Il nesso tra i totalitarismi e i populismi

di Marco Gatto

[Questo articolo è apparso su “il manifesto” del 17 ottobre 2016]

Totalitarismi e populismiCon Totalitarismi e populismi (manifestolibri, pp. 96, 8 euro) Rino Genovese ripropone una visione della storia come compresenza e ibridazione di tempi storici differenti, legandola all’analisi specifica dei due fenomeni menzionati nel titolo. Nel caso dei totalitarismi novecenteschi e delle loro conseguenze, si tratta di capire come essi siano la manifestazione di una modernità che non riesce mai perfettamente a compiersi, di un passato che non riesce mai a passare, generando così una coalescenza di tempi storici diversi che mette capo a un’impossibile realizzazione delle promesse del moderno. Ciò che appare imprevedibile, tuttavia, di contro all’apparente stasi cui la modernità si condannerebbe, è proprio il modo in cui il passato si miscela al presente, la combinazione in cui vecchio e nuovo si danno. La cultura occidentale moderna, sottolinea Genovese, vive alla luce di questo continuo confronto con l’alterità, che, per essere acquisita o superata, è sottoposta a un processo di ibridazione: l’Occidente da sempre si costituisce a partire dal suo “altro”, ma questo tentativo di assorbimento dell’alterità è costretto alla parzialità, secondo i termini di uno «sradicamento mai completamente portato a termine», che lo condanna alla presenza ossessiva di una non-contemporaneità.

Siamo rinviati così a Ernst Bloch, che non a caso parlava di “contemporaneità del non contemporaneo” proprio per spiegare il sorgente nazismo e la guerra che di lì a poco si sarebbe scatenata. Una visione storica (come quella che Croce propose per il fascismo) secondo cui il totalitarismo è una momentanea involuzione non dà conto di questa particolare commistione tra i tempi storici: perciò la storiografia ha piuttosto il compito di vedere «il nuovo profilarsi sotto le vesti del vecchio, e quest’ultimo riapparire come nuovo», studiando dei totalitarismi la «loro caratteristica impossibilità di superare il passato e aprirsi al futuro, quindi del loro ritornare, anche dopo la scomparsa, come tratti o elementi in sospensione in una storia pur tutta diversa, come quella iniziata in Italia dopo la seconda guerra mondiale, che fu a lungo funestata dalla minaccia del colpo di Stato autoritario».

Si comprende allora per quale motivo Genovese abbia voluto legare alle conseguenze dei totalitarismi le premesse dei populismi oggi in ascesa. «Ciò che è populistico è virtualmente totalitario, e ciò che è totalitario è virtualmente populistico», egli scrive. Del populismo chiarisce le due caratteristiche indispensabili: da un lato, la presenza di un capo carismatico-plebiscitario, che può assumere aspetti molteplici, e la tendenza a confondere la distinzione tra una destra e una sinistra. Perché oggi il fenomeno sembra essere così diffuso, tanto da sedurre anche alcuni teorici provenienti dalla sinistra (Laclau, per esempio)? Genovese offre una risposta netta: «[I populismi] sono la formula politica adeguata al caos dell’ibridazione contemporanea», si incardinano, cioè, in una storia che risponde al presente di una modernità al cui interno si incancrenisce la sua fisiologica incapacità di realizzarsi. I populismi dunque radicalizzano l’impasse del moderno che stiamo vivendo. E non potrebbe essere altrimenti, perché dal gioco di una modernità che gira su stessa come una bussola impazzita si esce solo riattivando un momento di rottura utopica (sebbene anche l’utopia possa essere oggetto di gestione culturale).

Convincono particolarmente le pagine di Genovese dedicate al saldarsi del populismo sui processi di disintegrazione della collettività: se l’individuo è sempre più isolato e intrappolato nelle maglie dell’estetizzazione diffusa e dell’individualismo di massa, i populismi s’inseriscono facilmente in tale situazione mediante il richiamo identitario-culturale, anche con la strumentalizzazione delle paure, penetrando sin nel fondo dei comportamenti. Si può aggiungere: simulando una loro presunta portata democratica nella contrapposizione tra il “basso” e l’ “alto”, tra il popolo e le élites. Il leaderismo attuale è una versione rinnovata del carisma, e la supposta partecipazione attraverso la rete una forma di “direttismo” autoritario. Come se ne potrebbe uscire? Per Genovese «i paesi di democrazia occidentale dovrebbero riscoprire quel correttivo interno faticosamente elaborato nel corso della storia che si chiama socialismo», ossia, per dirla con un altro titolo genovesiano, riattivando un «illuminismo autocritico».

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