Lo spazio urbano tra socialità insorgente e barbarie

A proposito di Una città per tutti. Diritti, spazi, cittadinanza, a cura di Alessandra Criconia (Donzelli 2019)

Mario Pezzella

Nella situazione estrema che stiamo vivendo, il concetto di spazio sociale di Lefebvre mostra una tragica attualità. Lo spazio urbano è sociale perché è o dovrebbe essere fonte di interazioni umane, ma lo è anche in senso negativo e deformato. Diventa allora l’espressione dei rapporti e delle gerarchie di potere del capitale, che si estroflettono nella disposizione delle strade, nelle divisioni tra centro e periferia, nel sorgere di muri virtuali e materiali. Comunque sia, esso implica sempre un’articolazione architettonica e urbanistica di relazioni sociali, la loro espressione. E quando una società entra in una crisi radicale ciò rimane vero: ma il modo in cui le parole e le cose spartiscono lo spazio esprime la disarticolazione e il vuoto di un ordine simbolico in disfacimento.

Leggiamo questa descrizione di Berlino nel 1932, di Siegfried Kracauer: «[…] Ora la crisi si vede a ogni angolo di strada […]. Non sono solo i grandi appartamenti ad essere vuoti, anche i caffè sono semivuoti nei giorni feriali […], le strade sono piene di mendicanti, una foresta di mendicanti che si fatica ad attraversare si è introdotta nella città e ricopre l’asfalto. La sera, nelle strade un tempo animate fino a tarda notte, regna una calma strana che ci interroga. Le persone si disperdono rapidamente, restano a casa o sono finite chi sa dove. Si direbbe che esse si rintanano come animali per essere soli con la loro miseria». Kracauer descrive qui uno spazio devastato dalla crisi economica, mentre noi potremmo dire di essere oggi investiti da un flagello naturale, di cui neanche i potenti del mondo sono direttamente responsabili. Ma chi potrebbe negare che la virulenza del contagio non dipenda in certa misura dal folle atteggiamento che il capitale ha imposto verso la natura e dalla violenza irrazionale con cui ha costruito le sue immense megalopoli?

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Utopia ieri e oggi

Utopia ieri e oggidi Rino Genovese

[Intervento per il convegno “Utopia, Distopia, Fantascienza” – Cagliari, 30-31 marzo 2017, Facoltà di studi umanistici, Aula 6]

Se si fosse organizzato un incontro di studi sul pensiero dell’utopia una ventina di anni orsono, saremmo andati tanto controcorrente da sembrare dei matti. Com’è noto, è stato quello il momento del suo massimo discredito. Oggi le cose stanno cambiando: una coscienza utopica si riaffaccia all’orizzonte. Un segnale di insoddisfazione, se non altro, nei confronti dell’esistente. Delineare mondi alternativi – un’attività propria della modernità occidentale – non è affatto ozioso: al contrario, è il sale da inserire in qualsiasi realismo politico, di per sé insufficiente quando si tratta di trasformare il mondo perché spinge ad attenersi ai rapporti di forza puri e semplici. L’utopia è invece quel modo di vedere le cose che rende ardimentosi i più deboli, li spinge a battersi per il «sogno di una cosa» – anche se poi il sogno non si realizza, non può realizzarsi, e pretendere di realizzarlo conduce alla distopia, cioè al rovesciamento dell’utopia (come l’esperienza sovietica ha tragicamente insegnato).

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Il nesso tra i totalitarismi e i populismi

di Marco Gatto

[Questo articolo è apparso su “il manifesto” del 17 ottobre 2016]

Totalitarismi e populismiCon Totalitarismi e populismi (manifestolibri, pp. 96, 8 euro) Rino Genovese ripropone una visione della storia come compresenza e ibridazione di tempi storici differenti, legandola all’analisi specifica dei due fenomeni menzionati nel titolo. Nel caso dei totalitarismi novecenteschi e delle loro conseguenze, si tratta di capire come essi siano la manifestazione di una modernità che non riesce mai perfettamente a compiersi, di un passato che non riesce mai a passare, generando così una coalescenza di tempi storici diversi che mette capo a un’impossibile realizzazione delle promesse del moderno. Ciò che appare imprevedibile, tuttavia, di contro all’apparente stasi cui la modernità si condannerebbe, è proprio il modo in cui il passato si miscela al presente, la combinazione in cui vecchio e nuovo si danno. La cultura occidentale moderna, sottolinea Genovese, vive alla luce di questo continuo confronto con l’alterità, che, per essere acquisita o superata, è sottoposta a un processo di ibridazione: l’Occidente da sempre si costituisce a partire dal suo “altro”, ma questo tentativo di assorbimento dell’alterità è costretto alla parzialità, secondo i termini di uno «sradicamento mai completamente portato a termine», che lo condanna alla presenza ossessiva di una non-contemporaneità.

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