Dopo il virus. Osservazioni critiche sull’odierna “critica critica”


di Rino Genovese

Si sente spesso ripetere che la recente pandemia avrebbe approfittato della globalizzazione per diffondersi nelle grandi aree metropolitane del mondo. Ciò non fa che registrare un dato: la velocità con cui si è propagato il virus è il frutto dell’intensificazione dei traffici commerciali, della delocalizzazione della produzione industriale, del turismo di massa, e così via. Ma tutto questo, pur vero, non mette a fuoco un aspetto essenziale. Che è il seguente: le epidemie hanno flagellato la storia dell’umanità nel corso dei secoli, magari con più lentezza ma inesorabilmente. Tuttavia da molti decenni non sembrava più possibile qualcosa di così devastante, almeno nello sviluppato mondo occidentale. A voler richiamare il concetto di “società del rischio”, introdotto da Ulrich Beck, ci troveremmo sfasati: perché quella nozione si riferiva piuttosto al rischio nucleare ed ecologico in senso lato, non alla ripresa di un tipo di devastazione che sembrava far parte del passato. Invece la sorprendente novità dell’epidemia consiste proprio nel suo carattere arcaico. Essa è una delle forme in cui il passato ritorna nel presente, mettendo una volta di più fuori causa, se ancora ve ne fosse bisogno, la nozione di un progresso univoco e lineare. Si potrebbe dire (al netto di ogni tesi insulsamente complottista), è la natura che si ripropone nella cultura in quanto suo ineliminabile retroterra. Si tratta di una natura che, mostrando la sua smorfia terribile, si fa beffe della cultura – ma così rientrando in essa come un aspetto ancora una volta proprio della cultura. E di conseguenza come un oggetto interno allo stesso dibattito politico.

Ha dunque pienamente ragione Aldo Garzia, nell’articolo pubblicato nella sezione “commenti” di questo stesso sito, a sostenere che il virus spinge a ripensare alcune delle nostre categorie politiche fondamentali, a cominciare dal nesso tra i diritti e la libertà. C’è un momento “libertario” nel liberalismo dominante che è del tutto vuoto, ed è altra cosa dalla “libertà sociale” propria del socialismo. Il primo si lascia riassumere nel diritto a una libertà di movimento astratta: un individuo non può essere trattenuto in alcun modo se non quando violi la libertà altrui: per esempio nel caso di un’aggressione fisica a un altro individuo, o anche quando metta in questione il “diritto soggettivo” di questi, come può essere il diritto di proprietà, entrando, poniamo, nel suo giardino senza permesso. Ma che questa libertà – detta “negativa” in quanto consiste nel non ledere il diritto altrui – possa essere limitata in senso “positivo”, come quando si tratti di salvaguardare la salute di una collettività colpita da un’epidemia, questa libertà sociale, orientata non a un diritto individuale astratto ma in questo caso a una più concreta “questione di vita o di morte” che riguarda tutti, è vista come qualcosa d’insopportabile dagli esponenti di un liberalismo estremo. E appare altrettanto insopportabile – occorre sottolinearlo – secondo la prospettiva anarco-individualista (neo-stirneriana, la si potrebbe definire) di una parte dell’odierno pensiero cosiddetto critico.

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L’Italia s’è Destà?

di Stela Xhunga

La statua di Indro Montanelli è lì, ripulita dalla vernice e dalla scritta “razzista stupratore”, un telo di cellophane tutt’intorno e del guano sopra. Un buon compromesso da cui partire per abbozzare un ragionamento che superi le pose da bodybuilders degli intellettuali in scena da settimane. Da una parte, quelli di destra, per lo più nipotini spuntati dalla manica di Montanelli, forti di quel tanto al chilo di tirocinio nei giornali “quando c’era lui” a dirigerli, il giusto per dire “sono della scuola di Montanelli”, posizionarsi, e vivere di rendita; dall’altra, quelli di sinistra, incapaci di qualsiasi tipo di azione incisiva contro, uno a caso, il Decreto Sicurezza ancora in vigore. Tutti parimenti iperproiettivi, accaloratissimi, famelici intorno a una statua. Deve stare lì dove sta, scandiscono con tono fintamente blasé i cosiddetti liberal. Va abbattuta, dicono gli altri. E come biasimarli. Mentre si trovava in Etiopia in veste di militare e colonizzatore fascista, Montanelli ha stuprato una bambina eritrea dodicenne venduta dalla famiglia, sposandola secondo la pratica del “madamato” che permetteva ai cittadini italiani nelle colonie di accompagnarsi temporaneamente con donne native, facendo attenzione affinché dall’unione non ne nascesse un figlio. (Solo con la promulgazione delle leggi razziali e del RdL n. 880 del 19 aprile 1937, con le “Sanzioni per i rapporti di indole coniugale tra cittadini e sudditi in virtù della protezione della razza italiana”, il fenomeno del madamato si arrestò). Il modo in cui Montanelli parlava di Destà, non su un bollettino fascista nel 1930, ma sul Corriere della sera nel 2000, solo vent’anni fa, è semplicemente aberrante:

Faticai molto a superare il suo odore, dovuto al sego di capra di cui erano intrisi i suoi capelli, e ancor di più a stabilire con lei un rapporto sessuale perché era fin dalla nascita infibulata: il che, oltre a opporre ai miei desideri una barriera pressoché insormontabile (ci volle, per demolirla, il brutale intervento della madre), la rendeva del tutto insensibile.

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Marx e la critica del presente

Marx duecento anni dopo: un’eredità alla prova.

Testi di:

Roberto Finelli

Ferruccio Andolfi

Luca Basso

Stefano Petrucciani

Tania Toffanin

Rino Genovese

Vittorio Morfino

Federica Giardini

Riccardo Bellofiore

Maurizio Ricciardi

Jamila M.H. Mascat

Giorgio Cesarale

Michele Prospero

Marco Gatto

Marco Gatto insegna Teoria della letteratura presso l’Università della Calabria. Ha pubblicato i seguenti volumi: Fredric Jameson. Neomarxismo, dialettica e teoria della letteratura (2008), L’umanesimo radicale di Edward W. Said. Critica letteraria e responsabilità politica (2012), Marxismo culturale. Estetica e politica della letteratura nel tardo Occidente (2012), Glenn Gould. Politica della musica (2014), L’impero in periferia. Note di teoria, letteratura e politica (2015), Nonostante Gramsci. Marxismo e critica letteraria nell’Italia del Novecento (2016) e Resistenze dialettiche. Saggi di teoria della critica e della cultura (2018). 

Il capitalista e il padrone. Note su Marx e Lacan

di Mario Pezzella

[Relazione presentata al convegno Marx e la critica del presente (novembre 2018) e apparsa, in forma leggermente diversa, in P.P. Poggio, C. Tombola (a cura di), L’ultima rivoluzione. Figure e interpreti del Sessantotto, Brescia, Fondazione Micheletti, 2019].

Non parlerò in questa sede di Lacan in generale; mi limito a ricordare che secondo gli interpreti più autorevoli1 esistono tre periodi nel suo pensiero, con caratteri anche molto diversi: il primo, dominato dalla logica kojeviana-hegeliana del riconoscimento intersoggettivo (la relazione analitica parte da una parola vuota, in cui il paziente si trova nella posizione del servo di fronte a un padrone supposto-sapere; l’analisi rovescia questa dissimmetria, dissolvendo la struttura stessa del rapporto servo-padrone e lasciando emergere la singolarità irriducibile del soggetto e del suo desiderio); il secondo dominato dalla concezione dell’inconscio come linguaggio e dallo strutturalismo dell’ordine simbolico; il terzo in cui l’onnipotenza di questo ordine si sgretola, di fronte all’impossibilità di assorbire completamente nel simbolico pulsioni e singolarità soggettive (o ciò che Lacan chiama l’irriducibile e perturbante Reale)2. Noi ci occuperemo solo di quest’ultimo periodo e precisamente di alcuni nodi problematici in cui Lacan si confronta col pensiero di Marx ed emerge la sua concezione dell’inconscio sociale. Scarto di proposito quelli che si prestano solo a una vaga analogia e mi rivolgerò a tre livelli o tre gradi di pensiero: il discorso del capitalista, il lato osceno del potere, l’alienazione.

Nel corso di scritti e seminari tenuti negli anni dal 1968 in poi3, Lacan ha sempre più distinto un «discorso del capitalista» dal tradizionale «discorso del padrone». Il primo sarebbe caratterizzato da una inedita «ingiunzione al godimento», caratteristica del capitalismo nella sua fase di dominio della fantasmagoria consumista delle merci, mentre il secondo era ancora dominato dal rapporto servo-signore e dalla lotta per il riconoscimento. Questa riflessione di Lacan è direttamente condizionata dagli eventi del ’68 e dal difficile dialogo con gli studenti in rivolta, i quali, secondo Lacan, avrebbero continuato a ragionare pensando a un «padrone repressivo» nei riguardi del desiderio, piuttosto che a un capitalista produttore di godimento consumistico.

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Marxismo dell’astrazione e critica della cultura

di Marco Gatto

Nel contributo si sostiene che l’attualità del pensiero di Marx consista nel valore gnoseologico e politico attribuito alla nozione di “astrazione reale”, così come viene sviluppata nelle pagine del Capitale. Tale categoria permette di dar conto oggi del nesso inscindibile tra totalizzazione capitalistica e produzione di soggettività appunto astratta, svuotata delle sue determinazioni concrete e votata a un’esposizione fraudolenta del proprio Sé nelle forme nichilistiche del simulacro e della cultura distrattiva.

Incontrando così un nuovo ordine simbolico, costituito dall’estetizzazione del quotidiano, il capitale si presenta oggi come garante di un sistema culturale profondissimo, entro il quale viene a dissimularsi il suo dominio e, come ha scritto, István Mészáros, la sua ambizione metabolica. Il marxismo dell’astrazione rappresenta il contraltare dialettico di questa dimensione nuovamente alienante, un possibile arnese teorico per riabilitare un sapere critico realmente capace di opposizione che però non resti avvinghiato alle contraddizioni del passato e si presenti aperto alle sfide del presente.

CICLO DI SEMINARI SULL’INCONSCIO SOCIALE | 2018-2019

Locandina inconscio

I seminari si propongono di riflettere  sull’intersezione tra psicanalisi e politica, tra inconscio collettivo e ordine dominante, sulla
necessità di ogni forma di dominio di affermarsi non solo come regime di sovranità e di violenza, ma anche come regime del desiderio, che
conduca il più possibile a una irriflessa servitù volontaria.
In qual modo i processi inconsci del desiderio ci inducono ad accettare le forme del dominio? In qual modo possono entrare in contraddizione con
esse e sorreggere un’immaginazione utopica del futuro?

ROMA I seminari romani si terranno presso l’Università di Roma3, Dipartimento di Filosofia
(aula Matassi), Via Ostiense, 234 – Fermata Marconi metro linea B

FIRENZE I seminari fiorentini si terranno presso
la Sms Rifredi, Via Vittorio Emanuele II, 303 – Fermata Vittorio Emanuele II tramvia linea T1

Concluderà i seminari una giornata di discussione comune, presso la Sms Rifredi, Firenze.

Firenze, Mercoledì 24 ottobre, ore 15
Marx: le maschere del capitale e gli oggetti feticcio
introduce Roberto Finelli

Firenze, Mercoledì 21 novembre, ore 15
Freud e la psicologia delle masse
introduce Massimo Cappitti

Roma, Mercoledì 12 dicembre, ore 15
Jameson e l’inconscio politico
introduce Marco Gatto

Roma, Mercoledì 23 gennaio, ore15
Jung e l’inconscio collettivo
introduce Stefano Carta

Firenze, Mercoledì 20 febbraio, ore 15
Edward Said: Freud e il non europeo
introduce Daniele Balicco

Roma, Mercoledì 20 marzo, ore 15
Lacan e il discorso del capitalista
introduce Mario Pezzella

Con Mimmo Lucano, per l’utopia concreta

Mimmo Lucanodi Marco Gatto

Siamo solo all’inizio, qualcuno dice. E non a torto. Ai toni virulenti della campagna elettorale di qualche mese fa rispondono oggi gli schiamazzi tribunizi di Matteo Salvini, nuovo titolare degli Interni, e le inconsistenze retoriche di Luigi Di Maio, capo politico dei pentastellati: da una parte, il fascio-leghismo; dall’altra parte, il grillismo qualunquista, che con il primo va tranquillamente a braccetto, dimostrando la propria mancanza di spina dorsale. Non riuscirà il premier incaricato a moderare queste pericolose emanazioni del post-berlusconismo, dal momento che e Salvini e Di Maio incarnano perfettamente lo spirito dei tempi che si è impadronito del nostro Paese. Dietro il volto apparente del governo di scopo, condito di una buona dose di ministri tecnici, si cela una non ancora meglio codificata narrazione identitaria, qualcosa che del populismo ha solo in una minima parte le sembianze. Perché più a una forma di retrivo tribalismo somiglia che a uno stile politico contrassegnato dalla semplificazione retorica di certe istanze.

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In memoria di István Mészáros

Mészárosdi Marco Gatto

[István Mészáros è scomparso il 1° ottobre 2017. Per onorarne la memoria, ripubblico qui la mia recensione a Oltre il capitale, apparsa sul quotidiano “il manifesto” il 25 agosto 2017. – M. G.]

István Mészáros, classe 1930, è forse il solo allievo diretto di Lukács che non abbia ricusato la lezione del maestro, con l’ovvia ambizione di riformularla e renderla attuale. Oltre il capitale. Verso una teoria della transizione (Milano, Punto Rosso, pp. 908, euro 40) è un lavoro monumentale, una sorta di compendio sistematico per l’analisi del capitalismo contemporaneo, un’opera per certi aspetti straniante, perché legata a una tradizione di analisi e di proposta filosofico-politica distante dall’impressionismo teorico dei nostri tempi. Per questo la scelta coraggiosa dei curatori (Nunzia Augeri e Roberto Mapelli) di presentarla nella sua completezza marmorea dev’essere apprezzata e sottolineata: del resto, se il marxismo ha l’ambizione di porsi come visione alternativa al dominio del capitale, la sua validità, in un momento che sembra decretarne la scomparsa o l’integrazione, passa da una verifica concettuale permanente, che di certo costa tempo e fatica.

Mészáros è uno hegelo-marxista; da Lukács ha acquisito la necessità di un pensiero della totalità, e ha reso questo concetto più dinamico attraverso lo studio di Sartre. Ma, in ragione di un oltrepassamento di tali importanti riferimenti, è convinto che l’oggetto ultimo della riflessione debba essere il superamento del capitale e, in particolare, la forma assunta dalle sue crisi strutturali. L’offensiva socialista si gioca, per Mészáros, sul terreno di una politica radicale che pone il lavoro come premessa della transizione: proprio perché il capitale gioca la sua partita sulla divisione del lavoro (che perdura, sottolinea lo studioso, anche laddove il capitalismo non sembra sussistere, com’è accaduto in Unione Sovietica) e sul suo controllo, è l’occupazione a costituire il vero fattore della trasformazione sociale. La liberazione pertiene al lavoro e alle modalità con cui quest’ultimo viene strutturato in una società liberata: senza una politica in grado di accordare al lavoro le qualità determinanti che secondo Marx poneva in essere, senza una politica che trovi nel lavoro un esempio differente di socializzazione, non può darsi transizione al socialismo. La lezione dell’ultimo Lukács ridiventa qui centrale.

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Il nesso tra i totalitarismi e i populismi

di Marco Gatto

[Questo articolo è apparso su “il manifesto” del 17 ottobre 2016]

Totalitarismi e populismiCon Totalitarismi e populismi (manifestolibri, pp. 96, 8 euro) Rino Genovese ripropone una visione della storia come compresenza e ibridazione di tempi storici differenti, legandola all’analisi specifica dei due fenomeni menzionati nel titolo. Nel caso dei totalitarismi novecenteschi e delle loro conseguenze, si tratta di capire come essi siano la manifestazione di una modernità che non riesce mai perfettamente a compiersi, di un passato che non riesce mai a passare, generando così una coalescenza di tempi storici diversi che mette capo a un’impossibile realizzazione delle promesse del moderno. Ciò che appare imprevedibile, tuttavia, di contro all’apparente stasi cui la modernità si condannerebbe, è proprio il modo in cui il passato si miscela al presente, la combinazione in cui vecchio e nuovo si danno. La cultura occidentale moderna, sottolinea Genovese, vive alla luce di questo continuo confronto con l’alterità, che, per essere acquisita o superata, è sottoposta a un processo di ibridazione: l’Occidente da sempre si costituisce a partire dal suo “altro”, ma questo tentativo di assorbimento dell’alterità è costretto alla parzialità, secondo i termini di uno «sradicamento mai completamente portato a termine», che lo condanna alla presenza ossessiva di una non-contemporaneità.

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L’immaginario fantastico della società amministrata

Critica della trasparenzadi Marco Gatto

[Questa recensione è apparsa su “il manifesto” del 3 settembre 2016]

Il mito della trasparenza, del palazzo di vetro, dell’assoluta visibilità sembra aver trovato, oggi, la sua piena realizzazione sociale, tanto da vederne esaurite le spinte propulsive e le tensioni utopiche, che avevano invece contrassegnato la sua vita almeno a partire dal secolo dei Lumi. Oggi la trasparenza è un lasciapassare politico che mette d’accordo tutti: nell’epoca che distrugge a tutti i livelli la mediazione, a beneficio di una superficie che deve neutralizzare e cancellare le tracce della sua emersione, l’ideologia del puramente contemplabile e visibile appare come un’articolazione pervasiva di una più generale tendenza all’ostensione e all’esposizione. Essere in vetrina ed essere trasparenti: due imperativi da seguire e due pratiche di depoliticizzazione.

In un recente e documentato libro, Riccardo Donati traccia la storia culturale e ideologica del concetto di trasparenza, mostrando come esso abbia ottenuto, da due secoli a questa parte, le più diverse declinazioni, fino a giungere alla sua integrazione nello «scenario postdemocratico ipermediatizzato».

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Glenn Gould. Politica della musica

Glenn Gould. Politica della musicaGlenn Gould è ormai un’icona del Novecento. La sua immagine campeggia ovunque si parli o si discuta di musica, quasi alla stregua di un marchio registrato. Eppure la diffusione del mito rischia di rimuovere la profondità del musicista, così attento alle dinamiche sociali e politiche, addomesticando il suo messaggio di interprete negli stereotipi della società dell’estetizzazione diffusa.

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