Leggere Rahel Jaeggi in Italia

Rahel Jaeggidi Marco Solinas

[Intervento introduttivo alla giornata di studi con Rahel Jaeggi promossa dalla Fondazione per la critica sociale, Università di Parma, 20 febbraio 2017.]

I cinque saggi raccolti nel volume Forme di vita e capitalismo veicolano una serie di questioni, temi e istanze affrontati dalla nuova teoria critica nel quadro di un ampio dibattito internazionale, che qui da noi non sembrano essere stati ancora pienamente metabolizzati. La maniera in cui Rahel Jaeggi affronta questi snodi rilancia in modo innovativo alcune posture della tradizione della sinistra hegeliana, e credo che possa rivelarsi particolarmente feconda nel quadro delle attuali discussioni anche in Italia. Così come spero che dal processo di ricezione, discussione e ibridazione – di cui questa giornata di studi promossa dalla Fondazione per la critica sociale rappresenta un primo passo – la nuova teoria critica possa a sua volta trarre giovamento, anzitutto rispetto a quelli che potremmo considerare gli specifici deficit inerenti alla dimensione della teoria politica ad essa connaturati.

Vorrei qui delineare tre possibili piste interpretative: 1) la rielaborazione della critica immanente può condurre senza alcuna forzatura, ma anzi naturalmente, al tema del ruolo dell’intellettuale, e più in generale alla riflessione sulle diverse modalità e figure della critica sociale, incrociando la tradizione di matrice gramsciana; 2) l’analisi della forma di vita capitalistica proposta da Jaeggi può contribuire a spostare l’attenzione da un’analisi prevalentemente “biopolitica”, oggi predominante in Italia, al capitalismo quale oggetto teorico prioritario, riattivando così l’eredità della sinistra hegeliana; 3) infine, l’adesione di Jaeggi alla svolta neo-hegeliana può risultare di grande interesse anche rispetto alla problematizzazione dell’eredità del normativismo di orientamento kantiano di Habermas, ben recepito e assimilato negli anni scorsi in Italia, e ora messo in discussione nel profondo.

1) Se la critica immanente dell’ideologia proposta da Jaeggi può forse apparire, a un primo sguardo, come un metodo piuttosto oscuro ripescato dal vecchio armamentario della dialettica hegeliana per perseguire fini altrettanto oscuri, a un’analisi appena più attenta la ripresa della negazione determinata mostra invece di essere un esplicito tentativo di risolvere alcune brucianti questioni inerenti alle forme e ai metodi della critica sociale che continuano a essere dibattute sul piano internazionale. Come esplicitato a più riprese da Axel Honneth, attento anche ai contributi di Luc Boltanski, la rielaborazione e riproposizione del metodo della critica immanente nel quadro della nuova teoria critica può e deve essere interpretata anche come una risposta alla sfida metodologica lanciata da Michael Walzer. L’ormai classico Interpretazione e critica sociale ruotava infatti intorno all’idea di individuare una forma di critica in grado di evitare l’eccessivo distanziamento dalla realtà sociale della filosofia politica e morale rimproverato ad autori contemporanei quali Habermas e Rawls. Problema che, proseguendo lungo il cammino battuto da Walzer nel suo L’intellettuale militante, investe anche lo scollamento paternalistico della prima teoria critica; emblematiche in tal senso le feroci accuse rivolte allo sguardo distaccato, lontano e miope di Marcuse.

Stringiamo però il fuoco sulla nostra pista interpretativa: la problematica delle forme e dei metodi della critica sociale, a iniziare dalla contrapposizione tra critica interna ed esterna qual è delineata da Walzer, rappresenta un trait d’union con la nostra tradizione di pensiero politico. Al di là delle interpretazioni dei singoli aspetti trattati, le sue argomentazioni ci portano infatti direttamente alle questioni concernenti il ruolo dell’intellettuale affrontate in modo originale già da Gramsci. Muovendo da Gramsci (e sul fronte dell’anti-paternalismo e dell’impegno si potrebbero certo prendere in considerazione anche svariati contributi di Pasolini e di altri autori del Novecento italiano), si può allora proseguire in questo processo di ricezione e contemporanea reinterpretazione della critica immanente alla luce della nostra tradizione di pensiero. È questa una via che conduce al nodo cruciale della mancata o perlomeno deficitaria politicizzazione del metodo immanentista: mi pare che risulti del tutto indeterminato lo status del posizionamento socio-politico del critico, o meglio dei (reali) critici di volta in volta in gioco.

2) La centralità conferita da Jaeggi al capitalismo quale forma di vita può contribuire a reinnestare nel dibattitto filosofico italiano una serie di temi, strumenti e prospettive riconducibili alla tradizione della sinistra hegeliana. Elementi che – caduti piuttosto rapidamente e direi rovinosamente nell’oblio dopo aver esercitato una straordinaria influenza nella nostra cultura politica – sono stati parzialmente soppiantati, oppure talvolta ibridati, da una disamina del tema della vita e delle sue forme di taglio biopolitico. Il riposizionamento dell’oggetto teorico “capitalismo”, in Jaeggi, avviene difatti grazie alla ripresa dell’eredità marxiana, mediata però fin da subito dalle interpretazioni dei fondatori della teoria critica, che vengono a loro volta ripensate e attualizzate.

Più da vicino, rifarsi alla prima teoria critica per Jaeggi significa anzitutto riprendere alcuni degli obiettivi e strumenti del programma interdisciplinare mediante cui Horkheimer fondò questo indirizzo di ricerca; ivi inclusa una analisi ad ampio raggio della realtà sociale in grado di aprire e criticare la black box dell’economico. Impostare, dunque, una ricerca che privilegi l’oggetto teorico “capitalismo”, senza mai degenerare nell’economicismo, considerato anzi come una dei peggiori mali del marxismo tradizionale. E attingere al patrimonio della prima teoria critica significa certo anche diagnosticare, sulla scia di Adorno, le deformazioni della forma di vita capitalistica: quella “vita offesa” a cui sono dedicati i Minima moralia ripresi da Jaeggi.

L’analisi dei deficit del capitalismo, sul piano metodologico, rifugge però da ogni rigidità dottrinaria, ancor più di quanto già non avvenisse all’interno della tradizione adorniana, aprendosi anche all’orizzonte teorico del problem-solving. Si evita pertanto il rischio di ritrovarsi nelle strade senza uscita imboccate talvolta dalla prima teoria critica, il cui negativismo, su cui in Italia si è insistito con particolare veemenza, viene superato a monte. Anziché chiudersi a riccio, la nuova teoria critica sembra pertanto pronta a siglare ulteriori alleanze teoretiche, senza però rinunciare ai suoi oggetti di analisi privilegiati.

3) La ricezione di Forme di vita e capitalismo può avere un effetto particolarmente stimolante rispetto al magistero habermasiano, e più in generale nei confronti di un normativismo di taglio kantiano affermatosi anche in Italia. Qui Jaeggi si inoltra decisa sulla strada neo-hegeliana imboccata da Honneth, proseguendola fino a scontrarsi frontalmente con alcune delle categorie strutturali del pensiero di Habermas. La centralità conferita all’eticità, alla Sittlichkeit di Hegel, viene difatti a rappresentare una via per superare un certo formalismo e proceduralismo della filosofia politica e morale. Più in particolare, viene messa esplicitamente in crisi, anche dall’interno, la dicotomia habermasiana moralità/eticità; uno smottamento che si riverbera, seppure solo indirettamente, sulla stessa frattura tra fatti e norme.

La questione riguarda la stessa scelta degli oggetti teorici che si ritiene sia legittimo sottoporre ad analisi critica, perciò le cause retrostanti di tale selezione, e la giustificazione delle finalità che, procedendo nella direzione stabilita, si intendono perseguire. Lo stesso proposito programmatico di dilatare i confini dell’economico determina l’immediata implosione della dicotomia fondativa habermasiana tra mondo-della-vita e sistema economico, e dunque la scomparsa della correlata teoria della “colonizzazione”. Anche in questo caso Jaeggi radicalizza degli stimoli provenienti dalla produzione di Honneth: l’economia morale, riscoperta da Edward Thompson, aveva del resto già rappresentato una delle fonti primarie della honnethiana Lotta per il riconoscimento. Lo spazio teorico liberato dall’estromissione della griglia habermasiana viene ora occupato dalla nuova concezione del capitalismo come forma di vita, o meglio dal tentativo di ri-approntarne una critica. Movimento teorico apparentemente retrogrado – ma nei suoi intenti invero progressivo ed emancipatorio – che permette di accedere nuovamente alla straordinaria eredità che la ricezione e reinterpretazione della sinistra hegeliana ha lasciato in Italia.

In conclusione, queste tre piste interpretative mi paiono delineare delle modalità di ricezione e rilettura della nuova teoria critica di Rahel Jaeggi, fruibili alla luce di questioni, tradizioni e approcci propri del pensiero filosofico e politico italiano. Procedendo in questa direzione, si può forse riuscire anche a bypassare quella sorta di deficit di politicità che pare ripresentarsi a intervalli quasi regolari nel corso della storia della teoria critica – preservandone il peculiare tratto di riflessività e apertura metodologica, e le correlate priorità analitiche e finalità emancipatorie.

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