Gli anarchici e noi. A proposito del volume di Claudio De Boni “Liberi e uguali”

Liberi e uguali

di Rino Genovese

È una sorta di nemesi storica. La prosopopea, l’aria di sufficienza con cui i marxisti più o meno ortodossi guardavano un tempo al pensiero e all’esperienza degli anarchici come a degli arnesi da museo, oggi non hanno più ragion d’essere. Incredibilmente, l’anarchismo si è preso una sua rivincita – pur nella generale eclissi della ricerca intorno a un’alternativa sociale e politica al capitalismo nel mondo contemporaneo. Infatti, non appena ci si voglia allontanare dallo statalismo caratteristico sia della socialdemocrazia sia del comunismo storici, è a prospettive come quella associazionistica e mutualistica, quindi in particolar modo a Proudhon e agli anarchici, che bisogna rivolgersi. Il “socialismo scientifico” ha dimostrato di non essere affatto scientifico: è necessario rifarsi ai “sogni” di un socialismo utopico, dentro cui lo stesso pensiero di Marx, in ciò che contiene di valido, va ricompreso. Il pensiero socialista può ritrovare la strada solo sostituendo, alla pretesa di collocarsi sul fronte d’onda della storia universale, l’idea di una possibilità irrealizzabile, oggi priva di un retroterra in un movimento sociale specifico come fu il movimento operaio, e che però, proprio per questo, può incidere nel corso storico senza doversi piegare ad esso. Il socialismo ha da ereditare, certo con beneficio d’inventario, l’intera sua vicenda e ripensare tutta la tradizione dell’individualismo sociale – che è altra cosa rispetto al puro e semplice collettivismo e alle sue realizzazioni novecentesche.

Sono queste le considerazioni che vengono alla mente chiudendo il bel libro di Claudio De Boni, Liberi e uguali. Il pensiero anarchico in Francia dal 1840 al 1914 (Mimesis 2016). Un volume di 450 pagine, che non si potrebbe definire “agile”, ed è tuttavia molto scorrevole alla lettura. L’autore ricostruisce nel dettaglio lo svolgersi di un pensiero che dal Proudhon del 1840 pone capo a quel “circolo Proudhon” formato da anarco-sindacalisti, o sindacalisti rivoluzionari, e da nazionalisti cattolici e ultrarealisti che insieme, in un terribile connubio, daranno il loro contributo alla catastrofe europea della prima guerra mondiale e alla successiva affermazione dei fascismi. Strascichi di quella vicenda saranno operanti ancora nella Francia di Vichy. Intanto, però, tra la repressione sanguinosa della Comune di Parigi (al cinquanta per cento anarchico-proudhoniana e per l’altro cinquanta giacobino-blanquista) fino allo spartiacque del 1914 quante controversie interne (in particolare tra la corrente anarco-individualista e quella anarco-comunista), quante lotte sociali, quanti attentati terroristici!

De Boni si sofferma, con la carità dello storico, su una serie di autori, e di opuscoli e libelli, per la maggior parte oggi dimenticati. Ridà così vita al passato e alle sue potenzialità latenti. Appare lui stesso stupefatto dinanzi a un coerente estremismo (come quello di Jean Grave, figura di spicco dell’anarchismo francese) che punta tutto sulla scommessa della presa di coscienza e della rivolta spontanea di massa. Una linea che potremmo definire della “propaganda armata”, che intende educare i futuri ribelli attraverso il gesto esemplare e la virtù eroica del tirannicidio, secondo modalità riscontrabili in quegli anni in altri paesi: si pensi agli attentati mirati organizzati dalla corrente “nichilistica” del populismo russo, o al nostro Gaetano Bresci giustiziere del re Umberto (un episodio terroristico, questo, che come ebbe modo di osservare Lelio Basso, aprì tuttavia alla stagione di riforme del giolittismo). È una linea che, al netto della violenza, intende anche essere federativa dal basso, in una maniera che tiene insieme individuo e socialità solidale all’interno di una visione libertaria contrapposta alle forme istituzionali “borghesi” in tutte le sue manifestazioni, dalla famiglia tradizionale allo Stato.

Se nella tempesta della violenza politica di quegli anni è possibile distinguere dei “tipi” (senza pretendere di ricondurre l’intero fenomeno della violenza a un unico modello teorico), diremo che nel primo tipo rientra l’uso di essa come un momento essenzialmente comunicativo in una strategia mirata a suscitare la rivolta; e quanto più, nel tempo, la rivoluzione sociale si farà improbabile o indefinitamente lontana, tanto più il terrorismo diventerà una strategia comunicativa, anche in virtù della cassa di risonanza offerta dai mass media. L’altro tipo di violenza è piuttosto di origine giacobino-blanquista, e lo vedremo poi all’opera soprattutto nella dottrina e nell’azione del partito bolscevico russo: quella di una minoranza organizzata in maniera più o meno settaria, promotrice di una dittatura rivoluzionaria, teorizzata dogmaticamente come dittatura del proletariato. Questo secondo tipo di violenza si coniugherà con l’analisi delle situazioni di crisi indotte dal capitalismo e si presenterà, in un certo senso, come parte della dottrina “scientifica”. Al contrario dell’anarchismo, la funzione del partito politico qui è decisiva: ma, come perfino l’iperleninista Bordiga sosteneva, le rivoluzioni avvengono, non possono essere organizzate secondo modalità cospirative.

Tra questi due poli, va inserito un terzo tipo (e il libro di De Boni è molto istruttivo a questo riguardo) al tempo stesso comunicativo e azionistico – quello della violenza del sindacalismo rivoluzionario, basata sul mito politico soreliano dello sciopero generale, che segnerà, in Francia e altrove, il momento di maggior successo di una prospettiva sostanzialmente anarchica presso ampi settori di massa del movimento operaio. Qui la violenza (in particolare contro le cose: si pensi, per esempio, al sabotaggio della produzione nell’ambito di una lotta di fabbrica) è una sorta di ginnastica rivoluzionaria in attesa del momento-clou in cui sarà sferrato l’attacco decisivo. Metà azione e metà, in quanto mito, comunicazione politica, la violenza diventerà qualcosa di diverso da una “levatrice della storia” orientata al progresso, com’era per Marx: piuttosto sarà intesa come il varco imprescindibile attraverso cui il possibile – qualsiasi possibile, poco importa quale – si realizza nella storia. Si può parlare, a questo proposito, di un culto della violenza. Fino alla tesi estrema secondo cui anche dalla carneficina della guerra mondiale qualcosa di buono verrà fuori.

Sarà questa esaltazione della violenza il punto di non ritorno che segnerà il passaggio di molti militanti dall’estrema sinistra all’estrema destra. L’altro punto sarà dato dalla polemica contro le banche e il potere del denaro, che svilupperà sempre più i suoi tratti antisemiti in un cortocircuito destra-sinistra. In Francia l’alleanza dei tardi seguaci di Proudhon con i monarchici sarà nutrita di disprezzo per l’istituzione parlamentare, di nazionalismo antisemita, di valorizzazione del “produttore” proudhoniano su basi strettamente etniche. Sarà insomma quel “socialismo degli imbecilli” di cui parlerà il socialdemocratico tedesco August Bebel, che entrerà a pieno titolo nella formazione dell’ideologia fascista. Sarà allora gusto bellicistico e conciliazione forzata dei contrastanti interessi di classe nella prospettiva, non a caso di derivazione sindacalista rivoluzionaria, del corporativismo.

Oggi ci siamo lasciati alle spalle tutti i tipi di violenza cui ho fatto riferimento. A lungo abbiamo dovuto contrastarne il culto, e abbiamo dovuto assorbire i disastri che ha provocato anzitutto come anarchia propria del potere, ma anche come forma di opposizione ribellistica votata alla morte. Ciò però non significa dimenticare l’esperienza dell’anarchismo nel suo complesso, che è stata tortuosa ma vitale.

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