Ciclo “Le forme della città”

A CURA DI: CRS TOSCANA, FONDAZIONE PER LA CRITICA SOCIALE, FONDAZIONE ROSSELLI, LEGAMBIENTE TOSCANA, CONVENTINO, CITTA SOSTENIBILE

 

La condizione emergenziale della pandemia ci ha spinto a riflettere sulle forme di vita all’interno delle nostre città, evidenziando e portando all’estremo alcuni fenomeni di lunga data. Si tratta di ridefinire, in rapporto a ciò che stiamo vivendo, cosa intendiamo per spazio sociale (un termine di H. Lefebvre). Da tempo gli spazi delle nostre città sono sottoposti a un processo di mercificazione, che ne altera le strutture e l’ambiente, sono letteralmente posti in vendita, in funzione del turismo di massa e della speculazione immobiliare; ne soffre un’altra concezione dello spazio, che invece di articolarlo in funzione della circolazione delle merci, lo vorrebbe finalizzato all’incontro e al riconoscimento delle soggettività degli abitanti. Da sempre l’architettura e la tessitura urbana sono espressione ed estensione spaziale dei rapporti di potere sociali, ma anche – in alternativa – del legame sociale tra gli uomini. Come si configurano oggi nel nostro spazio questi rapporti? Come possiamo modificarli in meglio? Tenendo conto che i modi della mobilità degli abitanti nel loro spazio incidono sulla loro condizione psicologica, e che la bellezza o meno degli edifici e delle strade che li circondano influisce, anche in modo inconscio, sul loro stato emotivo ed affettivo, sulle relazioni che hanno tra di loro, sul modo in cui la loro vita si snoda nel passato verso il futuro e dunque sulla qualità del tempo vissuto. Continua a leggere “Ciclo “Le forme della città””

Il Dioniso di Hölderlin, ovvero il dio del possibile

di Tomaso Cavallo

Porgo i miei auguri a Mario con grandissimo piacere e con altrettanto affetto – anche se devo ringraziare subito Rino Genovese per il fatto stesso di poterteli fare, caro Mario, perché come tu sai bene, conoscendo da vicino e da sempre la mia pedemontana celtica inurbanità, nei tanti anni (52 per l’esattezza!) a cui risale la nostra conoscenza e amicizia, per quanto frughi nella memoria, ahimè, è sicuramente questa la prima volta che ti auguro un felice compleanno, avendo sempre, con tranquilla incoscienza, ignorato la data del tuo genetliaco, come colpevolmente ignoro la data di compleanno di tutti i miei amici, riuscendo molto spesso a dimenticare addirittura quella dei miei famigliari più prossimi. Continua a leggere “Il Dioniso di Hölderlin, ovvero il dio del possibile”

Appunti su “Il cane di Goya”

di Luca Lenzini

Caro Mario, un po’ sono titubante e imbarazzato a prendere la parola in mezzo a tanti amici che, con molta più competenza di quanto ne abbia io, sono riuniti oggi per il tuo compleanno e per parlare del tuo lavoro. Il mio intervento ha per tema la raccolta di poesie intitolata Il cane di Goya1, che mi è cara per più motivi: perché è tua, perché c’è di mezzo Goya; perché è un libro importante e anche perché la mia copia reca nella dedica una citazione fortiniana, da Composita solvantur, versi che in una lezione per un mio corso sapesti commentare, qualche anno fa, in modo memorabile. (I miei sono appunti corsivi, ma se un giorno avranno la forma più compiuta di una recensione forse porteranno un titolo come Il cane di Goya ovvero Mario nella Quinta del Sordo.)

Ora, se penso alla tua poesia, in generale, e cerco un termine adatto a renderne conto, la prima parola che mi viene in mente è “spessore”. Mi rendo conto che non è granché, anzi è un’approssimazione piuttosto goffa a quanto vorrei dire; ma almeno può servire a introdurre una caratteristica della tua scrittura poetica che colpisce a prima vista: ovvero la stratificazione e la pluralità dei livelli discorsivi che vi si intrecciano, che stringono l’insieme di una raccolta come Il cane di Goya, appunto, e conferiscono coerenza e durata alla struttura complessiva. Continua a leggere “Appunti su “Il cane di Goya””

Due o tre cose sulla “Critica della ragion populista” di Mario Pezzella

di Alessandro Simoncini

Anche se le forze populiste nel mondo hanno leggermente frenato una corsa che sembrava inarrestabile, le cause profonde del populismo restano intatte nell’“intreccio di tre crisi differenti”: una crisi economica che ha colpito duramente, e continua a colpire, ceto medio e classi subalterne; una crisi politica che ha generato, e genera, sfiducia nei confronti del sistema dei partiti; una crisi “culturale” che ha prodotto, e continuerà a produrre, una crescente percezione di insicurezza nei confronti di profughi e migranti, con le correlate richieste di protezione identitaria. A completare il quadro c’è poi il rafforzamento di un ambiente mediatico, come quello dei social network, molto favorevole alla conquista di visibilità e egemonia da parte dei populisti (D. Palano, Apocalisse democratica, in “Rivista internazionale di Politica, Filosofia e Diritto”, 2, 2020).

Per questo è interessante e utile tornare a leggere due brevi densi testi in cui, nel 2016, Mario Pezzella ha schizzato i lineamenti fondamentali di una Critica della ragion populista (Critica della ragion populista, in “Il Ponte”, 8-9 2016 e in S. Cingari, A. Simoncini, Lessico postdemocratico, Perugia, PUP, 20161). La Critica di Pezzella va riletta per quello che è: un frammento di “ontologia politica dell’attualità” che si insedia con una prospettiva di parte dentro un campo strategico ben determinato, quello della lotta tra teoria populista e teoria socialista. Pezzella pensa e scrive la sua Critica dentro il cosiddetto “momento populista” e contro La ragione populista di Ernesto Laclau (Roma-Bari, Laterza, 2008): il testo che – come sappiamo – ha funzionato da “metafisica influente” per la sinistra populista europea e non solo. Con Laclau, contro l’idea stessa di una sinistra populista, Pezzella ingaggia un serrato corpo a corpo nel corso del quale compie tre mosse teoriche (tra le altre) particolarmente interessanti. Continua a leggere “Due o tre cose sulla “Critica della ragion populista” di Mario Pezzella”

Seminari su disordine della natura e capitalismo

Interpretare le sfide della nostra epoca per andare oltre il modello capitalistico e immaginare un futuro più giusto e sostenibile

Il ciclo di seminari intende proporre alcune categorie di pensiero che si ritengono utili per comprendere la situazione di emergenza che stiamo vivendo. Punto di partenza della nostra riflessione sarà il concetto di apocalisse culturale, elaborato da Ernesto De Martino. Un’apocalisse culturale si verifica quando, in seguito a un trauma storico profondo (un’epidemia, una guerra, un’aggressione coloniale, una crisi economica sistemica, una catastrofe ecologica) l’ordine simbolico con cui abitualmente riusciamo a orientarci nella realtà ambiente e nella vita quotidiana viene a essere sospeso, diventa irriconoscibile e ci lascia esposti al caos politico e psichico. Si verifica allora quella che sempre Ernesto De Martino ha definito una crisi della presenza.
Siamo, infatti, di fronte a un dissesto e a un disordine reattivo della natura, provocato dalla crisi sistemica del capitale e della sua concezione della tecnica. Qualcosa dunque di così radicale e profondo da minacciare il nostro ordine simbolico nelle sue stesse fondamenta. Come ebbe a dire Walter Benjamin in uno dei momenti più drammatici della storia del Novecento, «prima che la scintilla raggiunga la dinamite, la miccia accesa va tagliata».
I vari interventi del seminario, di cui proponiamo di seguito gli abstract intendono analizzare da diverse prospettive, a nostro avviso complementari, il dissesto radicale della forma di vita e la crisi della presenza che stiamo vivendo, integrando e sviluppando l’intuizione di De Martino e cercando di prefigurare anche come superare questa crisi per una nuova dimensione della relazione fra natura e cultura come base di un nuovo modello di sviluppo.

Scarica gli abstract

 

Lusso Comune

Lusso comunePer quanto sconfitta e conclusasi in una triste tragedia, la Comune di Parigi del 1871 diede voce a un possibile che si è impresso per sempre nella ­memoria storica: è concepibile una vita senza rapporti di servitù e sfruttamento, senza il dominio esclusivo del denaro, senza Stato e senza capitale? Con tutti i limiti e le contraddizioni che hanno contribuito alla loro sconfitta, gli uomini e le donne della Comune tentarono di dissolvere le strutture burocratiche dello Stato-nazione centralizzato. Ciò che sembrava fantasma e immagine di sogno si mostrava invece come utopia concreta. La Comune realizzò una riorganizzazione della vita quotidiana, nella sua pratica sociale, molto più rilevante di qualsiasi atto di governo: in tal senso essa è l’indicazione di uno stile di vita: «Estendere la ­dimensione estetica alla vita quotidiana, come richiesto sotto la Comune dalla Federazione degli Artisti, non solo rende l’arte accessibile a tutti, ma la rende anche parte integrale di qualsiasi processo creativo. Si crea una nuova relazione sensibile con i materiali – la loro consistenza, densità, malleabilità, resistenza – e con i processi lavorativi propri di ciascuno, con le tappe necessarie per la loro realizzazione e, d’altro lato, con la nuova riproduzione delle abilità di chi vi ha partecipato» (Ross).
Il lusso comune è una riconfigurazione della vita quotidiana in cui – al di là di ogni separazione di classe – l’arte e la pratica del lavoro si fondono in una nuova unità vitale, in un gioco armonico.

Kristin Ross (1953) è professore emerito di Letterature comparate alla New York University. Esperta di cultura francese dei secoli XIX e XX, ha pubblicato numerosi libri, tra i quali:
The Emergence of Social Space: Rimbaud and the Paris Commune
(1988); Fast Cars, Clean Bodies: Decolonization and the Reordering of French Culture (1995); May ’68 and its Afterlives (2002).

Dopo il virus. Osservazioni critiche sull’odierna “critica critica”


di Rino Genovese

Si sente spesso ripetere che la recente pandemia avrebbe approfittato della globalizzazione per diffondersi nelle grandi aree metropolitane del mondo. Ciò non fa che registrare un dato: la velocità con cui si è propagato il virus è il frutto dell’intensificazione dei traffici commerciali, della delocalizzazione della produzione industriale, del turismo di massa, e così via. Ma tutto questo, pur vero, non mette a fuoco un aspetto essenziale. Che è il seguente: le epidemie hanno flagellato la storia dell’umanità nel corso dei secoli, magari con più lentezza ma inesorabilmente. Tuttavia da molti decenni non sembrava più possibile qualcosa di così devastante, almeno nello sviluppato mondo occidentale. A voler richiamare il concetto di “società del rischio”, introdotto da Ulrich Beck, ci troveremmo sfasati: perché quella nozione si riferiva piuttosto al rischio nucleare ed ecologico in senso lato, non alla ripresa di un tipo di devastazione che sembrava far parte del passato. Invece la sorprendente novità dell’epidemia consiste proprio nel suo carattere arcaico. Essa è una delle forme in cui il passato ritorna nel presente, mettendo una volta di più fuori causa, se ancora ve ne fosse bisogno, la nozione di un progresso univoco e lineare. Si potrebbe dire (al netto di ogni tesi insulsamente complottista), è la natura che si ripropone nella cultura in quanto suo ineliminabile retroterra. Si tratta di una natura che, mostrando la sua smorfia terribile, si fa beffe della cultura – ma così rientrando in essa come un aspetto ancora una volta proprio della cultura. E di conseguenza come un oggetto interno allo stesso dibattito politico.

Ha dunque pienamente ragione Aldo Garzia, nell’articolo pubblicato nella sezione “commenti” di questo stesso sito, a sostenere che il virus spinge a ripensare alcune delle nostre categorie politiche fondamentali, a cominciare dal nesso tra i diritti e la libertà. C’è un momento “libertario” nel liberalismo dominante che è del tutto vuoto, ed è altra cosa dalla “libertà sociale” propria del socialismo. Il primo si lascia riassumere nel diritto a una libertà di movimento astratta: un individuo non può essere trattenuto in alcun modo se non quando violi la libertà altrui: per esempio nel caso di un’aggressione fisica a un altro individuo, o anche quando metta in questione il “diritto soggettivo” di questi, come può essere il diritto di proprietà, entrando, poniamo, nel suo giardino senza permesso. Ma che questa libertà – detta “negativa” in quanto consiste nel non ledere il diritto altrui – possa essere limitata in senso “positivo”, come quando si tratti di salvaguardare la salute di una collettività colpita da un’epidemia, questa libertà sociale, orientata non a un diritto individuale astratto ma in questo caso a una più concreta “questione di vita o di morte” che riguarda tutti, è vista come qualcosa d’insopportabile dagli esponenti di un liberalismo estremo. E appare altrettanto insopportabile – occorre sottolinearlo – secondo la prospettiva anarco-individualista (neo-stirneriana, la si potrebbe definire) di una parte dell’odierno pensiero cosiddetto critico.

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Lo spazio urbano tra socialità insorgente e barbarie

A proposito di Una città per tutti. Diritti, spazi, cittadinanza, a cura di Alessandra Criconia (Donzelli 2019)

Mario Pezzella

Nella situazione estrema che stiamo vivendo, il concetto di spazio sociale di Lefebvre mostra una tragica attualità. Lo spazio urbano è sociale perché è o dovrebbe essere fonte di interazioni umane, ma lo è anche in senso negativo e deformato. Diventa allora l’espressione dei rapporti e delle gerarchie di potere del capitale, che si estroflettono nella disposizione delle strade, nelle divisioni tra centro e periferia, nel sorgere di muri virtuali e materiali. Comunque sia, esso implica sempre un’articolazione architettonica e urbanistica di relazioni sociali, la loro espressione. E quando una società entra in una crisi radicale ciò rimane vero: ma il modo in cui le parole e le cose spartiscono lo spazio esprime la disarticolazione e il vuoto di un ordine simbolico in disfacimento.

Leggiamo questa descrizione di Berlino nel 1932, di Siegfried Kracauer: «[…] Ora la crisi si vede a ogni angolo di strada […]. Non sono solo i grandi appartamenti ad essere vuoti, anche i caffè sono semivuoti nei giorni feriali […], le strade sono piene di mendicanti, una foresta di mendicanti che si fatica ad attraversare si è introdotta nella città e ricopre l’asfalto. La sera, nelle strade un tempo animate fino a tarda notte, regna una calma strana che ci interroga. Le persone si disperdono rapidamente, restano a casa o sono finite chi sa dove. Si direbbe che esse si rintanano come animali per essere soli con la loro miseria». Kracauer descrive qui uno spazio devastato dalla crisi economica, mentre noi potremmo dire di essere oggi investiti da un flagello naturale, di cui neanche i potenti del mondo sono direttamente responsabili. Ma chi potrebbe negare che la virulenza del contagio non dipenda in certa misura dal folle atteggiamento che il capitale ha imposto verso la natura e dalla violenza irrazionale con cui ha costruito le sue immense megalopoli?

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Napoli è il mondo


di Antonio Tricomi

[Articolo uscito sulla rivista on-line Fatamorgana]

«Il caos della plebe – in cui precipitano i frantumi di classi decomposte, culture in declino, popoli vinti – è esso stesso un prodotto dello sviluppo del capitale. I senza voce hanno perso una parola che possedevano, sono stati espropriati della identità originaria, e non hanno accesso al linguaggio astratto della modernità del capitale».

Questa la tesi di fondo propostaci da Mario Pezzella in Altrenapoli (Rosenberg & Sellier). Libro che non ritrae il nostro tempo – una sorta di riaffiorato medioevo: in cima, una casta socialmente impune di signori e, alla loro mercé, un’indistinta massa di monadi vieppiù umiliate nella propria dignità – come un mero incidente di percorso sulla via della modernizzazione capitalistica. Invece, esso lo giudica l’esito naturale del plurisecolare dominio di un capitale che, «nella sua storia passata e presente», sempre si è confermato «un processo attivo di privazione di diritti, di soggettività e di parola», costringendo «interi ceti sociali che possedevano un “saper fare” specifico» a scivolare «nell’amorfia della plebe», a veder schiantato il proprio «statuto simbolico», a stiparsi in «un non essere di compattezza e mutismo». Gli attuali fenomeni di plebeizzazione patiti, nel mondo intero, dalle varie comunità nazionali discendono cioè, per Pezzella, dall’ormai incontrastato processo di accumulazione capitalistica, pronto altresì a convertire in «prodotto» ciascuna nostra città, se «lo spazio in cui si svolge la vita quotidiana è divenuto esso stesso merce in ogni sua piega». Se «l’urbano, che ha sostituito la città, non ha un nucleo unico e riconoscibile, ma si disperde poliedricamente in più centri commerciali». E se tale «processo di urbanizzazione è dunque al contempo di ruralizzazione: l’amorfa continuità dell’una nell’altra sostituisce l’antica dialettica di città e campagna». Continua a leggere “Napoli è il mondo”

Altrenapoli

AltrenapoliQuesto libro si interroga sul modo in cui alcuni scrittori e registi cinematografici hanno descritto il rapporto tra intellettuali e plebe a Napoli dal secondo dopoguerra a oggi e come esso si sia articolato in alcuni momenti decisivi della storia della città.
Il popolo o la «classe» dotati di soggettività e unità, sorta di aristocrazia degli oppressi, sono stati sovente opposti alla plebe, considerata con disprezzo come un sottoproletariato manipolabile dal fascismo e dal populismo. Questa distinzione è troppo rigida.

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Perché Battisti?

Cesare Battisti

di Mario Pezzella

Che un detenuto sconti la pena per cui è stato condannato rientra in quella che si conviene di chiamare la nostra civiltà giuridica, anche se condivido la posizione espressa in questo sito da Rino Genovese sulla necessità di un nuovo processo per Cesare Battisti1; che un detenuto, chiunque esso sia, sia esposto a un disgustoso ludibrio mediatico, moralmente linciato, e sottoposto a misure detentive disumane e ingiustificate (dato che è difficile supporre che Battisti abbia un potere di evasione o di comando simili a quello dei capi mafiosi o di Carminati) è invece un puro segno di barbarie pregiuridica; forse anche di rammollimento cerebrale, come traspare dal video ignobile postato dal ministro della giustizia.

Ma lasciando la cronaca del caso, vorrei fare qualche riflessione di carattere più generale. Perché ministri del governo italiano, a quarant’anni di distanza dai crimini di cui è accusato, allestiscono un buffonesco trionfalismo mediatico sull’arresto di Cesare Battisti?

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Proposta di una rivista

Altraparoladi Mario Pezzella

Questo volume è dedicato a Miguel Abensour, il grande filosofo francese della politica, scomparso nel 2017. Non vuol essere solo un omaggio, ma una riflessione sulle più importanti linee di pensiero che egli ci ha lasciato in eredità. La sua opera, nonostante alcune traduzioni, è ancora relativamente poco conosciuta in Italia: noi pensiamo che i temi da lui trattati – l’utopia, il totalitarismo, la servitù volontaria – richiedano l’ora della loro leggibilità, pretendano anzi con urgenza di essere meditati, di fronte al possibile ritorno di una barbarie autoritaria e razzista. Questo volume prefigura un lavoro più generale, che prenderà probabilmente la forma di una rivista nel prossimo futuro: Altraparola. Il nostro pare uno di quei momenti della storia che Benjamin definiva col termine di “dialettica in stato di sospensione” o “in sospeso” o “sospesa”. Le forze in conflitto sono tese l’una contro l’altra in modo tale da non riuscire a prevalere o affermarsi in modo da determinare un nuovo evento, un’altra forma di vita o una decisione. “In sospeso” significa qui dunque tutto il contrario che “in quiete”, come tendevano a pensare i pensatori della fine del secolo passato che si illudevano su una fine postmoderna della storia, dei grandi conflitti e delle grandi narrazioni. Le quali sono riprese a ritmo violento (dal fondamentalismo al neofascismo) e non sono purtroppo rassicuranti. Questo non vuol dire che ricordare il pensiero il quale, nel Novecento, si è sforzato di indicare un altro mondo possibile rispetto a quello in cui ora viviamo sia inutile; ma ciò che ci interessa va estratto con cura, con un’operazione critica, da insiemi e apparati concettuali, che non possono più essere assunti nella loro interezza. Ciò vale anche per le tradizioni di teoria critica a cui siamo più legati: la Scuola di Francoforte, Benjamin, Debord e il situazionismo, Arendt, Foucault. L’orizzonte di senso della nostra ricerca è quello di un “socialismo libertario”, che pone al centro – come ebbe a definirlo Marx nei Grundrisse – la nozione di “individuo sociale”.

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Il capitalista e il padrone. Note su Marx e Lacan

di Mario Pezzella

[Relazione presentata al convegno Marx e la critica del presente (novembre 2018) e apparsa, in forma leggermente diversa, in P.P. Poggio, C. Tombola (a cura di), L’ultima rivoluzione. Figure e interpreti del Sessantotto, Brescia, Fondazione Micheletti, 2019].

Non parlerò in questa sede di Lacan in generale; mi limito a ricordare che secondo gli interpreti più autorevoli1 esistono tre periodi nel suo pensiero, con caratteri anche molto diversi: il primo, dominato dalla logica kojeviana-hegeliana del riconoscimento intersoggettivo (la relazione analitica parte da una parola vuota, in cui il paziente si trova nella posizione del servo di fronte a un padrone supposto-sapere; l’analisi rovescia questa dissimmetria, dissolvendo la struttura stessa del rapporto servo-padrone e lasciando emergere la singolarità irriducibile del soggetto e del suo desiderio); il secondo dominato dalla concezione dell’inconscio come linguaggio e dallo strutturalismo dell’ordine simbolico; il terzo in cui l’onnipotenza di questo ordine si sgretola, di fronte all’impossibilità di assorbire completamente nel simbolico pulsioni e singolarità soggettive (o ciò che Lacan chiama l’irriducibile e perturbante Reale)2. Noi ci occuperemo solo di quest’ultimo periodo e precisamente di alcuni nodi problematici in cui Lacan si confronta col pensiero di Marx ed emerge la sua concezione dell’inconscio sociale. Scarto di proposito quelli che si prestano solo a una vaga analogia e mi rivolgerò a tre livelli o tre gradi di pensiero: il discorso del capitalista, il lato osceno del potere, l’alienazione.

Nel corso di scritti e seminari tenuti negli anni dal 1968 in poi3, Lacan ha sempre più distinto un «discorso del capitalista» dal tradizionale «discorso del padrone». Il primo sarebbe caratterizzato da una inedita «ingiunzione al godimento», caratteristica del capitalismo nella sua fase di dominio della fantasmagoria consumista delle merci, mentre il secondo era ancora dominato dal rapporto servo-signore e dalla lotta per il riconoscimento. Questa riflessione di Lacan è direttamente condizionata dagli eventi del ’68 e dal difficile dialogo con gli studenti in rivolta, i quali, secondo Lacan, avrebbero continuato a ragionare pensando a un «padrone repressivo» nei riguardi del desiderio, piuttosto che a un capitalista produttore di godimento consumistico.

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Il discorso del capitalista. Tra Marx e Lacan

di Mario Pezzella

Nel corso di scritti e seminari tenuti negli anni dal 1968 in poi, Lacan ha sempre più distinto un “discorso del capitalista” dal tradizionale “discorso del padrone”. Il primo sarebbe caratterizzato da una inedita “ingiunzione al godimento”, caratteristica del capitalismo nella sua fase di dominio della fantasmagoria consumista delle merci, mentre il secondo era ancora dominato dal rapporto servo-signore e dalla lotta per il riconoscimento.

Questa riflessione di Lacan è direttamente condizionata dagli eventi del Sessantotto e dal difficile dialogo con gli studenti in rivolta, i quali, secondo Lacan, avrebbero continuato a ragionare pensando a un “padrone repressivo” nei riguardi del desiderio, piuttosto che a un capitalista produttore di godimento consumistico. Oltre che essere direttamente ispirata dagli eventi degli anni in cui si svolgeva il seminario, tale riflessione permette di avviare una riflessione sulla categoria di “inconscio sociale” (distinguendolo da inconscio personale e collettivo) e del suo attuale rapporto con le forme del capitale.

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CICLO DI SEMINARI SULL’INCONSCIO SOCIALE | 2018-2019

Locandina inconscio

I seminari si propongono di riflettere  sull’intersezione tra psicanalisi e politica, tra inconscio collettivo e ordine dominante, sulla
necessità di ogni forma di dominio di affermarsi non solo come regime di sovranità e di violenza, ma anche come regime del desiderio, che
conduca il più possibile a una irriflessa servitù volontaria.
In qual modo i processi inconsci del desiderio ci inducono ad accettare le forme del dominio? In qual modo possono entrare in contraddizione con
esse e sorreggere un’immaginazione utopica del futuro?

ROMA I seminari romani si terranno presso l’Università di Roma3, Dipartimento di Filosofia
(aula Matassi), Via Ostiense, 234 – Fermata Marconi metro linea B

FIRENZE I seminari fiorentini si terranno presso
la Sms Rifredi, Via Vittorio Emanuele II, 303 – Fermata Vittorio Emanuele II tramvia linea T1

Concluderà i seminari una giornata di discussione comune, presso la Sms Rifredi, Firenze.

Firenze, Mercoledì 24 ottobre, ore 15
Marx: le maschere del capitale e gli oggetti feticcio
introduce Roberto Finelli

Firenze, Mercoledì 21 novembre, ore 15
Freud e la psicologia delle masse
introduce Massimo Cappitti

Roma, Mercoledì 12 dicembre, ore 15
Jameson e l’inconscio politico
introduce Marco Gatto

Roma, Mercoledì 23 gennaio, ore15
Jung e l’inconscio collettivo
introduce Stefano Carta

Firenze, Mercoledì 20 febbraio, ore 15
Edward Said: Freud e il non europeo
introduce Daniele Balicco

Roma, Mercoledì 20 marzo, ore 15
Lacan e il discorso del capitalista
introduce Mario Pezzella

Per un gruppo di ricerca sulla sindrome identitaria

Sindrome identitaria

Giuseppe Allegri, Manuel Anselmi, Alberto De Nicola, Renato Foschi, Rino Genovese, Mario Pezzella, Anna Simone

Dalla personalità autoritaria alla crisi dell’identità democratica

Circa settant’anni fa veniva pubblicata la celebre ricerca su La personalità autoritaria condotta tra il 1944 e il 1949 da T.W. Adorno, E. Frenkel-Brunswik, D.J. Levinson e R. Nevitt Sanford (uscita nel 1950 all’interno di una collana dedicata agli Studies in prejudice, a cura di M. Horkheimer e S.H. Flowerman), sostenuta dall’American Jewish Committe e frutto di una collaborazione tra l’impostazione della Scuola di Francoforte, quella della scuola psicoanalitica e ricercatori e ricercatrici di psicologia sociale. Il nostro gruppo intende partire dalla sedimentazione ormai storica di quegli studi per mettere alla prova, con una ricerca specifica, la diagnosi di ordine più generale circa la crisi dell’identità democratica nella sua tradizione liberale, pluralistica e sociale. Nell’ultimo decennio, poi, come conseguenza della grande recessione esplosa nel 2007-2008, si è assistito a una rapida accelerazione della crisi del modello liberale di democrazia fino alla presidenza Trump e al processo Brexit come macro-fenomeni. Il che significa sia la fine conclamata dell’egemonia del “modello atlantico” post-bellico, sia una tendenziale trasformazione della globalizzazione dell’ultimo quarantennio in una sorta di “deglobalizzazione” planetaria.

Siamo oggi alle prese con una riconfigurazione del rapporto governanti e governati, “alto” e “basso”, centro e periferie che, da un lato, sembra riproporre schematizzazioni quasi ottocentesche, visioni elitarie e dirigistiche – l’austerità ordo-liberista e il suo speculare “doppio” nazional-populistico –, mentre, dall’altro, evoca una possibile scomposizione e ricomposizione del demos in un’idea e pratica di cittadinanza attiva intesa come nuova politeia, in grado di aprire spazi di partecipazione verso un superamento dell’organicismo statual-nazionale.

Si tratta di ritornare a interrogare i soggetti, le forme e le sperimentazioni di azioni collettive per democratizzare la democrazia, con processi gius-generativi, capaci di affermare diritti d’inedita cittadinanza sociale, al di là del nesso sovranità-nazione-lavoro salariato, in sintonia con quella transizione che le innovazioni sociali e tecnologiche hanno indotto ormai da tempo, con vite messe al lavoro sulle piattaforme dell’economia digitale e masse di donne e uomini alla ricerca di una vita degna attraverso i flussi migratorî.

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La Comune di Parigi, un urbanesimo rivoluzionario

Mario Pezzella

[Intervento al convegno “Diritto alla città”, Roma, 24-25 novembre 2016]

La Comune – il suo tentativo di rivoluzionare lo spazio urbano e sociale – rappresenta per Lefebvre un possibile sconfitto e represso nel passato, ma che pure può ripresentarsi attuale nel presente. Quest’idea è legata alla concezione filosofica generale di Lefebvre, secondo cui la realtà storica è una pluralità di possibili coesistenti, e non solo la linea maestra e univoca del progresso imposta dai vincitori del momento. In condizioni mutate, un possibile prima sconfitto può riattualizzarsi e modificare retrospettivamente la nostra percezione del passato nel suo insieme: d’altra parte il possibile nel senso in cui ne parla Lefebvre non è una fantasia arbitraria sostituibile con altre, ma possiede una sua oggettività storica documentabile e ricostruibile, benché dimenticata o posta fuori dall’ordine del discorso: “Il passato diviene o ridiviene presente in funzione della realizzazione dei possibili oggettivamente inclusi nel passato. Esso si svela e si attualizza con essi”1. La Comune è un possibile di questo tipo e in questo senso, anzi è un nesso di possibiltà che investe tutti i campi e i settori della vita associata. Ovviamente è qui impossibile considerare tutti gli aspetti politici, istituzionali, artistici, linguistici, giuridici, coinvolti dall’utopia rivoluzionaria della Comune secondo Lefebvre. Ci limiteremo a considerare alcune osservazioni che egli dedica al modo in cui la Comune ha considerato la città e il suo destino storico.

Tra gli obiettivi della Comune, c’era la riappropriazione della città, che le trasformazioni di Haussmann avevano iniziato a rendere estranea agli strati popolari della città. D’altra parte questa estraniazione non è in quell’epoca completa, gli spazi e gli edifici della città ancora si contrappongono secondo strutture simboliche distinte, sono ancora una proiezione spaziale delle separazioni sociali e lavorative: “La Parigi militare e la Parigi ufficiale (statuale e governamentale) con i loro palazzi, i loro monumenti e le loro strade, proiezione sul terreno della struttura sociale e politica, si sovrappongono senza soffocarla alla Parigi popolare”2. La città è trasfigurata da una estesa immaginazione mitica, che diviene essa stessa parte della lotta politica, appare come “Città santa”, Gerusalemme e Terra Promessa, dal cui possesso dipende per intero la salvezza degli abitanti: “Il popolo ha santificato la Babilonia moderna. La città dei re e degli imperatori diviene la Città santa “assisa ad Occidente” (Rimbaud), Gerusalemme e Roma del mondo moderno”3. La critica generale della separazione – degli spazi, dei lavori, degli universi simbolici – imposta dal capitale è l’intenzione generale della Comune, ed essa investe anche la città come luogo simbolico materiale: La Parigi insorta ha ancora la forza di voler combattere la sovrapposizione della città come luogo centralistico del potere statale alla dispersione e alla festa della vita popolare della città (di questa lotta è sintomo e simbolo l’abbattimento della colonna Vendôme ).

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Teoria critica ieri e oggi

Teoria critica ieri e oggi

 

10 maggio 2017
h. 10.00- 17.30

sala Consiliare complesso S. Lucia di Ferrara
via Ariosto 35

I. Mattina
presiede Matteo d’Alfonso (Ferrara)

10:15 Rino Genovese (Pisa)
Dalla teoria critica della società alla teoria sociale critica

11:00 Stefano Petrucciani (Roma)
Axel Honneth e l’idea del socialismo

11:45 Pausa caffè

12:00 Laura Bazzicalupo (Salerno)
Il pensiero concreto: la critica non normativa post-strutturalista

13:00 Pausa pranzo

II. Pomeriggio

presiede Marco Bertozzi (Ferrara)

14:30 Mario Pezzella (Pisa)
Immagine di sogno e immagine dialettica: il disaccordo tra Benjamin e Adorno

15:15 Barbara Carnevali (Parigi)
Una critica del riconoscimento

16:00 Pausa caffè

16:15 Filippo Domenicali (Ferrara)
Critica della ragione neoliberale: Foucault e Rosanvallon

Lo scrittore al tempo di Pasolini

Pasolini

 

PASOLINI E LA PLEBE DI NAPOLI

di Mario Pezzella

[Traccia dell’intervento al convegno dell’11-12 novembre a Casarsa]

In una recente intervista (su “Tysm”) M. Hardt ha detto come Pasolini fosse costantemente alla ricerca di un fuori: fuori del neocapitalismo consumista, della modernità, della “informe accidia” della omologazione. Un fuori che Hardt contrappone all’antagonismo interno, che nasce cioè da un soggetto rivoluzionario all’interno stesso del capitale, così come il proletariato –secondo Marx – è generato da quelle stesse forze del capitale che è destinato a vincere e superare. Pasolini non credeva a questo antagonismo interno, di classe, e da questo punto di vista prendeva le distanze dal marxismo, pur condividendone molte istanze critiche. Questo fuori, che lui cercava, ha ricevuto diverse incarnazioni nelle sue opere, dai borgatari romani, ai popoli premoderni dello Yemen o dell’India: una di queste incarnazioni è la plebe di Napoli, una resilienza ostinata del premoderno – secondo lui – all’interno della modernità. Tracce consistenti di questa visione si trovano nel Decameron e poi in Lettere Luterane, nei paragrafi in cui dialoghi con un immaginario ragazzo napoletano, Gennariello: “Napoli è ancora l’ultima metropoli plebea, l’ultimo grande villaggio…Questo fatto generale e storico livella fisicamente e intellettualmente le classi sociali. La vitalità è sempre fonte di affetto e ingenuità. A Napoli sono pieni di vitalità sia il ragazzo povero che il ragazzo borghese”.

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