità individuale la pretesa di una verità universale, se considerasse la separazione tra sé e il mondo non come un modo di negarlo ma di conoscerlo, se non si limitasse a esprimere se stesso ma riflettesse sulla realtà, una nuova visione umanistica sarebbe possibile: quella dell’io come spazio di relazione. L’utopia è nella relazione.

1 V. Sereni, Un posto di vacanza, in «Almanacco dello Specchio», 1, 1971; Id., Un posto di vacanza, Milano, Scheiwiller, 1973; Id., Stella variabile, Torino, Einaudi, 1981; Id., Tutte le poesie, a cura di D. Isella, Milano, Mondadori, 1995; Id., Poesie e prose, a cura di G. Raboni, Milano, Mondadori, 2013.

2 Vedi G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, Bologna, il Mulino, 2005; G.W.F. Hegel, Estetica, traduzione di N. Merker e N. Vaccaro, con un’introduzione di S. Givone, Torino, Einaudi, 1997, p. 245; W. Dilthey, Scritti filosofici, a cura di P. Rossi, Torino, Utet, 2004, pp. 97-146.

3J. Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell’arte, a cura di S. Battaglia, con una nota introduttiva di E. Berselli e un intervento di E. Del Drago, Roma, Sossella, 2005.

4 C. Lasch, La cultura del narcisismo, trad. di M. Bocconcelli, Milano, Bompiani, 1981.

5 E. Husserl, Ricerche logiche, trad. di G. Piana, Milano, Il Saggiatore, 2015, pp. 365-380.

6 Cfr. Th. W. Adorno, Il gergo dell’autenticità, trad. di P. Lauro, Torino, Bollati Boringheri, 1988.

7 Vedi A. Ferrara, Autenticità riflessiva. Il progetto della modernità dopo la svolta linguistica, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 19.

 Vedi Th. Harrison, Michelstaedter and Existentialist Authenticity Avant la Lettre: From Heidegger and Sartre to Simone Weil, in Storia e storiografia di Carlo Michelstaedter, a cura di V. Cappozzo, Oxford, MI, University of Mississippi, 2016.

9 V. Sereni, Il silenzio creativo, in Id., La tentazione della prosa, introduzione di G. Raboni, Milano, Mondadori, 1998, pp. 69-70. Gli interventi in prosa di Sereni sono raccolti in Id., Poesie e prose, a cura di G. Raboni, cit.

10 Id., Giorgos Seferis, in Id., Letture preliminari, Padova, Liviana, 1973, pp. 126-127.

11 Id., La tentazione della prosa, cit., pp. 119-120.

12  Su Sereni e Morlotti rimando alla sezione Il segno e il gesto ermetico spaziale del catalogo della mostra Ritmo sopra a tutto. Cinquant’anni di storia e di arte al MAGA 1966-2016, a cura di F. Buffoni, MAGA – Città di Gallarate, 2017, pp. 40-43.

13 V. Sereni, La tentazione della prosa, cit., p. 149.

14 G. Debenedetti, Nota alla prima edizione, in V. Sereni, La tentazione della prosa, cit., p. 6.

15 Cfr. V. Sereni, Prefazione a W. C. Williams, Poesie, trad. di C. Campo e V. Sereni, Torino, Einaudi, 1961, pp. 21-32; poi, con il titolo La musica del deserto, in V. Sereni, Letture preliminari, cit., pp. 65-76.

16 Id., La tentazione della prosa, cit., p. 55.

17 L. Lenzini, Verso la trasparenza. Studi su Sereni, Macerata, Quodlibet, 2019, pp. 168-170.

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